By Michele Dutto
Originally Posted Tuesday, October 5, 2004
VIAGGIO IN ANGOLA Di Francesco Segoni & Barbara Galli
Foto di Francesco Buresti e Elisabetta Martina.
Arriviamo in Angola passando il confine con la Namibia a Ruacana, cittadina di frontiera stanca e addormentata. La dogana namibiana è pulita, ordinata e di un’efficienza svizzera: ci armiamo di santa pazienza e chewing-gum, ma ci vogliono comunque più di due ore per il disbrigo delle pratiche doganali. Dobbiamo registrare i numeri di serie di tutti i nostri apparecchi fotografici: la dogana namibiana teme l’importazione di elettronica a basso costo dall’Angola.
Duecento metri più avanti, la dogana angolana è un altro universo: costruzioni diroccate, funzionari svogliati, polli che razzolano qua e là, bambini accorsi ad osservare lo spettacolo (di turisti in Angola non se ne vedono quasi: alla frontiera di Ruacana, poi, ancora meno…), l’inutile casupola sgretolata che fungeva da ufficio doganale. Quattro Toyota, stracariche di bagagli, e noi sparpagliati intorno a guardare il doganiere che, scusandosi per la scarsità dei moduli prestampati, ci informava che avrebbe attraversato il confine (andando in Namibia!) per farne delle fotocopie…… questo era lo sfondo del nostro ingresso nel paese.
– Viaggio compiuto dal 7 al 23 agosto 2004
– Aereo: Italia/Windhoek/Italia con volo Air Namibia
– Organizzazione curata da Michele Dutto
– Cambio: 1 USD = 85 kwanza
– km totali: 2500
Nonostante l’estrema povertà subito visibile, il primo approccio con la gente è caldo, gioioso, intriso di quella latinità solare tipica delle colonie portoghesi. La prima impressione che l’Angola regala è di dolcezza: sarà per la lingua – il musicale portoghese – saranno i colori del tramonto sulle foreste di mopane, saranno gli occhi scurissimi dei bimbi africani, che si accalcano e ti scrutano con pura curiosità.
Montiamo il campo tra gli alberi di mopane e ci prepariamo per la notte, carichi di attesa verso questo paese e la sua gente, ancora vergine al turismo.
Il nostro itinerario ci guida lungo il corso del Kunene – il fiume che segna il confine con la Namibia – sino alla costa, attraverso montagne e wadi polverosi piuttosto impervi, che anche i nostri fuoristrada faticano a percorrere.
Questa è la zona popolata dalle tribù nomadi degli Himba e dei Mochimba. La bellezza altera delle giovani ragazze di queste etnie è tutta nei loro costumi di pelli di capra, nei loro ornamenti e nel colore rosso della loro pelle, ricoperta di una pasta di ocra e grasso di capra per proteggerla dal sole e dal vento. Non incontriamo però molti animali, a parte le mandrie dei nomadi: a quanto pare la fame e tanti anni di guerra hanno spopolato la zona di tutta la meravigliosa fauna africana.
Passiamo attraverso piccoli villaggi di montagna come Chitado, Oncocua, Iona. I segni della guerra recente sono visibili ovunque: nelle costruzioni abbandonate, nelle case diroccate e crivellate dai proiettili, nella semplicità dei vestiti della gente, che vive di niente. E tuttavia nessuno muore di fame, in questo paese ricco di risorse naturali, idriche e minerarie: sono famose le miniere di diamanti della zona Est e i pozzi petroliferi dell’enclave di Cabinda, su a Nord. Scopriamo chiacchierando con la gente che l’Angola vende energia idroelettrica perfino alla Namibia.
Nei villaggi la comparsa dei nostri fuoristrada e i nostri volti bianchi suscitano sempre una grande curiosità: le persone ci accolgono accalcandosi con grandi sorrisi, si mettono in posa per le nostre fotografie, cercano di comunicare con noi, ci lasciano prendere acqua dal loro pozzo e non chiedono niente. Spesso lasciamo loro farina, zucchero, e altri beni di prima necessità.
Quando giungiamo in prossimità della foce del Kunene, il deserto ci colpisce con i suoi colori, la sua vastità sconsolata e le morbide dune; finalmente avvistiamo branchi di zebre di Hartmann, springbok, struzzi e anche orici. Arriviamo alla foce verso sera e siamo finalmente dinnanzi all’oceano, scuro e arrabbiato. Questo è considerato uno dei mari più pescosi al mondo, come testimoniano i numerosi stabilimenti di farina di pesce ormai abbandonati. La città fantasma, al largo della Baia dos Tigres si staglia all’orizzonte a testimoniare un passato di commercio ricco e florido per questo paese.
Proseguiamo il nostro viaggio lungo la costa, guidando i fuoristrada sul bagnasciuga durante la bassa marea fino all’altezza di Namibe. La sensazione di viaggiare su una sottile striscia di sabbia con il mare che va gonfiandosi da un lato e le impervie dune del deserto dall’altro, è eletrizzante. Qui è la natura a riempirci i sensi di odori, colori, forme e contorni selvaggi, dall’umidità dell’aria che ci porta sulla pelle la corrente fredda del Benguela, alla sabbia del Namib che ci frusta la sera quando si alza il vento. Vogliamo risalire la costa, sappiamo che qui non incontreremo nessuno per un bel pezzo. Passare all’interno è impossibile, le dune sono ripide, la sabbia molle e le Toyota affondano, ansimano, si arrendono: ci vogliono diverse ore e tanta fatica a spingere dietro le macchine per avanzare di poche centinaia di metri.
Scegliamo quindi di risalire lungo la sabbia dura della battigia, nelle poche ore di bassa marea, e quando la schiuma dell’oceano arriva ad accarezzare le gomme delle auto ci rituffiamo tra le dune per montare le tende ed attendere il giorno successivo. La traversata sulla costa ci procura tanti piacevoli incontri: cormorani, fenicotteri rosa, pellicani, foche, delfini e squali saltatori. Un mezzogiorno decidiamo che questo oceano delle meraviglie merita un tuffo e così ci divertiamo a sguazzare nelle sue acque salatissime, lasciando poi al sole africano il compito di riscaldarci. I paesaggi sono meravigliosi e misteriosamente avvolti nella nebbiolina…. questa nebbia è vita per il deserto, per le piante e tutti gli animali che dipendono da questa poca acqua nebulizzata. Abbiamo l’onore di fotografare la più grande e più “anziana” welwitschia mirabilis esistente: avrà almeno 4.000 anni… deve averne viste di cose, questa simpatica piantina dalla foglie rovinate e apparentemente rinsecchite!
Giungiamo a Tombwa, piccolo paese sulla costa, dove possiamo acquistare del pane e rivedere della gente. Strade di terra e polvere, bambini che corrono, gente vestita di poco; passiamo dal mercato, una collezione di cianfrusaglie, cibo secco, mosche, stracci: non si vede quella privazione assoluta che tanto spesso abbiamo conosciuto attraverso le immagini dei telegiornali, la gente sorride, la sensazione è che qui si viva tranquillamente.
Dopo quello che viene unanimemente decretato il tratto più arduo del viaggio, tra le più alte dune del Namib (alcune sfiorano i 200 m!), arriviamo alla nostra ricompensa: ben due notti in un camp, dotato di bungalow-palafitte, spartano in senso assoluto ma poco meno di una reggia imperiale per noi. La serata danzante ci insegna che il rap angolano di Perula qui va per la maggiore e impariamo anche a ballare la kizomba.
Spostandoci verso nord incontriamo la cittadina di Namibe, città costiera, una volta conosciuta come Moçamedes, ai tempi del colonialismo portoghese. Anche qui la gente vive per le strade, le case sono spesso dignitose ma semplici e prive di qualsiasi servizio e manutenzione, i giocattoli sono fatti di niente – bastano un pneumatico vecchio o un’automobilina di fil di ferro – gli uomini sono spesso disoccupati e oziano per le strade; solo le donne e i bambini si arrabattano vendendo frutta, saponette, o qualsiasi altro genere di prima necessità. Non fosse per il colore delle persone, Namibe ha un aspetto molto simile a certe cittadine nell’interno più povero del Centro America, fuori dai circuiti della salsa e dei resort caraibici. Pranziamo in un ristorantino locale: il pranzo è saporito ed abbondante, annaffiato naturalmente dalla birra locale, cerveja N’Gola.
Ai margini delle cittadine le bidonville sono straripanti di bambini, mosche e pesce steso ad essiccare; eppure la gente ci corre incontro solare, piena di vita e di pura energia.Tutti vogliono essere fotografati e i bambini in particolare si eccitano rivedendosi nelle foto scattate in digitale e si azzuffanno per qualche caramella.
I mercatini ci aggrediscono con i loro colori, con l’odore forte e sgradevole del pesce; i venditori espongono le loro povere mercanzie – qualche pomodoro, patate rinsecchite, cipolle, legumi, mucchi di scarpe usate, impolverate e spaiate, pantaloni jeans e coloratissime pezze di stoffa che le donne usano come vestiti.
La zona intorno a Namibe offre spettacoli naturali notevoli: un piccolo ed affascinante canyon assai suggestivo in cui recuperiamo un piccolo rettile mummificato (macabro amuleto per il nostro viaggio), due laghi prosciugati, cascate, wadi e vallate verdissime. Gli abitanti della zona si dedicano all’agricoltura, perchè qui fortunatamente non mancano i pozzi.
E poi via verso Lubango. La strada sale fino a 2000 metri per il Leba Pass, con una serie impressionante di tornanti: la vista dall’alto è uno spettacolo che lascia senza fiato.
Poco lontano, il canyon della morte, Tundavala: una voragine spaventosa che mette i brividi, dove – si dice – venivano gettati i ribelli durante gli anni cupi della guerra civile.
Lubango è la città più grande del nostro itinerario e il punto più a nord verso cui ci spingeremo. Nella città, dominata da una statua bianca del Cristo che ricorda quella di Rio de Janeiro, scorgiamo le prime tracce di ricchezza e di un passato coloniale di feste e lusso: il casinò, bellissimi giardini in fiore, un’enorme piscina abbandonata, hotel e alberghi di prim’ordine. Nella zona degli uffici pubblici del MPLA facciamo rifornimento in un supermercato che vende di tutto, anche merce d’importazione a prezzi comparabili o addirittura superiori ai nostri: vino di qualità, giocattoli, struccanti per occhi. Questo negozio decisamente non è per il popolo, ma per i ricchi (e corrotti) funzionari del governo. Passiamo poco tempo a Lubango, anzi, la sfioriamo appena per qualche rifornimento, ma è sufficiente per rimanere intrappolati nel traffico caotico: non sembra possibile che la sconfinata solitudine del Namib sia distante poche centinaia di kilometri.
Siamo ormai alla fine del viaggio, ci prepariamo a salutare questo straordinario Paese che non assomiglia a nessun altro. Ma c’è ancora tempo per percorrere una delle strade più disastrate ed infernali che si possano immaginare, o meglio quel che ne rimane dopo i bombardamenti dell’aviazione sudafricana, l’abbattersi di acquazzoni e temporali tropicali, e poi ancora di pesanti camion che, gravando sull’asfalto fradicio e fangoso, ne hanno staccato interi pezzi. Ai lati rivediamo gli agglomerati fatiscenti che incontravamo nei primi giorni, un altro mercato, baobab e souvenir della guerra: vecchi carri armati arrugginiti, pezzi vari di macchine belliche e cannoni. Ci fermiamo ad una scuola, è chiusa per ferie, ma il maestro è lì, ci vive con la sua famiglia. E’ l’ultima, piacevole chiacchierata con gli affabili angolani. L’aula per le lezioni è spoglia, alle pareti ci sono le pagelle dei ragazzi. Fuori, la moglie del maestro tiene a bada cinque figli mentre si occupa delle faccende di ogni giorno.
Arrivati a Santa Clara ci prepariamo a rientrare in Namibia, non senza aver salutato tra le lacrime il nostro driver angolano e questa terra ricchissima di gente povera, bella e allegra come un dipinto naif. Ci dispiace lasciare l’Angola, ci dispiace non sentire più il portoghese. Ma la sensazione, forte, è che questo paese ci rimarrà dentro in qualche modo. Forse a lungo, fino al momento in cui ci ritroveremo, di nuovo, ad aspettare pazientemente in mezzo a polli e bambini, ad un posto di frontiera.