Di Cristina Sartori e Bruno Riccardi.
27/12/2019. Arriviamo a Libreville in Gabon alle ore 19,30 con un volo Airfrance da Torino e scalo a Parigi Roissy. Ci attende il nostro amico Federico, italiano, gestore del villaggio turistico Akouango Village, che è sito in un bel posto denominato Cap Santa Clara a nord di Libreville, sull’Oceano Atlantico. Li riprenderemo Tatiana, la nostra Nissan Terrano dove l’avevamo depositata, per continuare la Transafrica di coppia. L’obbiettivo è di arrivare a Brazzaville nella Repubblica del Congo, visitando quanto più possibile lungo il percorso ma, soprattutto, con l’idea di avventurarci nel nord del Congo stesso, per vedere foreste, fiumi, animali, in territori considerati ancora ancestrali ed autentici e non battuti da turisti.
28-29-30/12/2019. Ci rilassiamo all’Akouango Village, nel mentre che un meccanico di fiducia di Federico, coi i tempi lunghi africani, fa il tagliando alla macchina e sostituisce gli ammortizzatori anteriori che ci siamo portati dall’Italia, in quanto uno perde olio, conseguenza del viaggio durissimo fatto fino a lì da Tangeri. Cambiamo gli euro in franchi CFA da una giovane sveglissima libanese e mangiamo ottimi piatti africani cucinati dal cuoco del villaggio: coccodrillo, coda di bufalo, foglie di manioca affumicate e cotte, pollo. Va tutto molto bene tranne il fatto che, tutte le sere dalle ore 20 circa alle ore 8 del mattino seguente piove a dirotto, fortissimo e allaga tutto! Abbiamo scelto il mese di gennaio per fare questa tappa poiché con febbraio dovrebbe corrispondere alla piccola stagione secca. I locali ci dicono che non ci si raccapezzano più manco loro e stavolta, la stagione delle piogge è iniziata con 20 giorni di ritardo pertanto, è probabile che termini con 20 giorni di ritardo. La notizia non è di quelle buone. Se fare le strade africane rotte, con enormi buchi e male asfaltare con fiumi di acqua è molto impegnativo, percorrere le piste è tremendo per il rischio di infangamenti, specie per il fatto che siamo soli; per raggiungere il Congo ne dobbiamo percorrere una di circa 300 km, senza alternative possibili.
31/12/2019. Stamattina per fortuna non piove. Partiamo dopo avere salutato tutti in direzione Congo, con l’intento di fermarci nella cittadina di Lambarenè nei pressi della quale sorge il famoso ospedale del dott. Albert Schweitzer, fondato dallo stesso nei primi anni del novecento per la cura delle gravi malattie delle poverissime genti della zona, la lebbra in particolare. Si dice che nell’ospedale possono ospitare i viaggiatori e decidiamo, se sarà possibile, di fermarci lì per la notte di Capodanno. La strada che da Libreville conduce a sud, è un disastro fino alla località di Bifoum. Solito ex asfalto con altri gradini che obbligano a procedere lentissimo. Successivamente, dopo circa 100 km l’asfalto diventa buono e passato l’equatore con il cartello di segnalazione, arriviamo all’ospedale nel primo pomeriggio. L’ospedale è fatto da una serie di padiglioni in legno, mentre quelli più moderni sono in muratura. Sorge fuori dalla cittadina sul grosso fiume Ogooué e possiede un imbarcadero dove ancora oggi, i locali arrivano in piroga per farsi curare. La parte più vecchia dell’ospedale è stata dismessa e trasformata in un piccolo museo che visitiamo con una simpatica guida e poca spesa. Successivamente la signora ci fa vedere anche l’esterno dell’ospedale dove circolano liberamente gazzelle, il luogo ove è sepolto Schweitzer, e una stanza più che decente, ricavata con altre due, in un vecchio padiglione di legno. Decidiamo di passare la notte e li. La cena sarà alle ore 20 nel refettorio dell’ospedale, menù: riso bollito accompagnato da foglie affumicate e cotte di manioca, pesce di fiume. Si beve acqua o birra. Il clima è africanissimo, molto particolare, suggestivo, difficile da descrivere. A cena nel refettorio, siamo in compagnia di una signora congolese con la figlia, aspetta il marito il giorno dopo, di una donna tecnico di laboratorio dell’ospedale e un medico pediatra di guardia. Il cibo è semplice ma ben cucinato da una simpatica ragazza che poi si unisce a noi. Chiacchieriamo con loro e il medico ci spiega che la lebbra è stata debellata ma ci sono molte altre malattie gravi; i ricoverati attualmente sono particolarmente bambini mentre di giorno fanno molta attività ambulatoriale per i locali. Facciamo alcuni brindisi a base di acqua e birra e decidiamo unanimemente che il panettone Motta che abbiamo portato dall’Italia e che loro non conoscono, venga tagliato a pezzetti e distribuito ai bambini ricoverati. Il Capodanno più particolare della nostra vita, forse il più bello, termina alle ore 22,30. Andiamo a dormire felici.
1/1/2020. Partiamo da Lambarenè che non piove ma il tempo è nuvoloso, cosa che ci preoccupa. Visto che l’asfalto è finalmente in buone condizioni, decidiamo di proseguire verso sud il più rapidamente possibile, fino all’ultima cittadina del Gabon, Ndendè, dove dovremo fare le pratiche di frontiera. Lungo la strada si alternano foresta e savana. In giro non c’è nessuno, siamo soli lungo tutto il percorso, il Gabon infatti è uno stato scarsamente popolato, specie nelle lande più sperdute. Nel primo pomeriggio arriviamo a Ndendè e recatici all’ufficio dogana e immigrazione, scopriamo che è chiuso. Al centro del grosso villaggio, chiediamo informazione ad un tale in borghese il quale dice di essere il comandante della Gendarmeria locale e che tutti gli uffici sono chiusi per la festività. Ci indica per passare la notte un hotel (si fa per dire) molto africano ma decente, gestito da una congolese. Infine dice che il giorno successivo si interesserà lui di tutti i nostri documenti e che, oggi prima saremo ospiti a casa sua nel pomeriggio per un rinfresco e poi, verso sera, ospiti a casa del Prefetto dove ci sarebbe stato anche il capo della polizia, per una festa di Capodanno! Non siamo molto avvezzi a certe frequentazioni ma, date le circostanze e anche una certa gentilezza, accettiamo. La casa del capo della gendarmeria è molto bella per lo standard africano; la moglie ci prepara un loro antipasto tipico a base di pezzetti di stomaco di pollo fritti, piatto molto gustoso, accompagnato da birra. Passiamo li un’ora abbondante ascoltando il gendarme che ci racconta tutta la sua carriera e poi, saliti sul suo fuoristrada Toyota nuovo di zecca, andiamo nella dimora del prefetto che già ci attendeva. La casa è una villa lussuosa in stile africano, completamente circondata da un muro molto alto con le guardie. Esiste un grosso patio con poltrone all’europea e lunghi tavoli imbanditi di ogni ben di Dio per l’occasione. Tre cuoche in livrea preparano e servono cibi in continuo. Molti sono gli invitati uomini e donne, tutti vestiti in modo tradizionale o all’occidentale ma con ostentata eleganza, tanto da far sembrare noi in abiti semplicissimi ed in ciabatte, dei poveri disperati. Eravamo comunque con tutta evidenza la curiosità del giorno. Veniamo così coinvolti seduti su comodissime poltrone in una discussione col prefetto, il capo della polizia e il capo gendarmeria. Il tema riguarda come funzionano le forze dell’ordine in Gabon confrontato al funzionamento delle italiane. (Che roba!) Poi si passa a discutere del nostro viaggio, circostanza nella quale ci spiegano che la pista che parte da lì e va fino a Dolisie in Congo è terribile, le piogge l’hanno danneggiata molto, è piena di fango e laghetti da guadare e in quei tempi è pochissimo frequentata anche dai camion. Tuttavia, avendo noi un buon 4×4, la possiamo tentare. Le due ore di discussione in realtà passano bene perché ci rimpinziamo di cibi davvero ottimi: coccodrillo (che è buonissimo) cucinato in vari modi, gazzella, bufalo, pesci di fiume a noi ignoti, strane verdure, ananas, bevendo vini francesi di alta qualità quali Bordeaux e Champagne, poi cognac, whisky e simili. L’alcool fa dimenticare, specie a Bruno, le preoccupazioni per la pista da farsi all’indomani. Prima di andare in albergo, il capo della gendarmeria ci dà appuntamento alle ore 8,30 del giorno dopo negli uffici gendarmeria e immigrazione, poiché penserà lui a sveltire tutte le nostre pratiche. (sic!)
Arriviamo nel modesto hotel dove siamo gli unici ospiti, ed inizia una pioggia copiosissima con la solita violenza che dura fino a circa le ore 4 del mattino. Certamente la peggiore condizione che poteva capitarci per il percorso del giorno seguente.
2/1/2020. Al mattino ci appare tutto bagnato, a tratti semi allagato. Ci domandiamo se ha senso partire o se sia meglio aspettare un giorno che asciughi tutto. Chiediamo il parere della congolese, molto sveglia, che gestisce l’albergo. Ci consiglia di partire poiché la pioggia venuta durante la notte non è stata delle peggiori e che, sicuramente pioverà ancora e di più!! Mesti, andiamo puntuali all’ufficio della gendarmeria dove scopriamo che il comandante non c’è. Seccati e scorbutici, gli agenti ci chiedono perché vogliamo il comandante. Spieghiamo che ci ha dato appuntamento e pertanto lo aspetteremo. Arriva alle ore 9,30 facendoci perdere una preziosa ora. Fatte le pratiche, non tanto velocemente, partiamo per imboccare la pista che va in Congo. L’inizio della pista e sbarrata per il controllo dei documenti e alla nostra domanda se fosse passato qualcuno, gli agenti ci dicono che è transitato un camion un paio di ore prima diretto in Congo e di guidare con molta ma molta attenzione. Imbroccatala, constatiamo che la pista è molto stretta, tanto da farci dubitare che due mezzi che si incrociano possano passarvi. Ai lati c’è una vegetazione molto alta di cespugli, specie di rovi di legno duro, erbaccia alta anche due metri e più. Il fondo è terribile, pieno di fango viscidissimo per un’altezza di 10-15-20 cm. Difficile tenere Tatiana in traiettoria anche con il 4×4 inserito; molte le scivolate, gli sculettamenti e i mezzi testacoda. Il peggio poi sono dei pozzangheroni simili a veri laghetti lunghi anche 30-40 metri che ci obbligano a scendere per ispezionare la profondità dell’acqua, a volte anche di mezzo metro, per capire il percorso più favorevole per attraversare. Tuttavia, con una certa fatica, procediamo per una quarantina di km senza ovviamente incontrare anima viva, quando ci appare davanti un grosso camion autoarticolato, Mercedes di vecchio modello ma ancora diffusissimo in Africa, completamente bloccato nel fango. Davanti a noi la pista era diventata una profonda fangaia, davvero impressionante. Fermata Tatiana ci entriamo ovviamente a piedi e si sprofonda fino a sopra il ginocchio. La fangaia è lunga non meno di 60-70 metri. Nel tentativo di attraversamento il camion è sprofondato completamente nella melma, fino a spanciare con l’intero lungo rimorchio e la metà posteriore della motrice. Parliamo coi tre giovani autisti che sono diretti a Brazzaville, i quali dicono di avere telefonato ad un Caterpillar a cingoli che, prima o dopo, sarebbe venuto per tirarli fuori. Non abbiamo capito da dove arrivasse sto Caterpillar, visto che eravamo nella desolazione più assoluta, chissà. Il camion tuttavia si era infangato per diritto lasciando uno spazio sufficiente per tentare di passare di lato con Tatiana, fermo restando di non infangare anche noi. Riflettiamo sul da farsi e decidiamo di provare, al massimo in caso di infangamento, il Caterpillar avrebbe trainato anche noi. Non ha senso aspettare li chissà per quante ore, o giorni, senza provare a passare. E così Bruno parte deciso alla guida, andando in un tratto che in apparenza ha un fondo più solido ma, dopo una trentina di tribolatissimi metri lo spanciamento della Nissan è totale, l’auto appoggia sul fondo per tutta la sua lunghezza e le ruote girano a vuoto. Siamo completamente bloccati anche noi. A questo punto scatta la solidarietà tra viaggiatori nei guai. I camionisti con un lungo machete tagliano dei rovi da mettere sotto le ruote di Tatiana e con due pale aiutano Bruno a togliere fango da sotto la macchina. Di alzare la macchina col crick manco a parlarne poiché sprofonda nella melma. Dopo una bella ora di lavoro e spinte alla macchina, niente da fare, non se ne esce. Sembra scontato che dovremmo attendere l’arrivo del misterioso Caterpillar. Sia noi che i camionisti abbiamo acqua e viveri a sufficienza anche per aspettare più giorni e, conseguentemente ci mettiamo il cuore in pace. Siamo sporchi di fango all’inverosimile su tutto il corpo e tutti i vestiti.
Ad un tratto sentiamo il rumore di un motore in arrivo dal tratto di pista da noi già percorso e scopriamo una motoretta a tre ruote con il cassone dietro, guidata da un vecchio e con dodici ragazzoni e una vecchia, seduti nel cassone. La motoretta arranca nella pista terribile ma, ogni volta che si impantana i ragazzi scendono, la alzano di peso e la tirano via dalla melma. Forse quello è l’unico mezzo utile per viaggiare su quella pista, geniali! Non si capisce da dove provengano ma sospettiamo siano di qualche villaggio nascosto nei dintorni che, vedendoci passare e certi che avremmo infangato, sono venuti a guadagnare la giornata. Ci dicono che quello e il tratto più difficile di tutta la pista. Armati di più pale, si mettono a scavare attorno a Tatiana per una bella mezz’ora, poi con la spinta di ben 12 uomini d il sollevamento del mezzo a braccia, riescono a liberarci dalla morsa. Costo, 10.000 CFA, circa 15 euro, la somma più ben spesa della nostra vita! Filmando la scena dell’uscita dal fango della nostra macchina, Cristina perde l’equilibrio e cade completamente nella melma. Il camion non può essere ovviamente liberato da questi ragazzi e dovrà attendere la ruspa. Salutiamo tutti e ripartiamo.
Troviamo ancora fango e lo superiamo ma soprattutto, molti più guadi il più grande e largo dei quali ha l’acqua che corre come fosse un fiume. Dall’altra parte del guado, scopriamo il primo mezzo che incrociamo in giornata, un Hilux bianco con un autista nero che si è fermato anche lui per ispezionare la profondità dell’acqua prima di tentare il passaggio. Ci mostra alcuni bastoni piantati che, a suo dire, sono segnali posti per indicare l’acqua meno profonda; così, aiutandoci e segnalandoci il percorso a vicenda, passiamo noi da una parte e lui nel senso contrario. L’acqua è veramente profonda e arriva ai fari di Tatiana che infatti si sono riempiti un poco ma per fortuna senza altre conseguenze.
Arriviamo al posto di dogana gabonese dove ci timbrano rapidamente il carnet e, a nostra domanda, l’agente ci dice che la pista nella parte congolese è ancora peggio.
Percorriamo gli ultimi 5 km e, finalmente, troviamo il villaggio di Ngongo, posto di frontiera del Congo. Nei nostri viaggi abbiamo visto molti punti di frontiera miserabili ma qui, siamo al di sopra di ogni immaginazione. La pista internazionale è completamente distrutta e in salita, il posto di frontiera consiste in un piccolo villaggio di capanne e catapecchie dove vivono locali poverissimi. Alcuni bambini seminudi girano assieme a capre e galline, alcune donne puliscono delle strane verdure su dei tavolacci mentre gli uomini, sono seduti a crocchio senza fare assolutamente nulla. Dentro due catapecchie sbrighiamo le pratiche di polizia ed immigrazione ma, quando arriviamo alla catapecchia della dogana, l’agente non c’è. Chiediamo informazioni a quelli della polizia che ci dicono che lo avevano visto nei dintorni e di aspettare che prima o dopo arriverà! Dopo una mezz’oretta compare un tale, in borghese e con una bottiglia di birra in mano; è lui, l’unico doganiere presente. Si assenta spesso poiché dice, non passa mai nessuno. Ci timbra rapidamente il carnet e ripartiamo.
Dato che è ormai pomeriggio avanzato, decidiamo di percorrere ancora la settantina di km che mancano al villaggio di Nyanga e cercare da dormire in quel luogo. La pista è sempre tremenda ma riusciamo ad arrivare a destinazione. Nyanga è un villaggio poverissimo situato sulla riva del grosso fiume omonimo. Nello spiazzo centrale del paese, si affacciano due piccoli empori con proprietari mauritani che vendono di tutto. C’è il posto di polizia dove dobbiamo registrarci e constatiamo che oltre ad un pick up della polizia stessa, nel villaggio non esistono fuoristrada o automobili di sorta ma esclusivamente qualche motorino cinese. E’ evidente che da quelle parti le automobili normali non ce la fanno a circolare e i 4×4 sono troppo costosi per queste persone. Ovviamente non esistono distributori di carburante, ma noi abbiamo una buona scorta.
Chiediamo a dei ragazzi dove si potrebbe dormire e loro ci accompagnano nel posto migliore (sic!). Dal villaggio scendiamo verso il fiume dove sorge una costruzione in stile coloniale completamente decadente, senza porte, con l’apparenza di essere abbandonata. Il gestore non c’è ma i ragazzi ci dicono di averlo visto in paese e a breve arriverà. Entriamo e constatiamo l’abbandono più assoluto, tranne due stanzette con dei letti matrimoniali e un vano più grande con dei divani di pelle semidistrutti. Nel paese non c’è di meglio, pare ci sia solo un posto ancora peggiore! Arrivato il giovane proprietario, con un abito all’europea completamente bianco malgrado fossimo immersi nel fango, concordiamo con lui di dormire li. L’acqua corrente non esiste e se vogliamo lavarci dobbiamo prenderla dal fiume con un paio di secchielli che ci fornisce. L’elettricità, dice che quasi tutte le sere arriva alle ore 19 e dura fino alle 22,30. Concordiamo un prezzo ovviamente irrisorio e decidiamo di fermarci, tanto non ci sono alternative.
Prima prendiamo a secchiellate con l’acqua di fiume la povera Tatiana, nel tentativo di togliere un po’ di fango del quale è strapiena. Poi, sempre con l’acqua di fiume tra l’altro terrosa, ci laviamo alla belle meglio pure noi, togliendoci il fango di dosso. Il buio arriva all’improvviso ma la corrente elettrica no. Alla luce delle lampade frontali, ceniamo nella misera stanza assegnataci, con biscotti e acqua minerale. Attorno alle ore 20, si aprono le cateratte del cielo e comincia a piovere fortissimo, come non abbiamo mai visto prima, impressionante! Continua per tutta la notte e ci preoccupa. La stanchezza comunque è troppa e riusciamo a dormire.
3/1/2020. Alle ore otto del mattino piove ancora fortissimo, termina solo dopo le nove. Dopo tanta acqua caduta, il paesaggio fuori dall’improbabile hotel è una fangaia, una risaia, un pantano terribile. Siamo incerti se partire o meno, temendo di trovare la pista impraticabile. Da dove ci troviamo ad arrivare all’asfalto, mancano ancora circa 180-190 km. Non è uno scherzo in quelle condizioni. Tuttavia alla fine, verso la tarda mattinata, prevale la voglia di partire. Triboliamo molto a fare nel fango la salita dal bordo del fiume al villaggio ma alla fine riusciamo a partire verso la città di Dolisie che è la nostra meta. I primi 100 km li troviamo ancora molto duri ma si viaggia con molta prudenza, poi scendendo verso sud il fango decresce e lascia spazio ad una pista di terra indurita piena di buche ma, ovviamente, è molto meglio. A circa 15 km da Dolisie, inizia l’asfalto nuovo di zecca, e al primo buio entriamo nella città dove ci fermiamo in un buon albergo in zona centrale, decidendo di starci un paio di notti per rilassarci, vedere la città che è la terza del Congo Brazzaville e fare pulire la macchina, specie il radiatore, coperto da fango indurito che sembra cemento.
4-5/1/2020. Nei due giorni trascorsi a Dolisie, Bruno che si occupa del lavaggio della macchina, di fare smontare e pulire dentro e fuori il radiatore, mentre Cristina preferisce chiacchierare con un vecchio congolese istruito che gestisce un “maqui”che sorge il prossimità dell’albergo, dove si beve solo birra e si mangiano piatti africani. Le chiacchierate con l’uomo fatte seduti all’ombra di un baobab sono interessati e rilassanti E’ una persona colta molto più della media dei suoi compatrioti, gentile, disincantata e saggia. Ci racconta la storia di Dolisie e dei dintorni, fiero che la sua città sia una delle tre del Congo con il passaggio del treno che collega Brazzaville a Pont Noire. Conferma che la durata dell’ultima stagione delle piogge è particolarmente sballata. Per quanto riguarda la città, molto interessante è la visita al quartiere più antico col solito mercato africano ma, soprattutto, le vie dove gli artigiani lavorano in modo tradizionale in mezzo alla strada il legno pregiato delle foreste dei dintorni. E’ bello vederli lavorare e, cosa particolare, constatiamo che i letti sono la loro specialità, fatti in varie fogge di gusto africano ed esposti davanti alle botteghe. Anche a Dolisie, non smette di piovere per alcune ore, a tratti le strade sembrano fiumi in piena con l’acqua che corre!
6/1/2020. Il giorno dell’Epifania partiamo da Dolisie per percorrere i circa 400 km che ci porteranno a Brazzaville. Imbrocchiamo una strada asfaltata a due corsie, che collega Point Noire sull’Atlantico a Brazzaville, la più bella che abbiamo visto sino ad ora in Africa Nera. Dopo le pene dei giorni precedenti, non ci sembra vero di avanzare rilassati, anche con punte superiori a 100 Km/ora, per giunta con pochissimo traffico e con tempo finalmente sereno, ma con temperatura molto elevata. La sfiga comunque che ci segue sempre fin dalla partenza di questa Transafrica è in agguato. Dopo una ottantina di km a buona velocità, udiamo un rumore acuto provenire dalla ruota anteriore destra di Tatiana. Ci fermiamo e toccato il mozzo della ruota risulta rovente, segno probabile di qualche problema ai cuscinetti che surriscaldano. Constatiamo che siamo a 7 km dalla località di Nkayi e decidiamo di raggiungerla a passo d’uomo alla ricerca di un meccanico. Fortuna vuole, si fa per dire, che poco dopo incontriamo un posto di blocco della polizia ai quali chiediamo aiuto. Molto gentili, telefonano ad un meccanico di loro conoscenza di Nkayi che ci raggiungerà li. Meglio così. Dopo circa mezz’ora, arriva il nostro meccanico su un motorino cinese, seguito da un vecchissimo Hilux con cinque ragazzi sopra: deve essere l’intera sua squadra di lavoro. Costui, simpatico ometto di nome Pierre, aiutato dagli altri smonta la ruota e constata che il cuscinetto circolare della stessa è completamente macinato e quello a tronco di cono, danneggiato; bisogna ovviamente sostituirli. Sentenzia che è entrato del fango che ha fatto i danni mischiandosi con il grasso. La nostra preoccupazione è, ovviamente, quella di recuperare i cuscinetti di ricambio in quella landa. Pierre dice: “pas de problémes…” nella cittadina di Nkayi li troviamo. Così, mentre Cristina sta coi ragazzi vicino alla macchina, Bruno sale sul motorino con Pierre coi campioni dei cuscinetti diretti alla cittadina. I primi tre ricambisti, piccoli negozi che vendono articoli per auto soprattutto giapponesi diffusissime, non hanno i cuscinetti. Pierre confida molto nel quarto che è più grande. Raggiunto, scopriamo che è chiuso. Pierre non dispera, chiede a tutte le persone nei dintorni ma nessuno sa dove sia il proprietario. Al caldo infernale e bevendo una birra, prende il sopravvento l’ipotesi che fino al giorno dopo questo magazzino sarà chiuso. Il problema è che abbiamo l’auto in mezzo alla strada, con una ruota smontata e a 7 km dal centro abitato. Bella grana. Ripartiamo col motorino per tornare all’auto ferma, quando Pierre scorge per la strada il proprietario del magazzino. Ci fermiamo e, mostratigli i cuscinetti, dice di averli disponibili, ma deve andare a prendere le chiavi del magazzino, cosa che comporta un’ora di tempo. Nell’attesa, Pierre spiega a Bruno che quello è un nigeriano, vero “bandit” e che bisognerà trattare molto i prezzi. Si decide comunque di prendere quattro cuscinetti, anche per eventuali danni all’altra ruota che è meglio controllare, e del grasso. Il nigeriano arriva e tirati fuori i quattro cuscinetti, chiede in Franchi CFA una somma di circa 60 euro, prezzo molto basso per gli standard europei, tenuto anche conto che i cuscinetti sono costruiti con licenza SKF, quindi di buona qualità. Pierre a questo punto si sbatte per terra, dice che è troppo, è impossibile pagare una cifra simile! Scena da vero mercato africano. Bruno offre quindi 40 euro, ma il nigeriano non molla, malgrado la scena di Pierre. Dopo lunga trattativa, il nigeriano si mette a parlare in inglese per non farsi capire da Pierre e chiede a Bruno 45 euro, con in omaggio però il grasso occorrente. A questo punto si fa l’affare. Si riparte con la motoretta ma Pierre, prima di arrivare alla macchina porta Bruno nella savana a casa sua per presentargli la moglie e i figli. C’est l’Afrique. La riparazione termina alle ore 17 del pomeriggio, compreso il controllo della ruota sinistra che però non ha problemi ai cuscinetti che vengono comunque ingrassati. Costo dell’operazione 10.000 franchi CFA oltre ad altri 5.000 regalati al gruppo, pari a circa 21 euro! La sera la passiamo in un alberghetto carino vicino al villaggio, indicatoci da Pierre dove, tra l’altro, mangiamo dell’ottimo pesce di fiume.
7/1/2020. Partiamo finalmente per Brazzaville continuando sulla bella strada che è tale fino a 30 km dalla capitale poi, chissà perché, diventa brutta e piena di buche. La periferia di Brazzaville è brutta, il traffico caotico ma, avvicinandoci al centro, lo spettacolo migliora e ci mostra una delle più decenti città africane viste sino ad ora. Giunti all’elegante quartiere centrale, pieno di caserme, ministeri e ambasciate, proseguiamo fino alla nostra meta, l’hotel Amaritsah Club, nel garage del quale lasceremo Tatiana in riposo fino alla prossima tappa. L’hotel è gestito da una società svizzera il cui direttore generale di nome Marco è un ingegnere italiano, da noi conosciuto recentemente nel Monferrato, che tutti i mesi fa un salto a Brazzaville restandoci per alcuni giorni. Con lui concordammo la possibilità di lasciare l’auto nel garage dell’hotel. L’albergo è un quattro stelle, elevato per gli standard locali, meritevole. Ci aspettavano e quindi è tutto pronto per noi, compresa la possibilità di giro nel nord del Congo accompagnati da un loro autista. Il pomeriggio lo dedichiamo a vedere l’immenso fiume Congo che sembra largo come il mare. La sera mangiamo molto bene nel ristorante dell’hotel.
8/1/2020. A Brazzaville il clima è torrido, 34-35 gradi ma quel che è peggio è l’elevatissimo tasso di umidità che stronca. Con quel clima, a piedi si può circolare solo al mattino e lo dedichiamo alla visita del più grande mercato della città, il Total, caotico, ricchissimo di colori e odori, alcuni anche vomitevoli, non graditi a Cristina. Vediamo altresì la Maison De Gaulle, dove durante la resistenza al nazismo abitava appunto De Gaulle, che aveva proclamato Brazzaville capitale della Francia Libera.
Nel pomeriggio in albergo organizziamo il viaggio nel Congo fino a dove possibile arrivare a nord, ipotizzando teoriche tappe per un giro di circa 2000 km tra andata e ritorno. Ci andremo su una Toyota Prado passo lungo dell’hotel, guidata da Samuel, un giovane loro autista di fiducia. Tatiana si riposerà nel garage e noi finalmente, ci faremo trasportare godendoci il viaggio da stravaccati.
9/1/2020. Partiamo da Brazzaville con la Prado quasi nuova, imboccando la strada nazionale n.2 che termina dopo circa 950 km nella cittadina di Ouesso nell’estremo nord del paese. La strada pur essendo importantissima, dopo circa 50 km da Brazzaville diventa disastrosa, si trasforma in pista delle più brutte e scassate; Samuel dice che una volta era asfaltata ma da quando è stata costruita 19 anni prima, non è mai stata oggetto di manutenzione e quindi si è distrutta. Sarà pista brutta per non meno di 300 km. Tanto per non farci mancare nulla, inizia a piovere a dirotto e avanzare tra buche, fango e camion carichi di tronchi che incrociamo in senso opposto, è complicato. Samuel è un ottimo autista, esperto di quelle situazioni e riesce ad avanzare sempre, anche nelle circostanze più difficili. Ci dice che lui non è una guida turistica ma come autista dell’hotel, porta spesso uomini d’affari in giro per il Congo, paese che conosce molto bene. Ci racconta della moglie e della figlia piccola e che sta studiando inglese per conferire coi clienti non francofoni.
Viaggiamo tutto il giorno prima sotto la pioggia che per fortuna, termina dopo circa tre ore. Il percorso è molto interessante, inusuale, pochissime auto qualche camion; lungo la via attraversiamo villaggi poverissimi immersi nel fango. In alcuni tratti, la gente del luogo si è industriata ad aprire piste parallele alla strada principale trasformata in impraticabile fangaia. Le auto, molto scassate, percorrono questi passaggi secondari meno rischiosi per gli impantanamenti, lasciando un obolo di 1000 franchi CFA, circa 1,5 euro, a quelli che hanno scavato la pista che in questo modo, sbarcano il lunario. Vita davvero poverissima. Sono moltissimi i fiumi grandi e piccoli che attraversiamo, tutti affluenti o sub-affluenti del vicino maestoso Congo.
A metà pomeriggio, la strada ritorna asfaltata e, dopo avere passato una savana collinare, arriviamo in una sorta di pianura bucolica dove per una quarantina di km, sorgono recinti di legno e ranch all’americana con molti bovini al pascolo. Il luogo è apertamente in contrasto con quanto incontrato sino ad ora e Samuel ci spiega che sono gli allevamenti del presidente del Congo. Ci mostra anche una costruzione modernissima che è un macello, sempre del presidente. Siamo infatti a poca distanza dalla città di Oyo, patria dello stesso. Alla nostra domanda perché non fa aggiustare la strada per Brazzaville, risponde: lui viaggia in elicottero…
Arrivati alla cittadina di Oyo, con tutte le strade asfaltate e molto più ordinata delle altre viste sino ad ora, soggiorniamo in un albergo, addirittura con WiFi, di proprietà della figlia del presidente…
10/1/2020. Puntiamo verso il villaggio di Owando passando in una zona dalla vegetazione equatoriale molto fitta. Mangiamo banane e arachidi comprate da venditrici per la strada. Da Owando passa un affluente del Congo, il Kouyou, sul quale viaggiano barconi e piroghe diretti alla remota località di Mossaka alla confluenza col grande fiume a circa 130 km più a valle, località raggiungibile anche da Brazzaville ma solo con imbarcazioni. L’idea è quella di fare un giro in barca su questo fiume anche se ci spiega Samuel, i barconi trasportano solo merci e non hanno orari, partono solo se sono a pieno carico. Nel primo pomeriggio andiamo all’imbarcadero di Owando, posto tra vegetazione lussureggiante, dove ci sono case di pescatori fatte di fango e canne e dove molte piroghe e barche sono ormeggiate. Dei ragazzini ci mostrano molti pesci catturati, simili a grossi pesci gatto. Quel pesce con una specie di carpe, saranno il nostro alimento base per tutti i giorni successivi, lo cucinano molto bene alla brace o bollito.
Chiediamo ad un pescatore se ci può accompagnare in barca fino a Mossaka e lui dice che ci sono 15 ore di viaggio di andata e 15 di ritorno ma noi non abbiamo tutto quel tempo. Chiediamo quindi di fare una giro di 4-5 ore sul fiume e concordiamo un prezzo. Lui prepara una piroga malandata e strettissima ma, purtroppo, il tempo si annuvola e minaccia ancora pioggia. La piroga non ha alcun riparo e in caso di pioggia torrenziale non solo la beccheremmo tutta, ma con due secchielli dovremmo darci da fare per svuotare rapidamente l’imbarcazione. Dato che, tra l’altro, ci sono molti coccodrilli in circolazione, preferiamo desistere. C’è una barca più grossa ancorata, per giunta con un riparo per i passeggeri ma, a richiesta, il pescatore dice che per quella ci vogliono due motori e che lui ora ne ha a disposizione solo uno. Spiaciuti, dobbiamo rinunciare e per fortuna; dopo mezz’ora inizia la solita pioggia torrenziale.
11/1/2020. Proseguiamo verso Ouesso con il tempo finalmente sereno. La strada completamente deserta è ben asfaltata, a tratti la vegetazione equatoriale molto fitta, l’ha invasa ma si viaggia bene. Incontriamo i soliti villaggi con donne che vendono banane, ananas e manioche per la strada. Vendono pure giovani gazzelle e macachi appena abbattuti. Per un centinaio di km la strada lambisce un parco nazionale e i guardiaparco che spesso ci fermano, dicono di stare molto attenti a elefanti e bufali che possono attraversare la strada. La zona è nota anche per la presenza di gorilla e scimpanzè. Samuel si ferma in un tratto che a suo giudizio, è frequentato da gorilla. Aspettiamo alcuni minuti col motore spento ed effettivamente, udiamo a poca distanza il verso di alcuni gorilla che si sono accorti della nostra presenza. Non riusciamo a vederli per la vegetazione fittissima quando improvvisamente, un gorilla di non grande dimensione attraversa la strada velocissimo ad una ventina di metri dalla macchina, subito dopo il manto di asfalto è attraversato anche da un lungo serpente verde, probabilmente un mamba. Bellissimo.
Arrivati a Ouesso, scopriamo la cittadina capitale della provincia del nord Sangha, centro importante come arrivo della strada nazionale, da dove partono piste per i vicinissimi Camerun e Repubblica Centrafricana ma soprattutto, importante porto fluviale collegato con tutti i paesi limitrofi e sede di dogana e frontiera. La cittadina ha molte costruzioni in stile coloniale ma purtroppo anche molte catapecchie abitate dai più umili. Andiamo ad alloggiare in un albergo poco più che decente.
12/1/2020. La cosa più interessante della cittadina è il porto fluviale abbastanza vivace di barche, barconi, piroghe e anche grosse chiatte che trasportano camion da una parte all’altra del fiume Sangha, molto grosso. Al porto conosciamo tre ragazzi cinesi che parlano molto bene inglese i quali, malgrado la temperatura torrida, sono vestiti con scarponi, pantaloni lunghi, giubbotti, cappelli e perfino guanti!! Danno l’idea di essere ingegneri, agronomi o simili, dipendenti di qualche ditta cinese. Alla nostra domanda perché fossero così pesantemente vestiti, rispondono che non hanno farmaci preventivi per la malaria ma solo curativi, quindi devono proteggersi al massimo. Hanno affittato una veloce barca a motore con pilota, con la quale si fanno portare nella Repubblica Centrafricana. Noi decidiamo di attraversare il fiume Sangha su un barcone per andare sull’altra sponda dove, ci dicono i locali, c’è un mondo ed inizia la foresta abitata dai pigmei. Saliti sul barcone con una trentina di locali, sbarchiamo sull’altra sponda in piena foresta. Qui ci si presenta l’Africa più autentica. Alcuni vendono pesce, altri frutta. Una lunghissima fila di camion di tronchi attende sulla pista l’arrivo della chiatta per traghettare. Ci metteranno giorni dato che la chiatta, molto lenta, ne può portare solo uno per volta. Gli autisti dei camion di varie nazionalità, fanno il bucato, mangiano, chiacchierano; sono abituatissimi a tempi incerti e infiniti. Ovviamente noi due bianchi siamo l’attrazione del giorno e molti ci chiedono da dove veniamo e cosa facciamo li. Scopriamo che per andare nei villaggi pigmei occorre una settimana di tempo in piroga e che, l’unico modo per accedervi è farsi accompagnare da un frate francese che vive con loro. Costui però non ha tempi, a volte non viene a Ouesso per mesi.
Assistiamo ad una mezza rissa quando una ragazza furibonda, a stento trattenuta da tre donne, vuole massacrare con un lungo machete un ragazzo contro il quale inveisce urlando nella loro lingua. La donna con le bave alla bocca dalla rabbia, può davvero essere pericolosa e ci mettono molti minuti a disarmarla ma non a chetarla. Samuel che capisce abbastanza la lingua che parlano, dice che la ragazza ha dato dei soldi all’uomo per comprarle qualcosa ma lui non ha comprato nulla e non le ha restituito i soldi. Cest l’Afrique. Verso sera riprendiamo il barcone per Ouesso dove vediamo per la prima volta due uomini di etnia pigmea, effettivamente, statura a parte, molto diversi per fisionomia dagli altri africani. Non ce la sentiamo di fotografarli.
13-14/1/2020. Riprendiamo la strada per il ritorno verso Brazzaville. Per la strada ci fermiamo spesso a vedere tutto ciò che incontriamo e che ci interessa e dormiamo a Makoua e Oyo. Particolari sono i cimiteri che sorgono lungo la via dove capita. Samuel ci spiega che chi non vuol seppellire il defunto presso l’abitazione, come abbiamo potuto constatare in molte occasioni, si sceglie un posto normalmente lungo una pista e vi seppellisce il morto. Successivamente altri lo imiteranno e il luogo diventerà così un piccolo cimitero. Nessuna autorità ha alcunchè da dire. E’ molto stupito del modo di funzionamento dei cimiteri italiani che gli spieghiamo.
Scopriamo degli strani frutti di colore bluastro che vendono, di nome “fufù”. Per mangiarli occorre togliere la pelle e, assaggiati, sanno vagamente di cannella e mentolo. Una pianta particolare che vendono per la strada è quella che loro chiamano asparago africano. Non hanno nulla a vedere coi nostri asparagi e non sappiamo se appartengono alla stessa famiglia. Ci spiegano che crescono spontaneamente e sono delle specie di canne che vengono tagliate a pezzi di 40-50 cm e poi affumicate, tant’è che all’esterno si presentano pieni di fuliggine. Tolta la parte esterna però, compare una anima color avorio molto tenera e buona. Ne mangiano molti e Samuel ne compra un fascio per portare a casa sua. Vediamo venditori altresì di patate dolci e di igname, oltre che ai soliti buonissimi ananas e arachidi. Fuori dalle principali città i congolesi sono poverissimi. Tuttavia dal punto di vista alimentare non se la passano malaccio per la caccia, la pesca, la raccolta di frutti e erbe, e allevamento di capre e gallinelle. Ci pare di capire che hanno una disponibilità di alimenti nettamente superiore e più varia dai popoli del Sahel tipo Maliani o Burkinabè.
Fuori da Oyo, abbiamo un incontro davvero particolare. Incrociamo un figuro alto, coperto da uno strano costume con molte penne di uccello sulle spalle. Dello stesso non è visibile il volto nascosto ed è accompagnato da due ragazzini che suonano una strana musica battendo su degli stani strumenti. Samuel ci dice che è uno stregone. Fermiamo, lo fotografiamo e lo filmiamo. Ci dice in francese che sta andando ad un simposio di stregoni dalla magia molto potente. Samuel certifica che è vero!
15/1/2020. Decidiamo di abbandonare la strada principale e di prendere una pista che in una quarantina di km ci porterà al remoto villaggio di Bouanga che sorge sul grande fiume Congo. Samuel non conosce detta pista ma è favorevole a percorrerla. Scopriamo subito che è pessima, con buche enormi e grossi banchi di sabbia ancora impregnati di acqua abbondante per le forti piogge dei giorni scorsi. Passiamo una zona molto bella con un piccolo fiume nella bassa acqua del quale, due uomini stanno facendo macerare la manioca e alcune donne fanno il bucato. La macerazione della manioca è una procedura tradizionale che porterà successivamente all’essiccamento della pianta e infine alla sua macinatura in farina. Lo spettacolo è interessante ma l’odore della manioca che fermenta è forte, pessimo, vomitevole. Proseguiamo ancora e, malgrado l’indiscussa abilità del nostro pilota, ci insabbiamo fino a spanciare la macchina completamente in un tratto di sabbia bagnata e traditrice. Siamo soli e cominciamo a spalare…spalare, sotto un sole micidiale. E’ del tutto evidente che non possiamo farcela anche perché nei dintorni ci sono solo erbe alte e nessun ramo da tagliare e mettere sotto le ruote. Gli africani non usano portare piastre da sabbia e, anche se le avessimo, probabilmente sarebbero inutili. Per fortuna giunge in senso contrario il solito motorino cinese con un uomo che è disponibile ad aiutarci, anzi, va a chiamare gli uomini che macerano la manioca incontrati qualche chilometro prima che, con la solita calma africana, arrivano con più pale. Così, per un piccolo obolo, si mettono a scavare sotto e intorno alla macchina, lenti, meticolosi e precisi. L’operazione dura quasi due ore ma alla fine la Prado esce. Ovviamente, preferiamo tornare indietro poiché sta facendo buio e, francamente, trovare la pista ancora in simili condizioni come ci certifica l’uomo del motorino, col rischio di ulteriori insabbiamenti, non ha alcun senso.
16/1/2020. In giornata rientriamo a Brazzaville e passiamo il pomeriggio in albergo con l’aria condizionata, a lavarci accuratamente e a dormire.
17-18/1/2010. Dedichiamo due giorni pieni a visitare Brazzaville. Degno di nota è il quartiere antico di Poto-Potò, con vie e vicoli dove sorge un enorme mercato a cielo aperto e vi si trova proprio di tutto, molto più bello del mercato Total. Il mausoleo di Brazza, esploratore italiano naturalizzato francese che per primo esplorò queste lande e al quale è dedicata la città. Il mercato tradizionale di Plateau dove si trovano maschere, monili, statue, armi autentiche e dove abbiamo comprato maschere e statuette. Il porto sul fiume che qui ha una larghezza di 5 km e dal quale si vede Kinshasa sull’altra sponda. La splendida chiesa cattolica di S.Anna e la moschea. Abbiamo infine cenato in una trattoria africana ruspantissima, dove una grossa signora ci ha cucinato dell’ottimo pesce.
Nel nostro giro a Brazzaville, per due giorni di fila nei pressi dell’Istituto di previdenza congolese, incontriamo un gruppo di una quindicina di persone tra uomini e donne che battendo violentemente su bidoni di metallo, bidoni di plastica, cerchioni di camion, grossi pneumatici, ricavano una musica fortissima ma aggraziata, perfino bella ad udirsi, ed alcune donne ballano a tempo. Dei passanti ci informano che è una danza tribale mirante all’ottenimento della ricchezza, ai fini di aiutare il governo a trovare i soldi per pagare le pensioni che, da ben nove mesi, non vengono versate agli aventi diritto! Li fotografiamo e filmiamo, augurando loro buona fortuna….
La sera del 18 gennaio, arriva Marco, l’ingegnere italiano direttore della società gestrice dell’hotel. Ci invita il giorno dopo a visitare l’isola di Sankana, dove tra una trentina di giorni, apriranno una sorta di resort gestito da loro.
19/1/2020. Partiamo dal porto di Brazzaville con Marco su un vecchio motoscafo diretti all’isola di Sankana. Questa isola sorge nel cosiddetto “Stanley Pool”, dove il fiume si allarga moltissimo a monte di Brazzaville e Kinshasa. In questo tratto sorgono molte isole e sull’isola Sankana, il governo ha fatto costruire dai cinesi un villaggio turistico lussuosetto, affidandone la gestione alla società di Marco, tutto per attirare turismo dalle due città, oltre a quello internazionale. La traversata è veramente molto bella e l’isola ancor di più. E’ successo tuttavia che le piogge troppo abbondanti degli ultimi 20 giorni, hanno fatto alzare l ‘acqua del fiume che ha inondato parte dell’isola e pertanto, sono in corso dei lavori di sistemazione delle cose prima dell’apertura. Attracchiamo che l’acqua è ancora più alta del previsto e secondo alcuni locali che lavorano li, ci vorranno almeno altri quindici giorni perché torni al livello normale. Marco va a seguire i lavori e noi ne approfittiamo per visitare l’isola che è lussureggiante con scorci davvero suggestivi. Vediamo una ventina di persone che ci lavorano come giardinieri, elettricisti, muratori, cuochi. Almeno c’è un po’ di lavoro.
Torniamo a Brazzaville nel pomeriggio, sognando di risalire in Congo con qualche imbarcazione, tipo “Cuore di tenebra”, cosa che Marco dice che si potrebbe fare, mentre ci offre un pasto a base di pesce. La sera salutiamo tutti e in taxi raggiungiamo l’aeroporto internazionale da dove la solita Airfrance ci porterà a Torino, via Parigi.
E’ stata una tappa molto più piovosa di quanto avrebbe dovuto essere, tuttavia è stata bellissima. Malgrado le difficoltà, questa tappa ha contribuito non a far passare, ma ad aumentare ulteriormente il nostro mal d’Africa, oramai praticamente cronico, incurabile.