PARTECIPANTI
Gian, Rosalba e Carlo su Toyota hj61
Vittorio e Augusto su Toyota hj60
Alessandro (Ale) e Martino su Toyota 75
PROLOGO
Fin da quando ero bambino avevo sentito parlare in casa, con orgoglio e venerazione, di quel nostro illustre antenato, Gaetano Casati, geografo ed esploratore vissuto nell’Ottocento, che ha trascorso un importante periodo della sua vita nel Sudan del Sud al seguito di Amin Pascià governatore di quella lontana regione. Siamo ai tempi del generale Gordon, della rivolta del Mahdi e della riconquista di Khartoum da parte degli inglesi. Addirittura nella biblioteca di casa faceva bella mostra di sè il libro “Dieci anni in Equatoria e ritorno con Emin Pascià” edito nel 1891 che Gaetano aveva scritto a ricordo della sua incredibile esperienza. Avevo quindi maturato fin da piccolo il desiderio di visitare questo misterioso paese. Poi in giovinezza, alla fine degli anni sessanta (del secolo scorso!), ero stato a fare immersioni subacquee nel Sudan settentrionale e lì avevo sentito nuovamente parlare del Sud come luogo molto difficile da raggiungere ma misterioso ed affascinante abitato da popolazioni nere (mentre al nord la popolazione è araba) di religione animista. Già allora c’era guerra e raggiungere il Sudan del sud era un’impresa difficile e pericolosa. Così quando nel luglio del 2011 il Sud Sudan ha raggiunto l’indipendenza e la situazione si è fatta relativamente tranquilla, mi è tornata prepotente la voglia di visitare questo paese, certamente spinto anche da quel po’ di narcisismo che ogni “prima” infonde in ogni viaggiatore. Si presentava però il problema di non poco conto di trovare dei compagni di viaggio disposti a correre qualche rischio, e qui devo dire che sono stato molto fortunato perché ho trovato in Vittorio Parigi, un “vecchio africano” entusiasta e disponibile ad ogni esperienza nel continente nero, storico compagno di viaggio di Nino Cirani indimenticato esploratore dell’Africa dei tempi moderni, una sponda immediata. A Vittorio si è poi aggiunto Alessandro Gaetani che aveva la macchina in Tanzania e che ci ha raggiunto a Nairobi,anche lui interessato a questa “prima”. Con Vittorio, sulla mitica e super navigata Silver Fox (Toyota hj60) ha viaggiato Augusto; compagno di Alessandro è stato Martino, mentre con me hanno viaggiato (sopportandomi, pare) Rosalba e Carlo miei storici passeggeri.
21 gennaio 2013
Siamo sbarcati ieri a Nairobi ed abbiamo dormito dai padri Salesiani che hanno ospitato per qualche mese la mia Toyota. Subito un bel problema: la Toyota, assai conciata per essere stata a lungo all’aperto (e l’Air Camping ha subìto un’altra bella mazzata dopo quella di Kampala), non ne vuol sapere di partire; dopo solo poco piu’ di tre mesi di sosta, le batterie sembrano morte. Nemmeno a spinta la macchina, che solitamente parte immediatamente, si mette in moto. La vecchia Toyota, finita in una specie di vicolo cieco nel tentativo di farla partire a spinta, subisce l’onta di essere trainata da una ancor piu’ vetusta e conciata Land Rover. Il meccanico della Land è convinto che manchi gasolio cosi aggiungiamo 20 litri ai circa 50 che secondo le mie annotazioni sono nel serbatoio (l’indicatore del livello del carburante non funziona da quando ho comprato, di settima mano, la macchina). La vecchia signora va in moto a spinta solo dopo aver fatto lo spurgo del gasolio; la lascio girare per una quarantina di minuti sperando che le batterie si ricaricassero almeno un po’, ma è tutto inutile. E’ molto strano perché dopo periodi anche molto piu’ lunghi di inattività è sempre ripartita senza alcun problema. Il meccanico-elettrauto della vecchia Land sentenzia che le batterie sono morte e quindi non posso fare altro che comprarne due nuove di fabbricazione indiana, dall’aspetto moderno e di buona fattura. Per mia fortuna è presente l’amico Maurizio Ferri, famoso preparatore milanese, che aveva accompagnato Ale da Dar es Salaam a Nairobi, che con un potente flessibile portatile ed una magica morsa fissata sul paraurti della Toyota di Ale, adatta gli alloggiamenti situati nel vano motore alle nuove batterie, piu’ ingombranti delle precedenti. Facciamo un po’ di spesa per la cambusa e ci diamo appuntamento per l’indomani con Vittorio che ha recuperato la sua macchina parcheggiata da amici nei dintorni di Nairobi. Rendez-vous al Karen roundabout alla periferia di Nairobi.
22 gennaio 2013
Puntuali ci troviamo al Karen ed iniziamo l’”avventura”. La prima meta è il Murchison Falls National Park in Uganda ove il Nilo Vittoria confluisce nel Lago Albert. Per raggiungerlo, superiamo la Rift Valley (già vista ma lo spettacolo è sempre notevole) e ci dirigiamo ad Eldoret. Paesaggio collinare, coltivato, belle acacie, laghi in lontananza. Si viaggia in altura, sui 2000 mt., la strada è asfaltata e tranne qualche pezzo brutto perché la stanno rifacendo, è scorrevole. A sera, dopo 325 km. Siamo ad Eldoret, caotica sporca e polverosa cittadina, alloggiamo all’hotel Wagon, soluzione dignitosa. Cena a base di ottima tilapia, il pesce che da queste parti si trova ovunque.
23 gennaio
Dopo un’ottima dormita ripartiamo baldanzosi. Una discreta strada ci porta a Tororo, alla frontiera con l’Uganda. Oggi il panorama non è particolarmente eccitante, centinaia di camion in fila attendono di varcare la frontiera ed ingombrano la strada fino a farla diventare un budello. Frontiera discretamente veloce, africanamente parlando, un’ora e quaranta circa aiutatati dai soliti faccendieri. Poco dopo la frontiera giriamo verso Nord a Mbale, strada pessima tutta buche, paesaggio piuttosto monotono ravvivato verso Soroti dall’attraversamento di una bella palude,animata da uccelli, papiri e belle ninfee. Oggi comincia a fare molto caldo. A sera, scartate alcune soluzioni improponibili, ci fermiamo al bel Soroti Hotel, poco fuori l’omonima cittadina. Oggi fatti 292 km.
24 gennaio
Lasciamo Soroti, la strada è incredibilmente buona, asfalto ottimo, segnaletica perfetta. Persino i micidiali dossi rallentatori, altrove spesso invisibili e comunque improvvisi, sono ben preannunciati. Bella natura africana. Ad Agwata lasciamo la strada principale che conduce a Nord e pigliamo una stretta pista dal fondo abbastanza buono. La natura è sempre piu’ bella e tantissimi sono i villaggi dalle belle capanne, pulite ed ordinate, che incontriamo.
Siamo vicini al Nilo Vittoria, che ogni tanto si intravede; a Masindi Port prendiamo il bac per attraversare, gratis, il grande fiume. Da stamattina la macchina di Vittorio ha un misterioso problema elettrico e parte (a fatica) solo a spinta. Attraversato il Nilo e superata Masindi entriamo nel parco nazionale delle Murchinson Falls. Si entra in una fittissima foresta quasi pluviale che lascia presto il posto ad una boscaglia fitta e piu’ arida, avvistiamo solo gli immancabili babbuini. Seguiamo la pista che porta alle cascate, uno spettacolo grandioso e sinceramente inaspettato.
E’ ormai pomeriggio tardi e decidiamo di fare campo proprio alle cascate (Top of the Falls) il cui rombo ci farà compagnia nel sonno. Oggi fatti 330 km.
25 gennaio
Dal nostro public campsite raggiungiamo il traghetto (a pagamento) per attraversare il Nilo e visitare la parte piu’ interessante del parco. Sbarcati sull’altra sponda Vittorio decide di rinunciare alla visita del parco per cercare di individuare tra i vari cavi elettrici quale è interrotto ed impedisce al motorino di avviare il motore. Noi invece giriamo per il parco, molto bello specie quando costeggia il Nilo ma non ricchissimo di animali.
Nel frattempo Vittorio con il provvidenziale intervento di un elettrauto munito anche di tester (un caso eccezionale in Africa ove tutta l’attrezzatura di un elettrauto in genere è costituita da due cavi ed una lampadina) pare abbia risolto il suo problema. E’ ormai sera, campeggiamo al campsite Northern Bank n.1, i servizi sono totalmente inesistenti, l’acqua non c’è ma siamo in una fantastica posizione in vista Nilo. Stanotte i grugniti degli ippopotami culleranno il nostro sonno. Oggi 138 km. Tutti nel parco.
26 gennaio
Abbiamo prenotato una lancia in vetroresina per risalire il Nilo Vittoria ed ammirare dal basso le cascate che l’altra sera abbiamo visto dall’alto. A differenza di analoghe altre deludenti gite africane in barca (come quella ugandese del Queen Elisabeth park) questa è uno spettacolo anche se per sicurezza si rimane abbastanza lontani dalle cascate.
Natura fantastica, canneti, papiri, gigli d’acqua, uccelli, ippopotami, qualche coccodrillo, antilopi. Sulla via del ritorno tre grossi elefanti fanno il bagno nel Nilo ed evidentemente non gli siamo simpatici perchè ci accolgono con un atteggiamento molto aggressivo lanciando sonori barriti. La gita dura tre ore e decisamente vale la spesa. Lasciamo quindi il parco e ci dirigiamo verso Gulu. A Lacor qualche kilometro dalla cittadina ugandese, ci fermiamo all’ospedale St. Mary’s fondato (o meglio rifondato ed ampliato) dal pediatra italiano dr. Piero Corti e da sua moglie Lucille canadese. Un simpatico giovane italiano Thomas Molteni ne è il direttore amministrativo; con la bella moglie, medico, ci accompagna a visitare l’ospedale. Per quanto sia una delle migliori strutture del nord dell’Uganda generosamente aiutato da enti italiani e canadesi, la dura realtà che tocchiamo con mano è veramente shoccante e l’ammirazione per chi con entusiasmo e generosità lavora in queste condizioni è infinita. Veniamo con grande cordialità ospitati nella casa, ormai quasi un museo, che fu dei coniugi Corti. Oggi ha fatto molto caldo ma la sera la temperatura cala notevolmente ed è assolutamente piacevole godersi la serata anche perchè in questo periodo dell’anno le zanzare, normalmente molto aggressive e fastidiose, sono rare. Fatti 121 km.
27 gennaio
Dopo aver fatto un po’ di spese a Gulu, partiamo verso il Sudan del Sud, la strada è in pessime condizioni (ne è previsto il rifacimento in tempi relativamente brevi), tanti camion, soprattutto cisterne cariche di carburante (incredibile per un paese ricco di petrolio…ma senza raffinerie, oleodotti e senza sbocco al mare) che procedono lentissime e sollevano montagne di polvere a tratti tanto fitta da costringerci ad accendere i fari sperando così di evitare frontali, cosa non improbabile visti gli azzardi che si prendono gli autisti da queste parti! Fa veramente molto caldo. Alla frontiera di Nimule le formalità di uscita dall’Uganda sono abbastanza veloci e velocissime sono quelle di entrata nel Sudan del Sud. In frontiera non possiamo fare il permesso di circolazione, documento che ci è stato raccomandato di fare, perché è domenica e l’ufficio è chiuso. Tutti appaiono molto gentili e disponibili (anche i cambia-valute di frontiera che, attenzione, offrono cambi alquanto svantaggiosi). La strada per Juba è molto bella ma con tante curve, vediamo molti camion rovinosamente usciti di strada, forse gli autisti non sono abituati alle velocità consentite dal fondo stradale e soprattutto alle curve. Una secca boscaglia ricopre belle colline, in lontananza i profili di montagne. A sera siamo a Juba, la capitale del Sud Sudan sporca e caotica ma, pare, in grande espansione. Quello che vediamo noi è una impressionante povertà, proprio accanto all’albergo che scegliamo (il buon Ambassador Resort) incredibili slums. L’albergo è dotato di una stupenda super-doccia che a fatica dilava la polvere di cui siamo ricoperti. Fatti 308 km.
28 gennaio
Andiamo nel centro di Juba, begli edifici dallo stile coloniale, per fare il permesso di circolazione (Traveling Permit) che ci viene rilasciato dopo breve attesa. Una soffiata al filtro dell’aria (impolverato tanto quanto lo eravamo noi), il pieno e via verso Bor, a Nord di Juba dove dovremmo incontrare, lungo il Nilo, i famosi pastori Dinka. La strada è orrenda e polverosissima e per molti km non si incontra nulla, nessun villaggio, solo una brutta boscaglia. Dopo diverse ore di guida molto faticosa per le pessime condizioni della strada si incontrano bei villaggi e si ha qualche bel scorcio di Nilo ma tutto ciò lo apprezziamo poco perché fa molto caldo, siamo sporchi e sudati ed il lungo approccio ci ha alquanto raffreddato gli ardori. Bor poi è una cittadina orrenda, povera, tutti girano armati, sappiamo che ci sono molti profughi della recente guerra e gente fuggita dai ricorrenti violentissimi conflitti tra tribu’ rivali che si contendono i pascoli e le terre coltivabili. Dopo aver cercato una sistemazione migliore, non abbiamo scelta, dobbiamo fermarci al Freedom Hotel che è però completo ed ha disponibili per noi solo delle tende (che probabilmente nel recente passato hanno ospitato profughi) ed un frugalissimo pasto. Riusciamo in ogni modo a raccattare una doccia miserella ma comunque ristoratrice. Le tende all’inizio soffocanti, si raffrescheranno decisamente nella notte consentendoci una buona dormita. Con una certa apprensione pensiamo che domani dovremo rifare la pessima strada perché oltre Bor è assolutamente proibito procedere per ragioni di sicurezza (come confermato da una cartina che riporta le strade sudanesi percorribili con relativa sicurezza riservatamente fattaci avere da un amico di Medici senza Frontiere). Non possiamo quindi andare a Boma come speravamo. Fatti 191 km.
29 gennaio
Paradossi della vita! il percorso che ieri ci è costato sudore, fatica e, lo confesso, un po’ di scoramento oggi si è dimostrato entusiasmante. Ci siamo fermati in molti villaggi abitati da Dinka e Nouer, con gente disponibile e cordiale (per la verità non sempre, perché laddove ci sono militari, e qui ce ne sono spesso, a volte il rapporto è difficile).
Persino la strada (sempre pessima) ci è sembrata meno dura di ieri. Nel villaggio di Mongalla, un simpatico e gentile poliziotto prima tiene lontani curiosi e questuanti da noi che stiamo mangiando in uno sgangherato bar poi ci scorta fino alle vicine rive del Nilo dove grazie alla sua “protezione” possiamo fotografare nella massima libertà anche quelli un po’ recalcitranti. Alcuni locali in attesa di imbarcarsi pericolosamente su una canoa per attraversare il Nilo improvvisano, credo per noi, un “concerto” su uno strano tamburo. A sera siamo ancora a Juba allo stesso Ambassador Resort hotel dei nostri (ormai) amici eritrei.
30 gennaio
Forte temporale notturno e sveglia con cielo coperto. Prendiamo la strada (parola molto grossa per una pessima pista) che porta a Torit. Il disagio per il fondo orrendo è mitigato dal fatto che oggi non c’è polvere perchè la pioggia notturna l’ha “fissata” al suolo. I villaggi che si incontrano non sono molti. A ricordarci della recentissima guerra incrociamo carri armati, quasi intatti e abbandonati in mezzo alla strada. Il paesaggio è abbastanza gradevole, collinoso e punteggiato da enormi monoliti granitici. A Torit, sulla carta una città sulla importante strada che porta in Kenya, in realtà è poco piu’ che un grosso villaggio. Ci fermiamo nell’unico (che io sappia) albergo del posto, per rifocillarci ma sopratutto per prendere informazioni sulla pista che dovrebbe fare il giro delle Didinga Hills, una regione montagnosa, che secondo le poche notizie che avevo, dovrebbe essere molto interessante per i panorami e per le etnie che si incontrano. Le notizie che riusciamo ad avere non sono molte e sopratutto pare che la pioggia di stanotte abbia reso, almeno per oggi, intransitabile la pista.
Decidiamo allora di raggiungere le Didinga da Kapoeta, cioè dall’altro versante. Circa 40 km da Torit ci fermiamo per vedere il villaggio di Challamini, abitato da gente di etnia Lotuko. Il villaggio è arroccato sulle pendici di una montagna e ricorda un po’ come collocazione un villaggio Dogon. Veniamo accolti con cordialità ma poi abbiamo un pò di malintesi col capo villaggio perchè siamo entrati, dice lui, senza chiedere il permesso e senza preventivamente omaggiarlo. In effetti un po’ aveva ragione perchè in questi casi il galateo africano vorrebbe che per prima cosa ci si presenti al capo villaggio. Noi invece siamo entrati accolti, come detto, cordialmente ma pur avendo chiesto del capo-villaggio abbiamo cominciato a girare e fotografare senza essere prima “introdotti” dal capo. Comunque con un po’ di diplomazia e qualche regalo “schiodiamo” il capo che poi ci consente di riprendere la visita. Il villaggio, molto interessante ed intatto, deve essere abitato da moltissimo tempo, centinaia forse migliaia di anni. Infatti quasi al suo centro c’è un roccia rotondeggiante in cui sono scavate decine di “macine” (alcune tutt’ora in uso) usate per macinare cereali.
Per poter incidere la dura roccia fino a formare quella che oggi appare una profonda macina deve necessariamente essere passato molto tempo. Qui la vita è ancora dura e per cibarsi la popolazione, oltre ai prodotti derivanti dal bestiame domestico (latte, formaggi e burro ma non la carne perchè gli animali non vengono allevati per la carne) ottiene le necessarie proteine mangiando topi che vengono catturati con ingegnose trappole messe nei luoghi di passaggio dei topi. A noi fa un po’ di ribrezzo pensare di mangiare topi ma devo dire che qui non c’è immondizia e lo sporco è molto limitato ed i topi in fin dei conti solo solo piccoli mammiferi e probabilmente, nessuno si scandalizzi, sono ottimi. Alla base delle rocce,ove inizia il piano, c’è un grande albero sotto il quale si svolgono le riunioni pubbliche, qui il capo ci consente di campeggiare dandoci anche una guardiano armato per proteggerci.
31 gennaio
Al risveglio, riceviamo la visita “formale” del capo villaggio che affida ad un suo “portavoce” (un capo non si abbassa a discutere di vil danaro!) il compito di spillarci un po’ di soldi per il permesso di visita e per la protezione notturna. Trattiamo un po’ ma presto cediamo alle sue richieste anche perchè in questo genere di trattative gli africani sanno essere particolarmente asfissianti. Partiamo in direzione Kapoeta per visitare Ilieu, un altro villaggio abitato da Lotuko. Anche questo è arroccato su balze rocciose di una bella montagna in cui si mimetizza. Gli abitanti sono molto simpatici, estroversi e disponibili a farsi fotografare senza richieste.
Però questa vota, ad evitare gaffes non ci muoviamo prima di avere contattato il capo villaggio. Anche questo insediamento è molto interessante e probabilmente antichissimo. Gli abitanti sono molto cordiali, ancora “intatti” perchè a causa dell’isolamento dovuto alla lunghissima guerra ed alla obiettiva difficoltà di raggiungere questa parte del mondo il contatto coi bianchi è stato molto sporadico. In pratica solo i missionari sono venuti da queste parti e prima di noi mi risulta ci abbia preceduto solo qualche mese fa uno sparuto gruppo di turisti. Quando i locali ci chiedono se siamo missionari o comunque operatori di qualche organizzazione umanitaria e noi rispondiamo che siamo turisti la prima reazione è di incredulità, nella loro mente infatti dove affacciarsi la domanda ” ma chi è un turista ?” e se lo sanno si chiedono “ma cosa c’è qui da vedere di interessante? “. Torniamo quindi sui nostri passi fino al villaggio Keyala per prendere la pista che dovrebbe fare il giro delle Didinga Hills. La pista fino ad Ikotos è molto accidentata e rovinata dalle piogge (è intransitabile durante la lunga stagione piovosa) ma ancora “fattibile”. Dopo Ikotos diventa poco piu’ di un tratturo da percorrere molto molto lentamente. Per fortuna il panorama è stupendo, dominato da enormi roccioni granitici. Ale si ferma a sistemare (lui è organizzatissimo e, a differenza mia, a bordo ha una officina intera) un problema alle balestre; mentre aspettiamo do’ un’occhiata sotto la macchina e mi accorgo di avere rotto il foglio di una balestra. Il nostro lentissimo tratturo finalmente sfocia in un bel pistone che probabilmente verso Sud va in Uganda. Noi invece dovremmo andare verso Nord-Est verso la Didinga ma per quanta attenzione ci mettiamo non riusciamo a trovare la pista che probabilmente non esiste piu’, se mai è esistita. Ormai è tardi, decidiamo di fare campo nel terreno di una scuola abbandonata vicino al paese di Lokuti. Fatti 153 km.
01 febbraio
Al risveglio amara, anzi amarissima, sorpresa: batterie completamente a terra e partenza solo sfruttando una lieve discesa del terreno. Sono a dir poco sconcertato perchè le batterie sono nuovissime e di amperaggio adeguato, il motore rimane acceso per molte ore ed il consumo di energia è modesto perchè sono accesi, solo durante la marcia, computer e Gps che comunque dovrebbero consumare poco. Il guaio naturalmente non mi lascia tranquillo. Acceso il motore a spinta riprendiamo il bel pistone che si dirige verso la strada “principale” che, partendo da Juba in direzione Est, va in Kenya. Dire che questa strada è pessima è farle un complimento, dall’incrocio fino a Kapoeta sono settanta km di sofferenza pura per noi e per la povera macchina. Dopo questo penare che dura oltre tre ore raggiungiamo Kapoeta. Mi fiondo al primo distributore di carburante che pare avere anche una specie di officina meccanica totalmente “open space” come spesso capita nell’ Africa piu’ disastrata. Chiedo di un meccanico per la balestra e di un elettrauto. Il ricambio per la balestra non c’è ed allora si procede ad abilmente saldare i due pezzi rotti del foglio. Mentre il meccanico rimonta la balestra, il sedicente elettrauto munito dei due soliti fili con lampadina, accertato che l’alternatore funziona sentenzia che una delle due nuove anzi nuovissime batterie è morta (può capitare, mi dico, che un oggetto nuovo sia difettoso) e mi propina (è il caso di dirlo) una vecchia e sporchissima batteria di marca ed amperaggio sconosciuti ad un prezzo indecente, ma non ho evidentemente scelta. Mentre io sono alle prese coi miei problemi i compagni di viaggio prendono alloggio al modesto (ma credo unico) hotel Kuleu di Kapoeta, cittadina di frontiera, molti militari, molti personaggi armati che non paiono militari, sporcizia e residui bellici. E’ la prima città che si incontra venendo dal Kenya, assai lontana sopratutto in termini di tempo dalla capitale Juba, eppure non c’è neanche una banca dove cambiare denaro. Militari (?) ci chiedono sospettosi e non molto garbati i documenti, anche loro sono meravigliati che noi non si sia nè missionari nè dipendenti di qualche Ong. Oggi abbiamo fatto solo 116 km che però sono sembrati 1160!
02 febbraio
Non essendo riusciti a fare il giro delle Didinga Hills decidiamo di visitare i villaggi abitati dall’etnia Toposa a sud di Kapoeta verso l’Uganda. In assenza di mappe sufficientemente dettagliate ho studiato il percorso sulle mappe russe che però notoriamente sono molto datate ed ho inserito una rotta in Ozi Explorer (normalmente uso T4Africa). La pista che imbocchiamo è quella giusta, stretta, tipicamente africana si snoda tra piccole acacie ed una bella vegetazione ed è, tranne alcuni tratti, abbastanza buona. Si incontrano diversi Toposa, sono in cammino forse verso il mercato di Kapoeta, sono molto cordiali e piace loro essere fotografati specie se si fa loro vedere sul display della fotocamera la loro immagine. Sono abbigliati in modo tradizionale senza le solite sporche e malandate tshirt, le donne (solo loro) amano fumare la pipa.
Ci fanno entrare nei loro villaggi, fortificati da impenetrabili recinzioni di rovi acuminatissimi, e possiamo fotografare senza problemi.
Ricambiamo la cortesia con qualche regalo, un bel vestito da donna rosso non viene accettato perchè le donne Toposa pare non vogliano il rosso (porta male ??). Dopo circa 40 km arriviamo al villaggio Lauru abitato dall’etnia Didinga, una rudimentale sbarra di legno ne impedisce l’accesso. Un ragazzo, in assenza del militare addetto accetta di aprirla e di farci entrare. Qui abbiamo l'”avventura” piu’ spiacevole, per così dire, del viaggio. Uno strano personaggio, una specie di militare drappeggiato con una fascia rossa, personaggio da film di Totò ma chiaramente ubriaco, dopo averci chiesto cosa eravamo andati a fare nel “suo” villaggio, impeditaci la visita, ci espelle o meglio espelle me e dopo la mia uscita dal paese chiude la sbarra ed impedisce alle altre due macchine di fare altrettanto. Accortomi che gli altri erano bloccati mi fermo in attesa di capire che succede; poi vengo invitato a gesti a tornare indietro. Torno ma nel frattempo gli animi si sono riscaldati, senza che noi si sia fatto niente. Un altro figuro, anche lui probabilmente alticcio, con maglietta verde che potrebbe essere un militare mi chiede del mio computer, glielo faccio vedere e gli faccio vedere a cosa serve, il figuro, interessato, sembra calmarsi, ma poi aizzato da un altro che gli dice qualcosa, diventa molto aggressivo e pretende violentemente le chiavi della mia macchina e poi quelle degli altri. La situazione sembra farsi molto pesante. Mentre a Rosalba, unica donna del gruppo, chiedono insistentemente la macchina fotografica e la minacciano a gesti volgari, io e Martino, consegnate le chiavi, veniamo invitati a seguire i (presunti) militari , penso, al comando. Mentre ci andiamo piuttosto preoccupati , scortati nervosamente dai figuri, incrociamo Vittorio ed Ale che tornano verso le macchine alquanto sorridenti e rilassati. Hanno trovato persone cortesi (ufficiali superiori? polizia anzichè militari? funzionari amministrativi? non si sa) che hanno capito che eravamo semplici turisti senza alcuna connotazione negativa e ci “liberano”. Naturalmente ci sentiamo molto sollevati e torniamo alle macchine senza però fermarci a vedere il villaggio perchè il personaggio alla Totò bruscamente (perchè esautorato?) non ce lo consente. Attorno alle macchine si è radunata una piccola folla di curiosi che non pare ostile, ma sorge ancora un problema perchè uno dei figuri pretende, non minimamente ostacolato dai funzionari a noi favorevoli, dei soldi per restituire le chiavi delle macchine e per consentirci di uscire dal paese. Vista la situazione, prima che gli animi si surriscaldassero nuovamente, dato che non era certo il caso di fare gli schizzinosi e pretendere una spiegazione o magari una ricevuta, paghiamo circa 10 euro (40 pound) a macchina e ce ne possiamo andare tornando, sollevati, a Kapoeta. In un villaggio sulla strada del ritorno ci hanno poi detto che a differenza dei Toposa spesso i Didinga sono inospitali. Fatti 86 km.
03 febbraio
Prima di partire verso il Kenya faccio controllare il livello del differenziale anteriore perchè i paraolio lasciano filtrare molto olio che si deposita all’interno delle ruote. E qui ho un’ennesima prova dell’inventiva africana. Il tappo sul differenziale non si svita forse perchè un po’ spannato. Cosa fa l’africano? non si perde certo d’animo e salda (non mi dilungo a spiegare con quale attrezzatura!) la testa di un bullone nuovo sul tappo spannato. Cosa ne pensa l’europeo? che il calore della saldatura rovinerà irrimediabilmente la filettatura del tappo riottoso con gravi conseguenze. Inutile dire che ha ragione l’africano, il tappo si svita agevolmente ed il rabbocco dell’olio può aver luogo.. Nel frattempo Vittorio si accorge di aver rotto anche lui un foglio di una balestra ma dopo una legatura con fil di ferro e scotch americano decide di proseguire e di fare la riparazione in Kenya. La strada da Kapoeta verso il Kenya è passabile. Le formalità di uscita dal Sud Sudan sono velocissime ma bisogna pagare una “tassa” di 20 pound (circa 5 euro) a macchina. Altrettanto veloci le formalità di entrata in Kenya. Arrivati in questo paese ci aspettiamo delle strade perlomeno discrete, invece dalla frontiera a Loki (cosi gli intimi chiamano Lokichoggio) la prima cittadina kenyota dopo la frontiera, fino a ieri base logistica per gli aiuti umanitari per il Sud Sudan in guerra, la strada è devastata dalle piogge e quindi, tanto per cambiare, lentissima. A Loki, abitata da gente di etnia Turkana, alloggiamo al buon (anzi ottimo visto i tempi ed i luoghi!) hotel 748. E’ abbastanza presto ma è domenica ed il meccanico è chiuso ed è pure chiuso l’ufficio della dogana che rilascia il permesso di transito in Kenya. fatti 125 km.
04 febbraio
Vittorio fa aggiustare la balestra dal solito meccanico on the road. Eseguita la riparazione, possiamo quindi ripartire verso Sud. Appena fuori Loki una grande pozza d’acqua, migliaia di animali, vacche, asini, capre, pecore, cammelli, in apparente caos, in realtà nel massimo ordine secondo precedenze note solo ai pastori Turkana si abbeverano.
Si leva anche una leggera tempesta di sabbia, uno spettacolo biblico. Ripartiamo, finalmente la strada asfaltata è bella e scorrevole. A Kakuma dove è stato installato un grandissimo campo per profughi (sopratutto in fuga dalla guerra in Somalia) facciamo gasolio. Nel rimettere in moto la macchina sento che di nuovo le batterie stanno per lasciarmi. Mi è chiaro a questo punto che il problema che mi tormenta dalla partenza non può essere della o delle batteria, perchè una batteria difettosa può capitare ma con questa sarebbe la terza sostituzione nel giro di 15 giorni e pochi kilometri . C’è un limite anche per la legge di Murphy! Poichè gli amici hanno intenzione di lasciarci (Vittorio vuole anticipare il rientro per andare a trovare degli amici a Nairobi, Ale ha l’aereo un paio di giorni prima di noi) il fatto di poter essere senza la loro assistenza nel caso di morte prematura delle batterie mi preoccupa. Così a Lodwar che è una cittadina abbastanza grossa, dove arriviamo nel primo pomeriggio, abbandono i compagni di viaggio fermi in banca per convertire valuta e cerco subito un elettrauto che per fortuna non è fornito solo dei classicci due fili piu’ lampadina ma possiede anche, incredibile a dirsi, un tester. E così dopo varie prove, l’amico sentenzia che il problema sta nell’alternatore che non carica a sufficienza (mentre il tipo di Kapoeta coi suoi cavi aveva detto che funzionava alla perfezione) e dice di essere in grado di ripararlo mettendosi subito all’opera; nel frattempo un suo collega meccanico mi fa notare una notevole perdita di olio che imbratta l’interno della ruota anteriore destra e si propone di cambiare il paraolio stimando in 45 minuti il tempo necessario per l’intervento. Pensando che fosse cosa semplice ho acconsentito alla sostituzione del paraolio pensando di sfruttare il tempo che la macchina stava ferma per l’intervento sull’alternatore. L’elettrauto smontato in parte l’alternatore mi mostra un componente (non chiedetemi quale) notevolmente usurato, e sparisce in cerca del ricambio. Mentre avvengono queste abbastanza complesse operazioni, mi rendo conto che non ho avvisato gli amici i quali a loro volta non mi trovano perchè sono in un vicoletto oltretutto nascosto da un camion. Da parte mia mi secca lasciare incustodita la macchina carica di ogni nostra cosa per cercare i compagni di viaggio. Così le riparazioni procedono, il meccanico miracolosamente (dico io) sostituisce il paraolio rimontando le decine di componenti senza dimenticarne alcuna, come posso constatare visto che sul cartone dove disordinatamente erano stati accatastati non rimane alcun pezzo. Sempre in virtu’ di quei miracoli che secondo me accadono solo in Africa l’elettrauto trova anche il ricambio e rimonta l’alternatore e rimette al suo posto la batteria che, tolta a Kapoeta perchè giudicata morta, avevo conservato. Dopo circa quattro ore di lavoro (altro che 45 minuti!! ma avrei dovuto sospettarlo da me!) e circa 100 euro di spesa tutto sembra sistemato. E’ ormai buio e gli amici che mi hanno pazientemente aspettato hanno trovato sistemazione presso il modestissimo hotel Turkwel Lodge. Purtroppo il dirimpettaio hotel Lodwar dove noi avevamo alloggiato lo scorso viaggio è completo ma qui Carlo ritrova un costoso paio di occhiali da vista che aveva dimenticato in camera la volta precedente,altro miracolo africano! Fatti 219 km
05 febbraio
Scendiamo verso Sud per la micidiale strada chiamata pomposamente A1. Fa caldo ma il cielo è bello limpido. La guida è molto stancante a causa delle pessime condizioni della strada. A Lokichar ci obbligano alla scorta armata dicendo che il successivo tratto di strada è pericoloso e così due soldati armati salgono su le nostre macchine (io ne sono esentato perchè fisicamente non ho posto). Lo scorta, a pagamento, dura fino a Kainuk (un centinaio di km circa). Da Lodwar a qui è tutto una bella piana semi-arida dominata da acacie e la pista è passabile. A Kainuk lasciamo la piana e cominciamo a risalire la catena montuosa che domani dovremo attraversare. Ci fermiamo per la notte al Marich Pass Field Studies Centre una bella e simpatica struttura che conoscevamo per avervi alloggiato nel viaggio scorso. Unica ed ottima sistemazione sulla lunga tratta da Lodwar a Kapenguria. Fatti 181 km
06 febbraio
Salutiamo gli amici che avevano programmato di rientrare prima a Nairobi. La giornata è limpidissima ed essendo alti, sui 2000 mt, la temperatura assolutamente gradevole, dopo il tanto caldo dei giorni scorsi. Il paesaggio è radicalmente mutato, lasciata la savana della pianura, ora predomina il verde delle montagne. Piccole ordinatissime coltivazioni, euforbie, agavi, grandi acacie e grandi alberi sconosciuti. La strada non è male anche se l’asfalto è molto rovinato, si attraversano alcuni villaggi dall’aspetto ordinato. Verso Kapenguria la strada diventa ottima, foreste di misteriose conifere, panorami immensi e verdi. Man mano che si va verso la “civiltà” il traffico aumenta, si attraversano animatissime cittadine. Superiamo Kitale, Webuye, Kakamenga. In questo tratto domina la canna da zucchero e si incrociano enormi trattori che col loro carico di canna occupano praticamente tutta la strada. Per il nostro frugale pranzo ci fermiamo in un terreno poco fuori la strada e qui veniamo invitati da cortesissimi kenyoti ad entrare nella loro proprietà e ad usufruire dei loro servizi. Per sedere ci portano poltrone dalla loro casa. Scopriamo che hanno una piccolissima struttura per lavorare la canna da zucchero e veniamo invitati a vedere un rudimentale ciclo di produzione della zucchero greggio. Dopo Kisimu, una grossa città sul lago Vittoria, prendiamo una ottima strada asfaltata che di tanto in tanto offre bellissimi scorci sul lago. Ci fermiamo a Homa Bay al buon Hotel Hippo Buck dopo 368 km.
07 febbraio
Da Homa Bay ci dirigiamo al famoso parco Masai Mara attraverso piccole strade secondarie. Natura verdissima, colline che si susseguono quasi all’infinito, canna da zucchero, piantagioni di the, banani. Oggi mi piacciono persino gli eucalipti che in genere odio perchè hanno invaso l’Africa soppiantando le piante autoctone, alterandone il paesaggio. Seguiamo la C20 fino a Rongo poi Ogembo, Kilgoris per la C17. Da Lolgorien e verso Il Masai Mara bellissimo paesaggio verde, alberi grandissimi, pascoli, vacche e capre. La pista è pessima e la cosa mi sorprende perchè ci stiamo avvicinando ad una delle riserve naturali piu’ belle e conosciute del mondo. Ma il disagio della brutta pista è compensato da una natura stupenda e dalla vista veramente mozza-fiato che appare come di incanto quando ci si affaccia sul bordo dell’Oloololo Escarpment. L’immensa piana erbosa del Masai Mara punteggiata di rade piante è sotto di noi, branchi di elefanti pascolano in lontananza. Dall’alto si vede bene anche il percorso del fiume Mara (non si scorge l’acqua ma si vedono gli alberi rigogliosi che crescono sulle sue rive). Entriamo nel Parco dall’ Oloololo Gate e costeggiamo la pista di atterraggio (e capiamo perchè le strade di accesso al parco sono cosi brutte, probabilmente la maggioranza dei turisti arriva con l’aereo!). Giriamo per il parco tutto il pomeriggio. Grandi branchi di elefanti, giraffe, antilopi varie, facoceri.
Nel Mara qualche ippo e le eleganti gru coronate. Verso il tardo pomeriggio ormai sulla via per raggiungere il campsite, tripudio di predatori. Una leonessa individuata da Rosalba dorme saporitamente, la pancia piena di un recente pasto. Siamo vicinissimi tre/quattro metri ma non ne vuol sapere di svegliarsi.
Poco piu’ avanti un branco di gazzelle attentissime, immobili, tutte rivolte in un unica direzione indicano la presenza di un leopardo che sembra in caccia. Le gazzelle, allarmatissime, emettono uno stranissimo suono,una specie di soffio, probabilmente indice di pericolo e ad un segno del capo-branco riescono a dileguarsi prima che il leopardo si avvicini a distanza pericolosa. Trionfo finale alla luce bellissima di un tramonto tempestoso; sulla pista che porta al campsite una famigliola di giovani leoni, un maschio e tre femmine, probabilmente fratelli.
Mitragliate di foto, tutte uguali ma la tentazione è irresistibile.
Per l’esorbitante somma di 30 $ a persona campeggiamo accanto al gate, il campsite non offre niente se non una location stupenda. Un vicino temporale ci manda tre gocce tanto per spaventarci e farci temere di saltare la cena e sopratutto di dormire al bagnato causa Air Camping ormai ridotto assai male. Invece per fortuna veniamo risparmiati. 194 km.
08 febbraio
Alba stupenda e partenza nel parco col botto. A pochissima distanza dal nostro campo 2 leoni accucciati nell’erba scrutano la pianura sottostante, forse sono i giovani di ieri sera. Poco dopo assistiamo all’ingloriosa caccia di due leonesse adulte, ingloriosa non tanto per l’insuccesso ma perchè, dopo una manovra di accerchiamento coordinato una delle due si avventa sulla preda costituita da un……topolino !! Ancora poche centinaia di metri ed ecco due meravigliosi ghepardi poi ancora elefanti, antilopi e gazzelle, facoceri iene. Superato il ponte sul Mara a pochi metri di distanza dal confine tanzaniano, risaliamo l’altra parte del parco che offre meno animali ma panorami immensi di bellezza impossibile a descrivere. Usciamo dal Musiara gate. Non so in base a che mi ero immaginato di trovare appena fuori dal parco asfalto e rifornimento di gasolio. Invece nè uno nè l’altro, la pista è pessima anche se contornata da una bellissima natura che io non mi godo per niente preoccupato di rimanere a secco (come si ricorderà l’indicatore del livello del carburante non funziona da sempre e quindi devo sempre fare attenti calcoli sul consumo e sulla presunta quantità residua di gasolio nel serbatoio). Per non appesantire troppo la macchina in queste piste orrende non ho imbarcato nemmeno quei 30/40 litri nel supplementare che in genere tengo per sicurezza. Per mia fortuna e sopratutto tranquillità al piccolo villaggio di Lemek trovo 5 litri di gasolio da un simpatico venditore di carburante, uno di quelli che vendono minuscole quantità di benzina alle tante piccole moto che circolano per queste piste. Io sono piu’ tranquillo ma la Toyota lo è meno e continua a penare (senza lamentarsi però) a causa di una pista indescrivibile, distrutta dalle piogge e mai messa un po’ in grazia di dio. Solo una trentina di km prima di Narok troviamo un ottimo asfalto e possiamo respirare un po’. Fatti 223 km.
P.S.
Per non fare un torto al Kenya riguardo l’accesso al Masai Mara devo precisare che percorrendo la strada verso Nairobi ho visto le indicazioni stradali per il Mara per strade asfaltate che portano ad altri ingressi attraverso i quali accedono i molti turisti che visitano il Parco e che abbiamo incrociato sulla strada di Nairobi.
09 febbraio 2013
Un comodo asfalto ci porta verso Nairobi. Il viaggio è rilassato ed il panorama piacevole. Attraversiamo la grande piana della Rift Valley, fitta di piccole acacie non piu’ alte di 1,5 mt e risaliamo poi nel versante opposto, file di camion fumanti come non mai procedono molto lentamente ed i sorpassi ogni tanto sono “all’africana” con qualche preoccupazione dei miei passeggeri. Dall’alto la Rift Valley è veramente spettacolare ma non ci fermiamo, ormai il vero viaggio è finito e l’entusiasmo è pari a zero. Vicino all’aeroporto di Nairobi ci incontriamo con l’amico Eugenio Kirima, un kenyota efficiente ed affidabile che ospiterà la nostra Toyota nei prossimi mesi occupandosi anche di rinnovare per noi i vari permessi. Nel cortile della sua casa scarichiamo i nostri bagagli e portiamo la Toyota a fare un bel lavaggio, dentro e fuori. Ma è una mission impossible. Un giovane kenyota per la esosa cifra di 3 euro tenta l’impresa disperata che dura quasi tre ore. Per pernottare Il buon Eugenio ci ha trovato l’ottima Biblica Guest House, una struttura di proprietà di religiosi molto ben tenuta, con bel giardino, in una zona di Nairobi molto tranquilla. Oggi fatti 148 km per un totale di 3912 km
Gian Casati gian.casati@gmail.com
Importante post scriptum
Gaetano Casati geografo ed esploratore è esistito, naturalmente. Ma che fosse mio antenato è una balla spaziale!!
NOTIZIE PRATICHE
Kenya
il visto è ottenibile in entrata all’aeroporto o ai posti di frontiera, costa 50 $ e vale per un solo ingresso (nel nostro viaggio abbiamo dovuto pagarlo due volte), per l’auto occorre il carnet oltre ad un permesso di circolazione che può essere di un mese (50 $) o tre mesi (100 $). E’ obbligatoria l’assicurazione rc che, a richiesta, comprende l’estensione a vari paesi limitrofi. Attenzione rientrando in Kenya dal Sud Sudan richiedono la febbre gialla. Di grande utilità in Kenya è stato Eugenio Kirima (tel.+254 722390568) taxista tuttofare presso il quale abbiamo lasciato la Toyota e che ci ha risolto vari problemi pratici e burocratici
Uganda
il visto è ottenibile all’aeroporto o ai valichi di frontiera (50 $) Per l’auto occorre il carnet ed un permesso temporaneo di circolazione rilasciato in frontiera pagando in valuta locale (scellini ugandesi) 55.000 scellini pari a circa 15 euro.
Sudan del Sud
il visto è ottenibile in frontiera pagando 100$ (non occorrono fotografie come molte fonti affermavano), per l’auto non occorre il carnet ma è necessario ottenere un “Traveling Permit” che costa 210 Pound pari a circa 40 euro da pagare in valuta locale. All’uscita dal paese bisogna pagare una tassa di 20 Pound (4 euro)
gasolio
in tutti e tre i paesi il gasolio costa circa 1,10 / 1,20 euro per litro