By Robogabraoun
Originally Posted Tuesday, October 26, 2004
E’ mattina presto quando lascio Khartoum verso nord, attraverso il ponte ferroviario costruito un secolo fa dagli inglesi…il grosso fuoristrada fende la marea impressionante di veicoli in movimento, infilandosi tra le spire di questo serpente di lamiere sbuffanti, rotolante per le strade nella più totale anarchia.
La bidonville a nord della capitale si spande per chilometri oltre le mura degli ultimi edifici di Khartoum North, misero insieme di capanne di fango, cartone, paglia, stracci e quant’altro venga vomitato dalla città verso le discariche. Le distese di cespugli intorno alle dimore sono come una scultura d’arte moderna.
Addobbate dalla capricciosa mano del vento con milioni di sacchetti di indeformabile ed eterna plastica, stanno lì, milioni di colori, milioni di minuscole bandiere a garrire nell’aria rovente del mattino, ad onta di una civilizzazione scellerata che qui ha prodotto solamente danno…
Vado oltre, il traffico scema sempre più, si arena agli ultimi souk, agli ultimi fornai. Due antiche vetture ferroviarie, gioielli da museo di un’epoca remota, torreggiano ai lati della strada ad ospitare l’ultimo blocco militare di Khartoum.
Fermo l’auto a pochi passi dalle carrozze; le splendide colonnine in legno lavorato attorniano le orbite vuote e cieche di finestrini ormai scomparsi, gli spioventi a ghirlanda del tetto pendono arrugginiti come lembi di pelle secca, morta.
Il soldato annoiato controlla meticolosamente i permessi di viaggio, pagina per pagina, mentre alle mie spalle le vetture dei sudanesi strombazzano furiose. Ma non c’è fretta, ed il militare non si fa intimorire dallo strepito, guarda con occhi assenti la mia faccia così diversa da quella nella foto del mio travel permit…Eppure sono io, appena pochi giorni fa; sono già diverso,la barba lunga gli occhi stanchi…dove stai andando? In deserto. Ma che ci vai a fare in deserto? Non c’è niente! Sorrido pensando a quanti miei amici mi han fatto non so quante volte la stessa domanda, a cui non so rispondere…Non so, mi piace, mi chiama: sono un po’ matto…
Esco dal blocco e finalmente imbocco la strada per Abou Hamed, distante ancora 500 chilometri. Non ho tempo, le ore stanno scivolando via troppo in fretta ed ho un appuntamento che non posso perdere a Ouadi Halfa, 1800 chilometri più a nord, confine Egiziano, entro domani sera…Schiaccio l’acceleratore del Toyota ed i sei cilindri vecchiotti ma certo non domi mi portano via ed inch Allah…Lontano ad ovest la macchia scura dei palmeti lungo il Nilo mi accompagna come un filo di Arianna, mentre ad oriente si spalanca la voragine senza fine del deserto stepposo che corre per 500 chilometri fino alle catene etiopi. Il nastro d’asfalto scivola attraverso una distesa piatta di sabbia e terriccio, un “niente” che lascia attoniti, senza fiato. La strada di Osama, il santone qui venerato come un papa, costruttore di scuole, asili, ospedali… ed appunto strade, questa stessa strada.
Le Twin Towers? Non importa: ha finanziato le grandi opere pubbliche; qui lo amano, lo idolatrano.
Al casello, ordinato e ben costruito, all’europea, col suo bel gabbiotto vetrato, pago la tassa governativa per poter usufruire dell’asfalto del Signore del Terrore e continuo a correre al massimo della velocità verso settentrione.
Sono in Sudan da appena poche ore e già macino strada come una vaporiera, già assillato da questo orologio odioso, così fuori luogo in questa landa senza tempo.
Supero Shendi, Meroe, Ed Dammer senza nemmeno degnarle di uno sguardo, impegnato in questa lotta impari contro le lancette.
Ancora militari, ancora permessi da mostrare: l’unico ponte in Sudan a nord di Khartoum è qui davanti a me, anch’esso in ferro, anch’esso residuo di quel colonialismo anglo–egiziano così miseramente crollato 110 anni fa con il sacco della capitale. Soldati armati lo sorvegliano in una assurda ostentazione di un potere che non esiste. Divieto di fotografare, divieto di rilevare le coordinate, divieto quasi di guardare…folle se si pensa che dai satelliti si può seguire un’auto lungo un vicolo o fotografare il numero civico di una abitazione qualunque. Le mie ruote sfiorano i marciapiedi di cemento armato dello stretto ponte; ci passo appena, dal finestrino posso guardare direttamente l’acqua limacciosa del fiume Atbara scorrere sotto di me, pigra, assonnata.
Il cementificio costruito dai Cinesi incombe sulla città omonima, all’innesto dell’Atbara nel Nilo.
Una teleferica trasporta la calcite dalle cave sprofondate sull’altra riva del grande fiume, 20 chilometri più ad ovest, nelle sabbie quarziche di ElBayuda, il Deserto bianco: una processione infinita di tralicci che taglia come una ferita la pianura e scavalca in una immensa campata i 600 metri di acqua che separano le due sponde. Mi chiedo se non fosse più sensato costruire un ponte, anche solo di chiatte per sfruttare la pista camionabile che dalla sponda occidentale del Nilo raggiunge direttamente le cave. Inutile porsi la domanda: sono in Sudan, e qui la logica percorre vie differenti. Pigio l’acceleratore per guadagnare strada su questi ultimi chilometri d’asfalto: poi avrò solo deserto, per 1000 km, fino al Lago Nuba, la porzione sudanese del più conosciuto Lago Nasser, in Egitto. Berber mi accoglie con la pista di ghiaia rossa ed il suo minuscolo mercato. Ultima stazione di Polizia, ultimo visto della Security, la temibile polizia segreta.
Ed ecco infine la vecchia pista della ferrovia, questo nastro di tracce in mezzo al deserto che segue come un’ombra la linea ferroviaria fino su, al confine. La imbocco, subito avvolto dalla nube di polvere sollevata dalle mie stesse ruote. E’ un inferno di dossi, buche, rotaie scavate da centinaia di camion, pick up, carri…
Scodinzola come una serpe a ovest ed ad est dei binari, rallentando l’andatura oltre ogni possibile immaginazione. Troppo tempo, troppe ore che scivolano via…
Decidiamo di derivare ad oriente, scavalcando le montagne e seguendo una concatenazione di vallate che separano i massicci, per raggiungere Ouadi Halfa da sud est.
Ci dilunghiamo nella ricerca di un passaggio prima di trovare una valle percorribile, superando creste di rocce affilate come lame, sudando freddo ogni volta che gli pneumatici stridono quasi piangendo contro i loro bordi frastagliati. Seguendo il fondo valle si viaggia nuovamente ad una buona media, il fondo di sabbia buona permette andature notevoli, ma continuiamo a derivare ad oriente, stiamo viaggiando verso nord est anziché verso nord… Controlliamo le mappe Russe, fide compagne di tanti viaggi…il ouadi ruoterà più a nord verso settentrione, e proseguiamo guardinghi, per non perderci le diramazioni che ci consentirebbero di abbreviare il percorso. Rovine lontane, sul margine di un costone, attirano la nostra attenzione. Facciamo il punto e con incredulità ci ritroviamo a pochissima distanza dalla mitica Berenice Pancrisia, la mitica città d’oro scoperta da Angelo ed Alfredo Castiglioni anni or sono… Le rovine che stiamo ora costeggiando sono le fortificazioni che proteggevano da nord la cittadella.
Mentre passo oltre, prigioniero dello scorrere inesorabile del tempo, mi lascio rapire dall’emozione che quei ruderi mi trasmettono, riesco a percepire il brivido che i due fratelli archeologi devono aver sentito, come una ventata ad attraversare l’anima, quando piombarono dopo mesi di ricerche infruttuose sulle mura di queste fortezze… Sensazione inenarrabile, che vale una vita intera di sforzi…
Tracce di ruote gemellate solcano ora la grande vallata, i segni del passaggio dei contrabbandieri Egiziani, che solcano il deserto orientale, terra di nessuno abbandonata anche dai militari…
Intanto il ouadi continua a scorrere verso nord est; è evidente che abbiamo perso la diramazione, nonostante la nostra attenzione… Ci rigettiamo tra lo sfasciume di rocce delle colline ad ovest, tagliando tra basse selle ed aggirando pinnacoli che ricordano le aride valli d’Air, in Niger, puntellate da rade acacie che paiono sfidare l’arsura.
Una serie di tavolati ci porta ad una spianata di sabbia bianchissima e fine, insidiosa, in cui una catena di colline nere, allineate come le vertebre di un sauro dormiente, indicano la rotta da seguire, a nord ovest. Una piccola falesia di una decina di metri s’interpone tra noi e l’orizzonte occidentale: la percorriamo verso nord, alla ricerca di un passaggio per discendere verso la pianura piatta come un biliardo che si distende di fronte a noi. Brivido di discesa con i ponti dell’auto che gemono in un twist al di là dell’umana immaginazione, ma passiamo. Ed ecco là in fondo i tetti conici della Station 5, in pieno deserto, indicante il passaggio della strada ferrata… Ritroviamo la pista, ora larga come 20 autostrade affiancate e voliamo verso il confine Egiziano.
Solchiamo miliardi di tracce che corrono in tutte le direzioni, tenendo d’occhio i binari che ci fanno da filo di Arianna…Il Toyota snocciola i km che passano con una lentezza ossessionante, da incubo, la piattezza del paesaggio da’ alla nostra corsa una apparente immagine di immobilità, corriamo a 100 all’ora nella sabbia e sembriamo fermi, incollati al suolo come trattenuti da una mano incantata, che si fa beffe di noi e della nostra fretta.
E’ buio, e procediamo: non possiamo fermarci, la nave da Assuan giungerà domattina in frontiera e devo essere là, c’è gente che confida nella mia presenza e non posso mancare l’appuntamento.
Sembra di guidare sospesi nella tenebra, cielo e terra indistintamente mescolati nel medesimo profondissimo nero. Le 22…Le 23…Ed ecco all’orizzonte il bagliore soffuso delle luci di Oaudi Halfa, 20 km di fronte a noi, come un faro galleggiante nel mare d’ombra impenetrabile.
Spegniamo i motori, esausti. Il tempo di gettare a terra un materasso e dormiamo sulla sabbia, coperti dai sacchi di piuma a proteggerci dal vento gelido che scende da settentrione…
E’ l’alba quando riprendiamo il cammino. Un pick up armato di cannoncino ci viene incontro, guardie di frontiera… controllo puntiglioso dei documenti e l’atmosfera si rilassa, siamo viaggiatori, non contrabbandieri… Riprendiamo la marcia in una nuvola di polvere e Ouadi Halfa ci accoglie col suo disordinato eppure meraviglioso mercato, con il suo caos di colori e suoni, mentre il placido sciacquio ritmico delle acque del lago Nuba-Nasser forma una nota di sottofondo che dona tranquillità.
Scendo nella polvere del villaggio, mi confondo con gli uomini indaffarati tra le bancarelle di ortaggi e legumi… Ancora lontana la nave sta giungendo al porto, alla lunghissima banchina in cemento che si slancia sulle acque torbide del lago. Bevo un chaij rigenerante, a cacciare la fatica disumana di 2000 km percorsi in un giorno e mezzo…Un uomo mi passa accanto e mi grida Kawajia…
Sorrido, mentre la calda dolcissima bevanda scende in me a riscaldarmi l’anima: ce l’abbiamo fatta, anche se è stata dura. Ed ora ricominciamo: dalla nave ormai attraccata un gruppetto di occidentali scende sulla banchina e si ferma come perso, tra la folla di bournous…
Ecco il mio gruppo di viaggiatori… Poso il bicchiere, inforco gli occhiali e mi accendo la pipa, aspirando il fragrante aroma di ginepro e whisky di questo meraviglioso tabacco… Ok, andiamo: inizia un nuovo viaggio.