By Simone Mariotti
Originally Posted Wednesday, October 29, 2008
“Non dite a Sandokan che sono stato qui”
Cosa rende il Borneo così misterioso, così affascinante, ma ancora così idealmente irraggiungibile per gli europei?
Simone Mariotti prova a spiegarcelo attraverso uno dei rarissimi esempi di letteratura di viaggio ambientati nella grande isola dell’arcipelago malese-indonesiano. Viaggiando da solo con lo zaino in spalla, l’autore ha percorso in lungo e in largo il Borneo malese, risalendo fiumi tra farfalle giganti, sanguisughe e piante carnivore, addentrandosi sino agli altipiani più sperduti, dialogando con i dayak e gli altri eredi di quei pirati e tagliatori di teste che un tempo facevano tremare chiunque avesse la sventura di incontrarli.
Dall’antica capitale dei rajah bianchi alle foreste degli ultimi oranghi, dal mondo antico di Conrad a quello sfavillante del Sultano del Brunei, un viaggio ad occhi aperti alla scoperta dell’unicità multiculturale e multietnica della Malesia e della sua bizzarra storia coloniale.
Se Salgari avesse incontrato veramente James Brooke forse Sandokan sarebbe stato diverso, ma avremmo avuto ugualmente un eroe dalle passioni coinvolgenti, non meno violente e sincere.
Brano tratto dal libro “Non dite a Sandokan che sono stato qui”
Capitolo 13: Bario e la magia di Pa Lungan
“Sera. La pioggia era arrivata anche lì. Ci trovavamo sotto la veranda della casa dello zio di Sylvester, nella parte che collegava la stanza in cui si mangiava e si passava la giornata a quella con le camere da letto.
Alex e Christina stavano aspettando che finissi di scrivere gli ultimi appunti sul mio taccuino. Mentre stavo lì, col naso quasi appoggiato alla carta per sfruttare gli ultimi barlumi di luce, mi fecero una foto; sentii lo scatto, ma il flash non partì, per cui non venne fuori nulla. Alex invece era molto intento a riprendere un grosso ragno dal corpo nero scintillante macchiato di punti rossi. Ci mostrò l’anteprima della foto e l’effetto era piuttosto inquietante.
L’ultimo filo di luce naturale stava svanendo, inghiottito dalle pesanti nuvole che sovrastavano la valle. C’era un’aura potente, severa. Era strano, ma mi dava l’idea di sentirmi più grande, come se fossi stato scelto per entrare a far parte di un circolo di eletti. La pioggia violenta, nel giorno che diventava notte, sembrava al tempo stesso un segnale di forzato isolamento in un posto in balia del destino, ma anche di protezione. E quel luogo di sogno incantato, verdissimo come un giardino, che si era presentato ai nostri occhi nelle prime ore del pomeriggio non aveva perso un solo punto del suo fascino neanche sotto la tempesta.
Poche case, tutte di legno, poche risaie che producevano il miglior riso in assoluto di tutte le Kelabit, molti alberi da frutto, palme rigogliose, aiuole, prati e un fiume sotto un ponte sospeso, nel quale tutti ci eravamo buttati per un bagno ristoratore e purificatore.
Ho visto tanti paesaggi in vita mia, tante montagne, tante città. Ma la magia di quella piccola oasi sperduta a quattro ore di camino dal posto più remoto della Malesia, curata come una località turistica anche se di turisti non ne vede quasi mai, trova pochi concorrenti”.