By Anusca Grisendi
Originally Posted Sunday, March 31, 2002
TREKKING SUL TASSILI
“UNE SAISON EN PARADIS”
Viaggio effettuato dal 27/02/2002 all’ 8/03/2002
A cura di Anusca Grisendi a.grisendi@tin.it
27 febbraio 2002. A Fiumicino incontro i miei compagni di viaggio: Ezio, Fiorenzo, Eugenio, Dario e Raffaella, sua moglie, Anna e Maria Grazia, sorelle, benché assai diverse nell’aspetto e nel tempera mento. Mi basta poco per accorgermi che sono persone che hanno già “incontrato” il deserto e che lo amano tanto da volerci ritornare. Le premesse non potrebbero essere migliori per un viaggio che si profila tanto interessante quanto faticoso. Contro ogni mia aspettativa l’aereo è quasi in orario: questo viaggio si prospetta fortunato già in partenza. Ad Algeri troviamo, puntuale come sempre Hafid, che ci accompagna in albergo, perché l’aereo per Djanet parte domani mattina. Qui troviamo due giornalisti italiani che domani partiranno per Tinduf contemporaneamente a noi, e con loro ceniamo: sono simpatici e contribuiscono a rendere ancora più allegra la cena, che già risente dell’entusiasmo che accompagna l’inizio di un viaggio che ha il sapore dell’avven tura. E per me è doppiamente un’avventura, perché mi trovo per la prima volta con la intera responsabilità della gestione di un gruppo, che per di più ha delle aspettative qualificate ,che meritano di non essere deluse.
Timras-Tikobaouin-Essendilene
Anche questa mattina l’aereo parte quasi puntuale e arriviamo a Djanet nella tarda mattinata. Sidi e Elkher ci attendono all’aeroporto, Elkher elegantissimo nella sua gandura bleu col shesh giallo. Per un attimo non ci riconosciamo: io ho i capelli molto più lunghi dell’ultima volta che ci siamo visti, lui ha il viso quasi completamente coperto dal shesh, ma basta il suono della sua voce che mi chiama ed è una gioia ritrovarsi e salutarsi. C’è anche Ahmed, il secondo autista, e subito dopo faccio la conoscenza con Aziz, il cuoco, che ci accompagnerà sul Tassili. Noto la presenza insolita di numerose donne in abiti colorati ed elegantissimi: evidentemente si attende qualche personaggio importante. Poco dopo si alza il loro grido stridulo, lo stesso che risuona in modo ossessivo e inquietante in una scena notturna di “Ultimo the nel deserto”. Ora ha un tono di esaltazione festosa, mentre le donne si assiepano sulla porta d’ingresso, da cui entra una figura completamente velata di nero. E’ una sposa novella, mi dice Elkher. Recuperati i bagagli, saliamo sui Toyota e ci dirigiamo verso Terarart: “les vaches qui pleurent” sono la prima immancabile meta, e non smettono mai di stupirmi ogni volta per la loro estrema eleganza e la loro modernità, e perché ogni volta mi svelano qualche loro segreto, come le grandi opere d’arte, che non finiscono mai di parlare a chi le guarda con amore e col desiderio di entrare nel segreto della loro anima vecchia di secoli o millenni. Poi subito via verso l’erg Admer alla ricerca dei gassi che si insinuano fra le curve morbide delle dune color cipria. Un particolare insolito attrae la mia attenzione: un velo di polvere nera si addensa qua e là sulle dune nei punti più esposti al vento. Chissà da quali lontane rocce arenariche l’ha portata il vento! E qui ci insabbiamo per la prima volta: la macchina di Ahmed non riesce ad uscire da una conca. Intanto che lui e Elkher ci provano, ci incamminiamo a piedi sulle dune, poi, appena ci raggiungono, risaliamo e ci dirigiamo velocemente verso Timras: si vedono già in lontananza le sue torri di arenaria che si innalzano su cumuli di sfasciumi a forma di tronchi di cono.Il contrasto fra il loro colore scuro e la morbida tinta dorata della sabbia dà al paesaggio un tocco di magica irrealtà. Il cielo è solcato da striature di nubi bianchissime, che gli conferiscono un’insolita profondità. E’ raro vedere sul Sahara un cielo così mosso; lo osservo assaporandone la bellezza, perché si fissi nella memoria con lo splendore di una gemma rara.Ci addentriamo seguendo un percorso che ora si restringe, ora si allarga in vasti spiazzi sabbiosi, chiusi da cortine di rocce dalle forme mutevoli , che sembrano fare da argine alla tentazione dell’anima di smarrirsi nell’infinito. A Tillilene scendiamo e procediamo a piedi: si ha bisogno di un contatto più intimo con questo paesaggio forte, che tanto travalica i limiti umani; toccare la sabba coi piedi nudi regala la sensazione esaltante di esserne parte.I Toyota ci sorpassano e si fermano sull’alto di una duna; Elkher, che è un ballerino, alza il volume del mangianastri e si mette a ballare, subito imitato da Aziz. Li raggiungo velocemente e mi unisco a loro, felice di ritrovarmi in questa dimensione, in cui sento tutto il mio essere espandersi in libertà, con uno slancio mai conosciuto, protetta dall’amicizia di questi uomini dal sorriso aperto e dagli occhi luminosi e acuti.Al tramonto raggiungiamo Tikobaouin: i profili delle rocce si fanno più morbidi e rotondi, i colori più pastosi. Cerco il profilo della roccia che si protende e si inarca come un’enorme proboscide di elefante; Elkher me la indica da lontano. Facciamo una breve escursione nei dintorni e salgo sul massiccio da cui so che si domina l’avvallamento sabbioso che domani attraverseremo, disseminato qua e là di rocce isolate. La sera che scende spegne i colori, attenua il contrasto luce-ombra e il paesaggio pare sospeso nella tensione di un’attesa. Durante la discesa scopriamo fra la sabbia due boccioli di “ahléwan” (Cistanche Phelypea”), come due grosse spighe ancora chiuse; uno ha da poco bucato la crosta della sabbia. Appaiono così teneri sullo sfondo di questo paesaggio arido! E insieme danno l’idea di una vitalità indomabile.Torniamo al campo che è quasi buio; dietro le rocce alle nostre spalle si sta già diffondendo la luce bianca e fredda della luna; sopra di noi uno stellato che gli occhi non si stancherebbero mai di guardare. Ho scelto per dormirci un avvallamento stretto fra una duna e le rocce; sembra una culla , ma il vento vi si insinua e la duna produce ben presto una sensazione di freddo, che mi dura per tutta la notte, acuito dal biancore lunare, che ha invaso tutto il deserto.
Al mattino procediamo a piedi, finché non ci raggiungono i Toyota. Ci immettiamo sulla strada per Illizi, ma ben presto l’abbandoniamo per entrare nell’oued Essendilen, vasto all’inizio, col fondo cosparso di cespugli, acacie e tamerici, e delimitato ai fianchi da torrioni rocciosi del tutto simili a quelli di Timras, ma dalle tinte più morbide. Oltrepassiamo alcune tende di nomadi touareg e un branco di cammelli che non si lasciano avvicinare. Il fondo dell’oued si restringe a poco a poco, mentre la vegetazione s’infoltisce; alla fine, dove alte pareti di roccia chiudono l’oued, compaiono le palme e gli oleandri: siamo vicini alla guelta, famosa per la sua bellezza e anche perché teatro dell’episodio finale del romanzo “Incontro a Essendilen” di R. Frison Roche, un alpinista francese che, stregato dal deserto, ha lasciato le Alpi per le montagne dell’Hoggar e dell’Assekrem.Per raggiungere la guelta, incastonata fra rocce strapiombanti, percorriamo uno stretto canyon, aprendoci quasi la strada fra la fitta vegetazione di acacie, tamerici, teak e soprattutto oleandri.Elkher mi ha confermato che da quasi due anni non piove a Djanet, ma qui deve essere venuto di recente un acquazzone: in qualche anfratto il terreno è melmoso e quando arriviamo alla guelta, vedo che sulle rocce che bordano il minuscolo laghetto sono nati dei ciuffi verdissimi di una pianta che assomiglia al capelvenere, che si riflettono dentro l’acqua immobile e paiono animarla. In gennaio non c’erano. Rimango stupita dell’aspetto ridente e vivo che questi ciuffi di un verde tenerissimo danno alla piccola conca, che solo due mesi fa mi era parsa fredda, nonostante la presenza dell’acqua e della vegetazione. Anche i miei compagni di viaggio ne rimangono affascinati e Eugenio indugia a lungo vicino al laghetto, per schizzare il paesaggio su fogli da disegno, che si porta sempre appresso.
Akba Tafilelet-Tamrit-Timenzousine-Tan Zoumaitac-Valle dei cipressi
Nel primo pomeriggio ripartiamo per Djanet; dobbiamo rivedere e integrare l’equipaggiamento in vista dell’obiettivo vero del nostro viaggio: 7 giorni di trekking sul Tassili. Questa notte dormiremo ad Akba Tafilalet, ai piedi dell’altopiano, per poter partire domattina presto: ci attende una salita di 500-600 m., è bene farla quando non è ancora troppo caldo. Il cielo si vela di nubi, mentre corriamo veloci sul pianoro sabbioso che orla l’erg Admer, ma si rischiara al tramonto e quando arriviamo all’akba l’ultimo sole arrossa i torrioni di roccia che l’erosione millenaria ha separato dai primi contrafforti del Tassili, dietro cui le nubi si sfilacciano lentamente. Lo spettacolo ha qualcosa di sovrumano. Nessuno resiste alla tentazione di fotografarli per portarsi via una scheggia di questa bellezza, per salvarla nella memoria e sottrarla per sempre al fluire del tempo.La sera al campo è movimentata dall’incontro con gli asinieri e con Ouaoua, la guida che ci condurrà attraverso le meraviglie di quest’altopiano, che ospita migliaia di pitture rupestri risalenti fino a 8000 anni prima di Cristo, e che riserva ad ogni passo la sorpresa di un paesaggio tutto di roccia, ma perennemente mutevole. Domani ci seguiranno a distanza i graziosi asinelli bianchi e grigi, che si accollano l’onere di portarci i bagagli e le provviste, guidati da Moni e da Mohammed. Già in dicembre Moni è stato con me sul Tassili e l’incontro è caloroso e cordiale. E’ alto e magro, di pelle molto scura, ha uno sguardo penetrante e un aspetto nobile nella sua gandura azzurra, stretta in vita da una fascia scura; ha i lineamenti duri e un’aria riservata, ma io ho visto i suoi occhi illuminarsi e il suo viso aprirsi in un sorriso affascinante una sera, a Tamrit, mentre davanti al fuoco ci raccontava un episodio della sua giovinezza, quando, parlandole, era riuscito a conquistare l’amore di una ragazza, fino ad allora sorda alle sue attenzioni.La serata è particolarmente allegra: siamo tutti eccitati all’idea dell’avventura che ci attende, io in particolare, che da tempo desidero percorrere l’intero circuito attraverso i maggiori siti dell’arte rupestre sahariana. C’è anche sotto sotto il dispiacere di separarsi da Elkher e Ahmed, anche se so che li ritroverò a Akba Aroum, dove verranno a prenderci fra una settimana.La luna imbianca le rocce e la sabbia quando mi corico sotto un’acacia, più con la voglia di respirare l’atmosfera trasognata del luogo che col desiderio di dormire. Ci pensa Elkher a tenermi sveglia: contro le buone regole del Corano si è scolata mezza bottiglia di vino e ha più voglia che mai di scherzare, nonostante il male alla gola, per il quale ho già provveduto a rifornirlo di medicinali appropriati.Sono costretta a zittirlo più volte, ben sapendo che, permaloso com’è, domattina se ne lamenterà.Quando la sveglia suona all’alba, è da un po’ che sento gli asinieri in fermento. Hanno già radunato gli asini , che la notte vengono impastoiati e lasciati liberi di cercarsi il cibo; Aziz ha provveduto alla colazione e alle 7 siamo in grado di metterci in cammino con Ouaoua in testa, che sale con la leggerezza di una gazzella. E’ di corporatura minuta, veste pantaloni larghi di colore nero con sopra una corta gandura di dubbio colore bianco, e sopra ancora un cappottino di un verde militare stinto. Ha due occhietti piccolo e tondi, luminosi e sorridenti.
A metà della prima akba ci raggiunge Aziz, che è rimasto per aiutare a fare il carico e che porta la valigetta della farmacia e il sacco col pane; gli asini vanno più adagio di noi, perciò ci portiamo delle provviste per quando arriveremo a Tamrit, verso mezzogiorno. Insieme con Aziz chiudo la colonna che sale, in modo che Ouaoua, vedendoci, sappia che il gruppo è al completo.
In cima alla prima akba si apre davanti a noi il pianoro di Tefetest, disseminato di magre acacie; lo percorriamo e affrontiamo la seconda akba per un ripido sentiero fra le rocce, sbucando infine su una piattaforma rocciosa, da cui si domina a destra una spaccatura profonda che comunica con un vallone laterale e ospita una guelta dal colore verde cupo. Scendiamo nel canyon di fronte attraverso una sassaia malagevole, a metà della quale, sulla destra, si apre in un incavo della roccia il letto asciutto di un’altra minuscola guelta, circondata da oleandri ancora rigogliosi. Fra i sassi spunta ogni tanto il miracolo di un cespuglio verde con fiorellini lilla,gialli, bleu. Alla fine del canyon prendiamo a destra il sentiero sassoso dell’akba Tekbelonfas, che ci porterà in quota. E’ il sentiero percorso dagli asini ed è pieno di sassi mobili, che rendono penosa la salita. Ho sempre fatto una via più ripida e più breve, ma meno malagevole; forse Ouaoua ha imboccato questa perché sale più gradatamente.
In cima alla terza akba si apre il pianoro sassoso che ancora ci separa dalla meta; qui la vista spazia a 360°e in fondo si intravvedono le rocce un po’ tozze di Tamrit, somiglianti ai castelli che fanno i bambini sulla spiaggia, facendo gocciolare dalla mano la sabbia bagnata. E’ una fortuna che il sole si sia un po’ offuscato, perchè sono ormai le 11 e il caldo si fa sentire. A lato del sentiero scopriamo la traccia lasciata da un uromastice, che si è rintanato sotto una pietra. Qua e là qualche cespuglio di “teak” in fiore e di “tronak” ( è Aziz che me ne dice il nome).Raggiungiamo Tamrit alle 12 e ci fermiamo sotto un grande cipresso isolato, che desta stupore nei miei compagni; sapevano dei cipressi millenari di Tamrit, ma la comparsa improvvisa di una pianta dall’enorme chioma in questo paesaggio pietrificato suscita grande emozione e sorpresa. Ouaoua si allontana senza dire nulla; più tardi capirò che è andato a pregare. Mentre gli altri riposano, vado con Aziz a cercare un luogo dove porre il campo e a salutare i touareg che custodiscono il campo tendato di Sonatrac, che sorge li vicino. Ci accoglie l’immancabile Osman, col quale ricomincia l’altrettanto immancabile contrattazione sul numero dei cammelli che voglio per sposarlo; e come al solito non troviamo un accordo. Beviamo un po’ di acqua dalla cisterna del campo e veniamo invitati a pranzo. Lascio Aziz con loro, perchè non ha portato nulla da mangiare per sè, e ritorno dal gruppo, per riposare un poco sotto il grande cipresso.
Alle 15 ci rimettiamo in cammino per visitare Tamrit superiore e Timenzousine, lasciando Aziz con i nostri zaini; gli asini non sono ancora arrivati.
Rivedo le elegantissime antilopi color ocra con una bianca banda sinuosa che ne disegna il petto, la gola e le corna, e poco oltre, sul soffitto di un basso riparo roccioso, che mi costringe a penetrarvi carponi, Ouaoua mi indica un dipinto quasi del tutto cancellato, la cui decifrazione pare quasi impossibile. L’osservo ansiosa di trovare una chiave di lettura e improvvisamente la scena mi si illumina: è la “barca egizia”, che ho visto nella riproduzione fattane da H. Lothe, che scoprì nel 1956 la maggior parte delle pitture rupestri del Tassili. Mi sento felice come se avessi scoperto un tesoro e seguo con amore le linee tracciate sulla roccia, che riprendono vita e forma nella mia fantasia, come se le vedessi in tutto il loro antico splendore.
A Timenzousine mi aspetta un’altra sorpresa: una lastra rocciosa orizzontale sulla quale è inciso un grosso elefante. Sono già passata di qui almeno una volta; qui vicino c’è la scena dei danzatori e quella degli uomini col corpo dipinto, ma non ho mai visto questo grande animale, che fra l’altro è un unicum, sia perché è un graffto, sia perché l’immagine dell’elefante compare di rado nelle pitture del Tassili. Ci divertiamo a riempire con la sabbia il solco del graffito e alla fine l’immagine del pachider ma risalta nitida sullo sfondo grigio della roccia.Sulla via del ritorno troviamo il covo di un uromastice: le tracce sono nitide e dentro la tana sentiamo muoversi l’animale, stuzzicato da Ouaoua con un bastoncello. Quando siamo in vista del grande cipresso scorgiamo i nostri zaini e Aziz, ma gli asini non ci sono. Comincio a preoccuparmi. Aziz, per tranquillizzarmi, mi dice che il ritardo è normale: i passaggi fra le rocce sono stretti e difficoltosi; gli animali a volte sono riottosi, bisogna scaricarli, portare a spalle il loro carico e ricaricarli dopo i passaggi più duri. Lo so, ho già visto questa scena, ma non riesco ad impedirmi di essere inquieta, anche se la vicinanza del campo di Sonatrac è tutto sommato rassicurante. Per ingannare l’attesa ci muoviamo con tutto il gruppo verso il luogo scelto per il campo, lasciando Ouaoua sotto il cipresso, per segnalare agli asinieri il nostro spostamento.Mentre ci avviciniamo al campo tendato, Osman e un altro touareg, appollaiati su una roccia a mezza altezza, ci segnalano la comparsa degli asini; un raglio in lontananza ce ne dà la conferma. Mi rassereno e gusto con soddisfazione l’acqua che un touareg gentilmente ci porta dal campo; mi torna la voglia di scherzare con Aziz, il cui largo sorriso e i cui occhi luminosi promettono disponibilità totale a collaborare per superare senza ansie tutte le possibili difficoltà. Dopo poco compare in lontananza su una roccia Ouaoua, che ci fa dei segnali: gli asinieri non hanno colto in tempo il suo messaggio e hanno scaricato gli animali sotto il grande cipresso. Dispiace rinunciare al campo sotto le rocce, ma poco male: vicino al cipresso dei muretti a secco delimitano degli spazi circolari, entro cui ci si puo’ agevolmente riparare dal vento, sempre presente sull’altopiano. Cenare li dentro, davanti al fuoco acceso, crea un’atmosfera intima, calda, in cui i rapporti umani sono facilitati; è qui che pochi mesi fa ho visto trasfigurarsi il volto di Moni al ricordo di quel suo amore giovanile.A cena quasi finita arrivano gli uomini del campo tendato. Conosco la disponibilità dei touareg all’allegria, all’ironia, al gioco; basta un piccolo incitamento perchè Osman afferri una tanica vuota e si metta a cantare, suonando il tam tam. Canta inventando, lo si capisce anche senza afferrare il senso delle parole, e a tratti incrina la voce e la spegne in un gemito,”fatigué”, inclinando un poco la testa di lato per dare l’impressione visiva della stanchezza; e subito ricomincia fra l’ilarità generale con un’altra strofa. Poi si mette a giocare con un pendolo improvvisato, facendo fantasiose predizioni sulle future tappe del nostro viaggio. Intanto è arrivato Moni con il the, a cui non riesco a dire di no, anche a rischio dell’insonnia.Quando tutti vanno a dormire, rimaniamo io e Aziz, che mi informa che gli asini, troppo carichi, hanno portato solo quattro taniche piene di acqua; dopo i consumi della giornata ne restano solo due. Contemporaneamente Ouaoua mi comunica una variazione al programma: domani sera si fa il campo a Ouan Touami invece che a Sefar, dove si potrebbe fare rifornimento di acqua. Chiamo Moni e, con Aziz che mi fa da interprete, chiedo che domattina si riempiano a Tamrit quattro taniche, in modo da averne sei per i prossimi due giorni, in cui non sarà possibile rifornirsi. Moni fa resistenza, ma alla fine acconsente; so già che non lo farà, del resto non è possibile sovraccaricare gli asini, ma ho insistito perché capisca che ho intenzione di tenere strettamente sotto controllo la situazione.Aziz ha già calcolato che i consumi pro die sono di circa 30 l.; riducendo al minimo la razionededicata all’igiene personale, ce la possiamo fare anche con quattro taniche, ma da Sefar non potremo partire senza otto taniche piene: ci aspettano 4 giorni senza possibilità di rifornimento. A quel punto però il problema del sovraccarico non ci sarà più, grazie al consumo delle derrate alimentari, e il percorso sarà in piano.Al mattino di buon ora ci mettiamo in cammino per Tan Zoumaitac. Il paesaggio pietrificato del Tassili si presenta con una varietà inesauribile di forme e non finisce mai di stupire. A Tan Zoumaitac le rocce assumono l’andamento di fasci di colonnine interrotte da marcapiani; le stesse colonnine, più basse e più tozze , sorreggono talvolta grandi rocce piatte orizzontali, che sembrano enormi corpi di animali sostenuti da corte gambette. Ouaoua me ne indica una e mi dice un nome:”tejare”; sarà il nome dell’animale a cui la roccia somiglia o un termine per indicare quel tipo di fenomeno?A Tan Zoumaitac incontriamo anche le prime “teste rotonde”, figure umane in ocra violacea dalla grossa testa tonda, priva di qualunque tratto fisionomico. Anche le membra sembrano un po’ rigonfie, tanto che qualcuno ha avanzato l’ipotesi che si tratti di extraterrestri. Accanto ad esse compare un’immagine emisferica sostenuta da peduncoli, che puo’ far pensare ad un’astronave. Comunque sia, queste sono le pitture più antiche, risalenti all’alto neolitico, quando il Sahara godeva di un clima saheliano, aveva l’aspetto di una savana ed ospitava elefanti, giraffe, rinoceronti, leoni, come testimoniano le incisioni e i dipinti rupestri disseminati per tutto il deserto.In una grotta a destra c’è l’immagine di una piccola, graziosa gazzella; il colore violaceo dice che anche questo dipinto è assai antico.Addentrandoci fra le rocce, raggiungiamo il “grande canyon”, una voragine scavata dall’acqua che una volta scorreva abbondante sul Tassili. Mi allontano dal gruppo per raggiungere un punto d’osserva zione più elevato; da li scorgo sul fondo del canyon una piccola guelta, mai vista prima. Ouaoua, che mi ha raggiunto, mi dice che in quel punto sfociava l’oued Sibrì. Qui si gettava anche l’oued Tamrit, oggi conosciuto come “la valle dei cipressi”, perché ospita dei bellissimi esemplari di “cupressus dupretiana”, vecchi di 4000 anni , purtroppo votati all’estinzione, giacchè i tentativi di farli ricrescere in loco non hanno dato risultati. La percorriamo ritornando verso Tamrit, colpiti dalle grandi chiome e dalle forme inusitate dei cipressi, alcuni fortemente piegati verso terra dal vento, altri col tronco tutto contorto e sinuoso, altri cresciuti con più tronchi come dei grandi cespogli. Ouaoua si arrampica su un tronco ormai morto e si appollaia lassù; coi suoi occhietti sorridenti mi fa cenno di raggiungerlo, perché vuole farsi fotografare con me. Prima di uscire dalla valle vediamo altri dipinti: una mucca che allatta, un bel busto di guerriero con la testa rotonda e due asticelle che ne spuntano a mo’ di antenne, e delle mani, in tutto simili a quelle che si ritrovano in numerosi dipinti rupestri coevi in Europa.
Ouan Guffa-Innaleouan-In Itinen-Tetrastnelies
Una pausa per il pranzo e ripartiamo. Attraversiamo Ouan Guffa, con i suoi spiazzi contornati da rocce a forma di teste di uccello col lungo becco, e ci troviamo di fronte Innaleouan, una selva di alti pin nacoli fortemente corrugati e tutti di forma diversa. I miei compagni sono senza parole di fronte all’aspetto maestoso e metamorfico del paesaggio e lo attraversano fermandosi continuamente per guardarsi intorno e indietro, perché ad ogni passo il cambiamento di prospettiva produce mutazioni nello scenario. Si chiamano l’un l’altro per indicarsi nuovi particolari appena scoperti, mentre Eugenio riempie di schizzi fogli su fogli, con l’aria di chi è ansioso di non lasciarsi sfuggire nulla. Camminiamo lentamente col naso per aria in stretti corridoi sabbiosi, finché sbuchiamo nel vasto spiazzo di In Itinen , una grande arena limitata da torri di roccia meno alte delle precedenti.Qui si trova la raffigurazione del carro dei Garamanti, una popolazione con cui anche i Romani ebbero a scontrarsi e che aveva la sua capitale a “Garama”, in prossimità dell’attuale Djerma in Libia. E’ un carro a 4 ruote, trainato da una pariglia di cavalli al galoppo, con sopra un auriga che tiene saldamente in pugno le redini. Il dipinto risale al primo millennio a. C., ma la parete che lo ospita presenta altre immagini certamente anteriori: un bue pezzato con le corna lunate e altri bovini dell’epoca “bovidiana”, figure umane in piedi e sedute della stessa epoca, e in alto a destra una bella figura femminile seduta, con la testa rotonda e il bel proflo appena accennato.Non molto oltre, nella zona chiamata Tetrastnelies, è dipinta una figura bianca dall’aspetto mostruoso, sovrapposta ad una grande antilope, pure bianca, e a sinistra una teoria di figure umane bitriangolari con la testa a bastoncino di epoca posteriore. Nella parete di fronte c’è una scena complessa con una carovana e forse la cattura di un cammello; nell’angolo in basso a destra mi pare di vedere, dietro ad una fila di cammelli più piccoli, un uomo che guida un carro trainato da un cavallo: siamo dunque vicini all’epoca cristiana, quando il cammello (in realtà il dromedario) é stato importato in Africa, ma non ha ancora completamente soppiantato il cavallo.La sera mettiamo il campo a Ouan Touami, sotto una parete di roccia aggettante, dove al mattino scopro alcune immagini sbiadite dell’epoca “camellina”. La tappa è stata lunga e dopo cena si rende necessaria una revisione del programma dei giorni successivi; dopo lunga discussione con Ouaoua, con l’intermediazione di Aziz e di Mohammed, che parlano un po’ di francese, ci accordiamo per un programma che suddivida equamente le tappe, senza farci rinunciare a nessuno dei siti più importanti.Tutti vanno a dormire; rimaniamo solo io e Aziz a sistemare la cucina e a fare i preparativi per il giornodopo. Chissà perché, la consultazione ci ha messo di buon umore e, mentre lavoriamo, ci divertiamo a giocare con gli strani nomi dei luoghi che ospiteranno i prossimi campi.
Ouan Touami-Tin Aboteka- Tin Tazarift- Tin Teferiest-Sefar
Ouan Touami presenta rocce massicce con la superficie rugosa e scagliosa come un guscio di tartaruga; alla loro base , dove il vento ha eroso in profondità la pietra arenarica, ci sono dei ripari fortemente aggettanti, ricchissimi di dipinti: in una parete è raffigurata una lotta fra guerrieri e sul lato destro tre bellissimi bovini parzialmente sovrapposti, guardati da un pastore, che a me pare di epoca posteriore per la differente colorazione; in quella di fronte c’è una caccia al muflone e nella zona inferiore un’ altra battaglia. In altre pareti si vedono un labirinto, bei bovini di colore scuro, un bue con in groppa una scimmia(?), poi ancora mani in una scena complessa, quasi illeggibile, e una scena di monta fra due bovini. Ci allontaniamo percorrendo una serie di spiazzi rocciosi contornati da rocce tozze e rugose, varia mente modellate in un gioco continuo di forme bizzarre, e sbuchiamo in un vasto pianoro sassoso;di fronte a noi si staglia la selva di torri di Tin Tazarift. Via via che ci addentriamo gli spazi si restringono in una serie di corridoi stretti fra rocce strane, che paiono graffiate dalle unghiate di qualche enorme animale preistorico. Subito dopo un altro pianoro sabbioso e di nuovo una cortina di torri, dietro cui si apre un secondo pianoro sassoso su due livelli, a sua volta delimitato da torri più massicce: siamo a Tin Aboteka. Ci immettiamo nel letto dell’oued omonimo, popolato da magri cespugli, alla ricerca dei ripari con le pitture. Qui le rocce sono molto incavate e lisciate alla base e sotto gli aggetti scopriamo l’ immagine di un grande muflone bianco, a cui è sovrapposta quella di un cane in ocra rossiccia, con una lunga coda arricciolata, poi guerrieri con scudo e una grande immagine bianca e tozza con una testa che la fa assomiglire ad un fungo. Tin Aboteka è il punto più a est del nostro itinerario; ora puntiamo verso sud-ovest e ripercorriamo Tin Tazarift osservandone le pitture, alcune delle quali sono fra le più belle e interessanti di tutto il Tassili.Abbondano scene del periodo “bovidiano”, che raffigurano mandrie accompagnate da uomini; in una c’è una figura umana esile ed elegante, dal profilo negroide, con in testa quella che sembra una bianca cuffietta e un perizoma pure bianco sui fianchi; in un’altra si vede, un animale (un cane?) che si rotola sulla schiena; in un’altra ancora compaiono scimmie e uccelli, raramente presenti nelle pitture del Tassili. Ma ci sono anche numerose teste rotonde, belle e a abbastanza conservate; un riparo in particolare presenta due personaggi armati di arco e muniti di 2 piccole antenne alla sommità del capo; fra loro c’è una terza figura orizzontale, che sembra nuotare. Tutte le figure sono disegnate con tratto sicuro e sono in movimento: questi lontani antenati avevano la stoffa dei grandi artisti.Alla base di un riparo Ouaoua ci indica una grossa pietra scavata, con dentro alcuni ciotoli perfettamente rotondi e levigati: si tratta di un mortaio, in cui questi artisti preistorici trituravano delle pietruzze color ocra, riducendole in polvere; poi legavano questa polvere con chiaro d’uovo di struzzo o con caseina e la usavano per realizzare le pitture. Anche in altre zone del Sahara è facile vedere di questi mortai, che spesso hanno la forma di coppelle scavate nella roccia alla base dei dipinti.Procedendo in direzione di Sefar, attraversiamo l’oued Tin Teferiest, dove in un altro riparo scopro un’ immagine semicancellata, che mi ricorda molto la “barca egizia” di Tamrit. A Sefar arriviamo per l’ora di pranzo e ci riposiamo dalla lunga e intensa tappa mattutina.Sefar assomiglia ad una grande città abbandonata, divisa in due dall’oued Sefar: a est c’è Sefar Mellet,la città bianca, a ovest S. Settafet, la città nera. Le due denominazioni alludono alla differente colorazione delle rocce e alla presenza, nella parte bianca, della sabbia. Addentrandosi, ci si sente veramente dentro una città deserta e silenziosa: lunghi corridoi si incrociano a formare trivi e quadrivi e le masse rocciose paiono vecchi edifici abbandonati; ci si puo’ insinuare fra gli spazi che li separano come entro atrii e cortili deserti. C’è anche uno spiazzo assolato, con una piccola duna, che pare una piazza; e c’è una roccia che si apre ad arco.Il sito presenta una concentrazione tale di dipinti di varie epoche, che è impossibile descriverli tutti; su certe pareti si contano fino a 12 sovrapposizioni. Alcuni però rimangono impressi in modo indelebile per la loro bellezza ed eleganza:” i danzatori”, con ricchi oramenti pendenti dalle braccia e dalle ginoc chia, la” dea bendata”, tre figure con abiti elegantissimi, tutte appartenenti allo stile delle teste rotonde. Altre scene colpiscono per la presenza di immagini bianche di grandi dimensioni, che sembrano mo struosi idoli, affiancate da teorie di animali e di figure femminili con le braccia alzate in atteggiamento orante. Non mancano scene di accampamento, con figure sedute a colloquio o intente a qualche attività, con animali e pelli stese a seccare, con una scrofa e il suo maialino; e ci sono struzzi, uccelli e scimmie, forse anche delle farfalle, e antilopi, mufloni. Ouaoua mi fa cenno di guardare in un piccolo incavo a forma di oblò: dentro scorgo in buono stato di conservazione tre figure, di cui quella centrale è senza dubbio una donna incinta. In un’altra grande e complessa scena si scorge, un po’ isolata, una strana immagine, che pare una caricatura: ha membra sgraziate e un lungo naso; con ogni probabilità è la raffigurazione di un “jin”, uno di quegli spiritelli in cui ancora i touareg credono e di cui hanno sacro timore. Infine, indimenticabile benché molto rovinata, una figura di donna seduta a colloquio con un’altra, ormai completamente cancellata. Ha la gamba destra distesa e quella sinistra ripiegata, la linea che disegna la coscia è di un’eleganza estrema; sul ginocchio appoggiano la mano destra e il gomito sinistro; la testa è cancellata. Io l’ho vista nella riproduzione fattane da Lhote: ha un profilo fine, sicuramente europoide, e un nasino a punta leggermente all’insù.Molte delle pitture del Tassili sono state rovinate dai lavaggi frequenti, intesi a farne risaltare le linee e i colori; in 50 anni l’uomo è riuscito a deteriorare quello che la natura ha conservato per millenni.
Oued Terassuitin-Oued Tintakenna-Oued Adjedjoum
Abbandoniamo Sefar il pomeriggio successivo e per un po’ camminiamo allo scoperto su un tavolato roccioso con ampia visuale. In lontananza vediamo i nostri asinelli che procedono parallelamente a noi.Prendiamo poi l’oued Terassouitin, che all’inizio si restringe in meandri in mezzo a rocce massicce a stratificazione orizzontale spessa, quindi si allarga in un letto lastricato da grandi massi grigi e contor nato da sfasciumi. Nel tardo pomeriggio sfociamo nell’oued Tintakenna, che si allarga in un grande pianoro chiuso al fondo da lunghi cornicioni di roccia color asfalto, dietro cui si innalza qualche masso e qualche tozza guglia. Verso la fine dell’oued, sulla destra, una larga parete ospita un dipinto con buoi, cammelli, figure bitriangolari, con testa a bastoncino, in movimento e 10 figure centrali sedute.Ancora due valloni contornati da grandi terrazzamenti rocciosi e quando li superiamo ci troviamo sul largo, bellissimo oued Adjedjoum; di fronte a noi rocce verticali riunite a gruppi si innalzano su tavolati orizzontali parzialmente ricoperti da sfasciumi: è Tinkani, l’attraverseremo domani.La giornata non è stata serena, ma ora la luce del sole al tramonto colora il paesaggio di tinte morbide, dolcissime; il vento, che oggi ha un po’ rinforzato, cala d’intensità, regalandoci una sera quieta, che predispone al raccoglimento. Seduta su un masso, mentre Aziz prepara la cena e gli altri montano le tende, la mia emozione trabocca in un canto appena sussurrato: il Kyrie e il Sanctus della messa di Da Victoria mi escono spontanei, come un inno alla maestosa bellezza del paesaggio e un ringraziamento per il privilegio di poterne godere. Ma il vento ben presto ricomincia e sono costretta a costruire un riparo al luogo dove ceneremo con una coperta tesatramite una corda fra due tronchi rinsecchiti. Dopo cena arrivano i touareg con il the e si intrattengono un poco con noi; il loro comportamento é sempre molto riservato e discreto, ma ci osservano, e questa sera scopriamo che hanno dato a ciascuna delle donne un nome rispondente a qualche sua caratteristica: Anna, che si muove continuamente come un folletto, è Tabarat; Maria Grazia è Aissha; Raffaella è Bella; io sono Meriem, quella che provvede a tutto. Quando gli altri vanno a dormire e restiamo solo io e Aziz a fare il bilancio della giornata e il pro gramma per domani, mi sento improvvisamente triste e bisognosa di due braccia fra cui raggo mitolarmi, di un corpo il cui contatto riempia la solitudine di questo momento. Abbandono a terra una mano, senza pensare a nulla; ma Aziz forse ha intuito e allunga anche lui una mano, toccando delicatamente la mia, e io sento che non sono più sola.La notte passa abbastanza tranquilla al riparo della roccia e di un muretto a secco, nonostante il vento abbia di nuovo ripreso con vigore; c’è evidentemente una perturbazione in arrivo, altrimenti durante la notte sarebbe cessato quasi del tutto.
Tinkani-Oued Temesseus-Ouan Issou-Oued Messedjoum
Il mattino attraversiamo gli scuri massicci rocciosi di Tinkani entro corridoi e spiazzi in cui il vento si insinua dagli anfratti laterali. Ha soffiato tutta notte, ma ora ci regala una luce mattutina trasparente che alleggerisce le tinte forti del paesaggio. Sbuchiamo prima su un vasto reg e dopo aver risalito una duna, vediamo di lontano nell’oued Tinkani tre gazzelle che fuggono veloci; il vento ha certamenteportato loro il nostro odore. In uno slargo successivo troviamo un dipinto con buoi, gazzelle, antilopicavalline e uno strano animale dal dorso decorato a spina di pesce, e al di sotto 3 teste rotonde bianche.Stiamo percorrendo ora un lungo corridoio sabbioso fra torrioni, massicci e pinnacoli; il vento vi si insinua lateralmente e mulina la sabbia. Scendiamo nel letto dell’oued Temesseous e il vento ci sospinge indietro e ci punge con mille aghi. In una grande grotta ci sono belle figure umane bitrian golari a gruppi; alcune sono sedute a cerchio intorno ad una centrale, più maestosa delle altre: mi fa venire in mente una scena di veglia intorno al fuoco con una nonna che racconta. La figura centrale, per come è vestita, pare veramente una figura femminile!Mentre procediamo lungo l’oued che si va allargando, la voce cantilenante di Ouaoua mi culla; si effonde dolcemente nella vastità del paesaggio, sembra la voce “del pastore errante nei deserti della Asia”: ne ha la lentezza e la malinconica rassegnazione. Per un poco cerco di accompagnarlo, ma non ho abbastanza lena per camminare e cantare. Ci fermiamo un poco all’ombra di una grotta; Ouaoua continua a cantare battendo il ritmo sulla bottiglia di plastica semivuota che si porta appresso, poi mi chiama, come al solito, per chiedermi: “neghele?”(andiamo?).Proseguiamo in un alternarsi di reg e hammada. Gazzelle fuggono in lontananza. Dall’alto di una roccia che sovrasta Ouan Issou si vede un orizzonte polveroso. Il vento ha rinforzato e mi strappa di mano i fogli dei miei appunti; sono costretta a gettare lo zaino e a saltare fra le rocce per recuperarli. Ci riesco, ma è quasi un miracolo. Ouaoua si appollaia su un cocuzzolo; mi ci affaccio e vedo a nord-est una fitta selva di pinnacoli dalla tonalità grigia. Stanno arrivando gli asini e Ouaoua me li addita. Pranziamo qui, non appena ci raggiungono. Intanto l’orizzonte si fa più polveroso e le nuvole aumen tano. Riprendiamo il cammino attraverso l’oued Ouan Issou, strettissimo e pieno di oleandri, le cui foglie denunciano la loro sete. Quando la visuale si allarga, avvistiamo un grande cipresso. Lo raggiungiamo e li vicino, sulla sinistra, vediamo una grotta con pitture del periodo bovidiano. Giriamo le spalle al cipresso, saliamo su alcuni cornicioni di roccia e ci troviamo sul “plateau”, un immenso reg di colore grigio-bruno, solo a tratti interrotto da qualche lieve corrugamento. Ouaoua mi dice che è lo stesso oued che abbiamo appena percorso. Camminiamo col vento contro, ma almeno qui non ci soffia addosso la sabbia. Incontriamo due piste molto battute: sono le piste che collegano Djanet con la Libia e sono percorse per lo più dai clandestini che vengono dal Niger o dal Ciad e cercano di raggiungere la Libia, magari per imbarcarsi per l’Europa. Due anni fa mi è capitato di vederne uno all’ospedale di Djanet, con le labbra gonfie e piagate e la febbre alta: aveva attraversato il Teneré con 35 compagni pigiati dentro un unico toyota.A mano a mano che procediamo il “plateau” si rivela meno piatto di come è apparso all’inizio: in un avvallamento compaiono numerosi i cespugli che segnalano il letto dell’oued e in lontananza cominciano a profilarsi le creste delle rocce che orlano l’oued Messedjoum. Chiedo a Ouaoua del vento; mi dice che di solito non dura meno di tre giorni. Il cielo minaccia e l’orizzonte è fosco, tranne che verso oriente; se il vento si calmasse certamente pioverebbe, ma per fortuna nostra e sfortuna del luogo la prospettiva è abbastanza remota. Avvistiamo in lontananza un cipresso e ricomincia ad arrivarci addosso la sabbia: l’oued è vicino. Sulla sinistra Ouaoua mi addita alcuni asini selvatici; ne vedo altri davanti a noi, ma sono i nostri asinelli che già pascolano impastoiati.Avvalliamo dentro l’oued, dove ci aspetta il campo già predisposto. Il vento, come al solito verso sera, cala d’intensità e ci regala una serata dolce, con le tinte calde e morbide del tramonto. Con Aziz faccio una breve passeggiata sul balcone di roccia ai cui piedi siamo accampati, alla ricerca di un posto riparato per dormire: non ci si puo’ fidare del vento.Questa sera Moni ci ha fatto la “taghella”, la focaccia di semola cotta sotto la sabbia e le braci; la condiamo con il sugo di carne e verdure fatto da Aziz e ci gratifichiamo con due bottiglie di un buon vino algerino, che ho tenuto in serbo proprio per la taghella. Intanto il vento rinforza. Dormo annidata fra le rocce, con la testa sotto la coperta; il vento mulina la sabbia e la sento sfrigolare mentre scivola veloce sulla coperta. Al mattino sacchi a pelo, zaini, bagagli, tutto è ricoperto e pieno di sabbia.
Jabbaren-In Aouarhat
Due ore di marcia ci portano a Jabbaren: rocce basse, tozze, tutte seghettate; grandi massi che sembrano piombati dal cielo e rimasti li a contorcersi e a corrodersi al soffio del vento e della sabbia. Uno sembra un’enorme rotoballa schiacciata dall’urto sul suolo.Le pitture sono su lunghe pareti, in profondi incavi protetti da cornicioni fortemente aggettanti a seracco. Vediamo buoi custoditi da uomini dal profilo negroide, un grosso animale ( il mitico bubalo?) inseguito da cacciatori, una battaglia fra arcieri, una mandria di bellissimi buoi policromi, figure bianche esili con corte mantelline rosse, e l’enorme figura bianca contornata di rosso, simile a quelle viste a Tin Tazarift e Sefar, che Lhote chiama “il gran dio marziano”.Non vedo la bellissima “Antinea”, una magnifica figura femminile, identificata con la mitica regina del popolo Touareg. Quando siamo al campo ne chiedo a Ouaoua; mi dice che siamo passati davanti al riparo che la ospita, ma non l’abbiamo vista perché è ormai completamente cancellata. Anche le bellissime figure chiamate “giudici di pace” sono completamente stinte: le riconosco, ma hanno perso tutto il loro splendore.Abbiamo poco tempo per pranzare, perché la visita pomeridiana a In Aouarhat richiederà circa quattro ore e bisogna essere di ritorno al campo prima che faccia buio, non oltre le 19.Qualcuno protesta: siamo tutti un po’ stanchi, ma non si può rinunciare ad In Aouarhat; io so che ci sono alcune fra le più belle pitture di tutto il Tassili. Partiamo alle 15. Scendiamo nel letto profondamente incavato dell’oued Jabbaren e risaliamo faticosamente sul versante opposto. Mi giro per guardare alle mie spalle: Jabbaren da qui sembra un villaggio di grosse capanne tondeggianti e tozze. Attraversiamo lo stretto letto dell’oued In Aouarhat e ci addentriamo in un luogo che a me pare meraviglioso. In Aouarhat è in alto, isolata fra due oued; sembra fuori dal mondo. Le nuvole si sono un poco alzate e la luce dona alle rocce una tinta morbida; il paesaggio assomiglia un poco a quello di Sefar, ha lo stesso fascino avvolgente. Le grandi rocce, profondamente incavate, hanno curve morbide; si avrebbe voglia di addentrarsi nel loro labirinto per perdercisi dentro e non uscirne mai più. Mi pare che quassù, in questo paradiso sospeso sotto il bellissimo cielo del Sahara, si potrebbe essere felici, felici anche di morirvi, per restarci per sempre. Uscirne mi procura una lacerazione pro fonda, come di chi sente di stare esiliandosi dalla propria terra.Le pitture sono veramente di una qualità eccezionale, benchè siano anch’esse sbiadite. Riconosco la stupenda dea cornuta o “dama bianca”, col corpo riccamente adorno e la testa rotonda da cui partono due corna, che paiono raccogliere una pioggia di semi. Un’ antica divinità agreste forse?Poco lontano c’è una testa rotonda bianca, affiancata da una figura ricoperta da una maschera policroma, che mi ricorda le maschere vegetali che gli uomini indossano nella festa più significativa dei Kel Djanet, la “Sebeiba”, che si svolge nella seconda metà del mese di marzo. Bellissima anche la “nuotatrice” coi seni sul dorso: le sue lunghe braccia e le gambe filiformi sembrano agganciare un uomo con le membra raccolte; al di sotto una strana figura di color verdognolo fa pensare ad una lumaca. Si tratta certamente di una scena dalle forti valenze simboliche, ma di difficile interpretazione. Accanto c’è l’immagine di una donna nera coi seni tatuati. Raggiungiamo l’accampamento che il buio sta scendendo; Aziz ha la cena quasi pronta. E’ l’8 marzo, la festa della donna ; ho riservato una bottiglia di Prosecco per brindare questa sera. Ma al momento del brindisi ci attende un’altra sorpresa: per ognuna delle donne del gruppo c’è un biglietto disegnato da Eugenio e firmato dagli uomini. La cena è particolarmente allegra: forse tutti sentiamo che questa è l’ultima sera sul Tassili e, anche se per due giorni ancora saremo insieme, questo è il momento con clusivo di una avventura che ci ha molto accomunato.
Akba Aroum-Terarart
Comincia la discesa verso Akba Aroum, più ripida, ma più breve di Akba Tafilalet, per la quale siamo saliti. Incontriamo qualche gruppo che sta salendo e per le 13 siamo ai piedi dell’altopiano. Gli asini ci hanno preceduto e Aziz ha già predisposto tutto per il pic nic, dando fondo alle ultime provviste.E’ il momento del commiato dagli asinieri. I saluti sono calorosi e corredati da una foto di gruppo, per la quale Moni si avvolge tutto nel suo shesh scuro, lasciando visibili solo i suoi occhi alteri e penetranti, mentre Ouaoua, a viso scoperto, viene a mettersi accanto a me, appoggiandomi una mano sulla spalla.Ci disponiamo ad attendere i Toyota, che non arriveranno prima delle 15, e tutti si spargono all’ombra delle acacie, per riposare e forse per riordinare i ricordi di questa intensa esperienza. Io e Aziz prepariamo tutte le casse che verranno caricate sulle macchine, poi ci avviamo lentamente lungo il vallone, per andare loro incontro. Dopo poco compaiono. Il primo ad arrivare è Alkher e come al solito è elegantissimo in una gandura a righe verticali bianche e azzurre con il shesh bianco.Ci ha portato dei dolci, a cui facciamo molta festa, e un mazzolino di fiori.Sulla via del ritorno ci fermiamo un’ora a Djanet, per comprare qualche souvenir e scrivere qualche cartolina; ne approfitto per acquistare una collanina con la croce di Agadez per Umberta, e un piccolo cammello, opera di un “forgeron” locale , per Chiara, che di cammelli fa collezione.Verso le 18 raggiungiamo Terarart per l’ultimo campo. Il cielo si è completamente rasserenato, ma il vento continua, anzi rinforza, e in questo luogo aperto è difficile difendersi dalle ventate che fanno schioccare i teli delle tende e portano via tutto ciò che è abbastanza leggero. Questa sera si cena con il couscous, che Alkher ha preparato a casa sua e che è veramente squisito, e si dà fondo alla provvista di vino che era rimasta a Djanet. Poi si va a dormire in previsione della levata all’alba di domani e del lungo viaggio che ci aspetta. Trovo un punto riparato dietro la roccia scelta per il campo; all’inizio sono abbastanza protetta, ma presto il vento si scatena e mi investe con violenza. Non serve nemmeno coprirsi la testa con la copera : la sabbia si infila dentro il sacco a pelo, che al mattino ne è tutto pieno, così come lo zaino e le borse. Quando aggiro la roccia, mi accorgo che ha fatto volare anche i teli esterni delle tende, così in realtà questa notte quasi nessuno è riuscito a dormire, tranne forse i touareg, che ci sono abituati.Facciamo colazione rapidamente e alle 7 siamo in partenza per l’aeroporto. Faccio a mala pena in tempo a scambiare con Aziz l’indirizzo e il numero di telefono. Meglio! Così non c’è tempo per la tristezza della separazione e per i rimpianti.