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Transafrica: il terzo passo By Gian Casati

– Posted in: Africa, Africa Est, Nord Africa, Resoconti di viaggio

By Gian Casati
Originally Posted Friday, December 5, 2008

 

TRANSAFRICA : IL TERZO PASSO

Riassunto delle puntate precedenti:

Primo passo: 27 ottobre / 23 novembre 2007 Genova, Tunisi, Libia, Egitto (gran mare di sabbia, gilf kebir, El Awainat, Aswan)

Secondo passo: 5-26 febbraio 2008-Aswan, Sudan, Etiopia fino a Soddo

Partecipanti: per varie vicissitudini delle 4 auto partite dall’Italia è sopravissuta solo la mia vecchia Toyota hj61 e cosi siamo rimasti solo (e soli) Rosalba Basile ed io, Gian Casati.

26 ottobre 2008

Voliamo da Milano ad Addis Ababa che raggiungiamo all’alba del

27 ottobre

Cazzeggio per la città e vano tentativo di fare l’assicurazione r.c. per l’auto. In Etiopia le compagnie vogliono tassativamente vedere fisicamente l’auto da assicurare e noi l’auto l’abbiamo lasciata a Soddo che è a 350 km da qui per cui niente.

28 ottobre

Avevamo deciso che non potevamo lasciare l’Etiopia senza aver visitato le famose chiese ipogee di Lalibela e cosi prima di raggiungere la nostra auto voliamo verso la famosa località sorvolando parte dell’ acrocoro etiope che avevamo percorso in macchina a febbraio. Un magnifico sole ci accoglie al piccolo aeroporto ed i 23 km che ci separano dalla cittadina sono molto spettacolari. Facciamo il giro delle famose chiese; alcune sono monolitiche e scavate nella roccia ma, e qui sta l’originalità del luogo, tutte scavate sotto il livello del suolo. Siamo accompagnati da una guida che non è obbligatoria ma assolutamente raccomandabile per non perdersi nei labirinti sotterranei e per non perdere particolari e situazioni interessanti. Siamo a 2600 mt. Il clima, secco, è molto piacevole.

29 ottobre

Oggi è la festa di san Gabriele ed è una festività, che se non raggiunge l’importanza e la spettacolarità delle cerimonie del Natale etiope e di altre famose ricorrenze, e’ comunque una festività molto sentita e così frotte di fedeli drappeggiati di bianco si affollano nella piccola chiesa di san Gabriele. La lunga cerimonia è scandita da cantilene e suoni di tamburi che la rendono particolarmente suggestiva anche perché da queste parti la religione è molto sentita e quindi è palpabile la partecipazione dei fedeli.

Visitiamo poi la famosa chiesa di S.Giorgio che è il protettore dell’Etiopia, la chiesa esternamente è la piu’ bella e la meglio conservata. Ma di Lalibela è molto interessante anche il paese fatti di tucul piuttosto alti con la parte bassa in pietra arenaria rosso scuro ed il tetto di paglia. Nella tarda mattinata torniamo all’aeroporto ripercorrendo in discesa la strada dell’andata. Abbiamo piu’ tempo per ammirare l’aspro paesaggio e vedere le dure condizioni di vita e di lavoro di questi contadini d’alta quota (siamo sui 2500mt). Miseri campicelli di grano, di cereali vari tra cui il tef (minuscolo cereale, elemento base per fare la n’jera l’onnipresente piatto nazionale etiope) sono strappati ad impervi terreni sassosi. Miseri greggi di caprette, asinelli e magrissime vacche si contendono pochi fili di erba secca. Donne dalla statura piccolissima si inerpicano per sentieri scoscesi cariche di fascine di legna o di giare piene d’acqua. Qui il paesaggio montano è rimasto intatto nel tempo, tra i sassi solo acacie (ora verdissime) dall’ombrello particolarmente piatto mentre il maledetto eucalipto (maledetto perché, preveniente dall’Australia, ha soppiantato in gran parte dell’Etiopia centro-settentrionale l’autoctona vegetazione tropicale) e’ quasi inesistente. Nel primo pomeriggio atterriamo ad Addis sotto la pioggia, ci informiamo sul tempo ma veniamo rassicurati che si tratta di tempo anomalo. Alla faccia !! l’acqua poi ci perseguiterà praticamente per tutto il viaggio. Alle 18 lasciamo Addis dopo un’estenuante ricerca della macchina, che avevamo prenotato da tempo, che dovrà portarci alla missione di Soddo, distante 327 km. Dove ci aspetta la nostra Toyota. Arriviamo verso le 23.30 ed a fatica troviamo alloggio presso un sedicente albergo che già chiamare stamberga è tanto, comunque la stanza è piu’ pulita di quel che sembra e tutti sono gentilissimi (per la stanza spendiamo 2 o 3 euro!!); il problema al solito sono i servizi; sappiamo già come saranno ma ogni volta è uno shock soprattutto per le donne.

30 ottobre

Di buon mattino ci presentiamo alla missione dei frati cappuccini di Soddo ove tutti ci fanno festa. La macchina è in ottime condizioni ed i lavoretti che avevo chiesto sono stati fatti nella bella officina della scuola professionale. Vorrei fare l’assicurazione r.c. ma a Soddo che pure è il capoluogo della regione non c’è un agenzia per cui andiamo ad Awassa (sul lago omonimo) che però dista ben 140 km di pessimo asfalto.

Quindi per stipulare una polizza del costo di ben 12 euro ci ciuciamo 280 km. che peraltro sono piacevoli per il paesaggio e per i villaggi che si incontrano. Una cosa che colpisce dei villaggi etiopi (il discorso vale per tutto il paese) è l’estrema pulizia del territorio, niente rifiuti e niente plastiche che il vento appiccica dappertutto, come in quasi tutta l’Africa. A sera siamo di ritorno alla missione, cena ottima coi frati e pioggia a dirotto.

31 ottobre

Con tempo ristabilito (almeno pare) prepariamo la macchina alla partenza e subito dopo colazione partiamo verso sud. Le condizioni dell’asfalto sono discrete, meglio di quanto ci era stato prospettato; fino al lago Abaya il paesaggio non è gran che, ma in vista del lago diventa spettacolare, una boscaglia fittissima e verdissima inframmezzata da grandi alberi con alte montagne ai lati. Le recenti abbondanti piogge (che secondo quanto ci risultava avrebbero dovuto finire a settembre) hanno ingrossato i fiumi e lungo la strada dobbiamo superare due guadi piuttosto impegnativi (credo ai limiti della possibilità della macchina) passano infatti, oltre a noi, solo due camion mentre le auto si fermano. Il grande lago, comunque rosso, ora lo è ancora di piu’per l’apporto dei fiumi in piena, anch’essi tutti rossi. Verso le 16 arriviamo ad Arba Minch, allo Swayne Hotel. L’albergo è tipico da turista occidentale in safari, lontano dalla nostra mentalità ma ha il grande pregio di offrire una vista spettacolare sulla sottostante foresta africana, sui laghi Abaya e Chamo ed il parco nazionale di Nechisar.

Qui prendiamo contatto con la guida che avevamo prenotato tramite la missione di Soddo e qui vorrei aprire una parentesi a proposito della guida. Noi tutti overlanders magari di origine sahariana non amiamo l’idea di ingaggiare una guida, forse ci sentiamo sminuiti, certamente ci sentiamo meno liberi e chi viaggia col proprio mezzo (maniera tra le altre cose molto piu’ costosa del viaggio organizzato) ama soprattutto la libertà,in ogni sua forma. Questa volta però ultrasessantenni, soli nel cuore dell’Africa nera, con scarsissime se non nulle capacità meccaniche, avevamo deciso, per ragioni di sicurezza, di ingaggiare una guida e devo dire onestamente che è stata un’ esperienza molto positiva. La guida, soprattutto se parla i dialetti locali, ti introduce e fa da tramite verso le popolazioni locali, sei sempre un ferenji (come qui chiamano lo straniero) ma amico, puoi entrare nelle locande locali,gustare cibi e bevande sconosciuti; la guida non ti fa perdere luoghi importanti da vedere e tempo per cercarli, insomma noi ci siamo trovati molto bene anche perché le persone che ci hanno accompagnato erano persone squisite, il che, evidentemente, è molto importante.

1 novembre

Notte di pioggia, anzi di diluvio. Pare che la stagione delle piogge quest’anno sia in largo anticipo. Ma come? A Soddo che dista da qui meno di 200 km ci avevano detto che le abbondanti piogge erano una imprevista coda della stagione piovosa e qui ci dicono che è un anomalo anticipo!! Comunque sia a causa della impraticabilità delle piste dobbiamo rinunciare al parco nazionale del Nechisar e ci dirigiamo verso le montagne, al villaggio di Chencha nella zona abitata dall’etnia dei Dorza. Il posto è infangatissimo ma animatissimo perché oggi sabato è giorno di mercato. Le capanne dei Dorza sono fatte con foglie di falso banano (ensete), il paesaggio verdissimo è quasi alpino, decine di donne (anche qui di piccola statura) con carichi impressionanti, quasi sempre a piedi nudi, si fanno kilometri e kilometri per andare al mercato. Un diluvio ci impedisce di gustare appieno il mercato, scendiamo quindi verso i laghi ed ora il tempo è decisamente migliorato anche se violenti temporali si distinguono da lontano. Questa è una particolarità che ho poi notato in tutta la Rift Valley: i temporali o scrosci d’acqua, sempre molto violenti, sono estremamente localizzati e da lontano si notano facilmente.

Nel pomeriggio andiamo a fare un giro in barca sul lago Chamo, il cielo è tempestoso e la luce del tramonto è fantastica. Grandi stormi di uccelli acquatici ci accompagnano alla visita del posto chiamato Cocrodrile Market per l’abbondanza di questi rettili. Oggi a causa dell’acqua particolarmente alta non se ne vedono molti ma comunque quelli che si fanno vedere bastano a dare l’idea della loro pericolosità anche se a detta dei locali qui non attaccano perché hanno cibo in abbondanza (pare invece che nel vicino lago Abaya la situazione sia esattamente l’opposto). Abbiamo anche un incontro ravvicinato con un ippopotamo che non gradisce affatto la nostra visita al suo clan. A sera dormiamo alla Rift Valley Pension, pulita ed accogliente molto piu’ africana dell’hotel di ieri sera. La cena invece in ristorante locale è stata a base di ottima tilapia, il pesce che abbonda in questi laghi.

2 novembre

Con la compagnia di Oneday, il giovane e dolce rasta che ci farà da guida nei prossimi giorni, lasciamo Arba Minch costeggiando verso sud il lago Chamo, attraversiamo villaggi di capanne, bananeti, campi di cotone, arnie appese alle acacie con protezioni contro le razzie dei babbuini, autentico flagello per i contadini locali. Grandi vallate coltivate a sorgo e grano turco.

Raggiungiamo Konso, grosso villaggio capoluogo della regione abitata dall’etnia konso famosa per essere contadini capaci, come nella nostra Valtellina, di terrazzare grandi e piccoli appezzamenti strappando dalla montagna pezzi di terra coltivabile. Andiamo a visitare una zona di terra rossa erosa dalle acque soprannominata New York perché le torri di terra erose assomigliano (con un po’ di fantasia) a tanti grattacieli. Oneday ci porta a visitare il grande villaggio konso di Machekie dove i ritmi di vita e le usanze sono rimaste intatte nel tempo. Due particolarità uniche di quest’etnia attraggono la nostra curiosità. La prima sono gli alberi della memoria. Quando territorio non è piu’ sufficiente a sfamare l’intera comunità una famiglia (o meglio un clan gruppo di famiglie imparentate tra loro) lascia il villaggio e si sposta altrove fondando una nuova comunità. In ricordo di questa famiglia nel centro della piazza principale, dove si riunisce la comunità, dove il capo amministra la giustizia e si prendono le decisioni piu’ importanti per la collettività, qui attorno ad un albero si lascia un lungo e sottile tronco in ricordo della famiglia che ha lasciato il villaggio. La seconda caratteristica è data da un grosso tucul (anch’esso nella piazza) col piano rialzato un paio di metri da terra ove i giovani del villaggio che ancora devono sposarsi vanno tutti insieme a dormire.

Lasciamo Machekie non senza aver lasciato qualche regalino ai suoi simpatici e cordiali abitanti; poco dopo Konso troviamo l’asfalto che ci porta tra un acquazzone e l’altro verso un passo dal quale si domina la Rift Valley.

Da qui si vedono con particolare chiarezza i vari temporali che si stanno scatenando nella famosa valle. Un ponte (qui ce ne sono pochissimi) ci consente di oltrepassare il fiume Weito, ora particolarmente impetuoso, che delimita il territorio dei Konso.

All’altezza del piccolo villaggio di Woyto pieghiamo a sinistra verso ovest attraversando la Rift, il paesaggio è cambiato, dall’intricata foresta per lo piu’ di alberi di 4/5 metri si passa ad una zona di grandissime acacie, con scarso sottobosco; lungo la pista si incontrano genti di nuove etnie come i Woyta e gli Hammer. Quest’ultimi in particolare colpiscono perché sono vestiti in modo assolutamente tradizionale senza alcun tocco europeo (magliette del Milan ed altro!!), le donne con la caratteristica acconciatura di treccine di fango rosso e burro, il vestito di pelli, il seno (in genere una mammella) scoperto con collane e monili di cipree (le conchiglie diffusissime in tutta l’Africa, anche dove, come qui, il mare è piuttosto lontano) ed i piedi quasi sempre nudi. La cosa per noi interessante è che gli Hammer pur, evidentemente, venuti a contatto con il mondo cosidetto civilizzato, hanno mantenuto immutato il loro modo di vivere a cominciare dall’abbigliamento.

Quasi alla fine dell’attraversamento della Rift, prima di attraversare le montagne che ci porteranno a Turmi, incontriamo il villaggio di Arbore abitato dall’etnia omonima ove invece la civiltà è arrivata eccome! Donne e bambini sono abbigliati e dipinti ad uso dei turisti (molto scarsi soprattutto in questa stagione!) si buttano su noi malcapitati strattonandoci per essere fotografati, a pagamento si intende!! Fuggiamo a gambe levate. Impariamo che è molto meglio fermarsi lungo la pista all’incontro con gruppetti isolati che parlano volentieri col viaggiatore ed accettano spesso di buon grado di essere fotografati che entrare nei villaggi e sottostare ai piccoli ricatti di certi capi-villaggio che chiedono la tangente per entrare nel villaggio e poi altra tangente per fotografare gente che chiaramente si agghinda per il turista.

Il tramonto e poi il buio ci sorprendono sulla bella pista, nell’oscurità vediamo babbuini, dik dik, volpi e uccelli notturni. Alle 19 arriviamo al campeggio di Turmi, fa caldo e la stanza ove alloggiamo è torrida ma poi col passare del tempo la temperatura è piu’ che accettabile. I servizi del campsite sono essenziali

3 novembre lunedì

Oggi è giorno di mercato ma il clou sarà verso mezzogiorno per cui,nell’attesa,andiamo a Dimeka che dista una trentina di km di pistone in costruzione ma appena arrivati un violento acquazzone ci costringe in un bar, aspettiamo invano che passi; decidiamo allora di tornare a Turmi dove il tempo è decisamente migliore e dove giriamo per l’interessantissimo mercato ove convergono tutti gli Hammer dei villaggi vicini. Per noi non c’è molto da acquistare ma il solo assistere agli assembramenti Hammer vale il viaggio. A metà pomeriggio in un bar assolutamente per locali sorseggiamo una tipica bevanda hammer leggermente alcolica fatta di miele, acqua ed una foglia particolare fatta fermentare. Ritorniamo quindi a Dimeka nelle cui vicinanze, in un minuscolo insediamento (tre tucul) il nostro Oneday ci ha organizzato una serata hammer.

Secondo la nostra guida questo villaggetto è famoso nella zona perché il suo capo è un rinomato indovino. Un capretto viene arrostito alla brace mentre nelle vicinanze un gruppo di giovani, ragazzi e ragazze hammer, cantano e danzano balli rituali.

Secondo la tradizione verso gli ospiti veniamo imboccati coi migliori bocconi del capretto; a cena finita, mentre i giovani continuano a cantare e danzare noi ci ritiriamo a dormire nel tucul nel cui interno il pavimento è pulitissimo e su pelli di bovino conciate mettiamo i nostri materassi. Il fuoco sempre acceso ci riscalda e con noi dorme la giovane moglie del capo col suo piccolissimo bimbo.

Fuori dal tucul e all’interno del perimetro che delimita il villaggio stanno gli animali. Nella notte, tanto per cambiare, piove e qualche rivoletto penetra nel tucul, le caprette si mettono al riparo della falda di paglia e si ha l’impressione di dormire anche con gli animali della comunità. Malgrado la situazione per noi molto inusuale riusciamo anche a dormire.

4 novembre

Lasciamo qualche regalo e tra le feste di tutti lasciamo il villaggio per tornare ancora a Turmi per raggiungere Omorate la cittadina sulle rive del fiume Omo. La pista è veloce anche se c’è una discreta tole ondulee. Numerose faraone e qualche dik dik ci attraversano la pista che si snoda in una foresta di piante dal basso fusto. Ad Omorate fa molto caldo (non oso pensare come debba essere durante la stagione secca) e finalmente possiamo vedere il famoso Omo River, culla di tante etnie diverse.

Il fiume è in piena e per visitare il villaggio sulla riva opposta abitato dall’etnia Dasanech dobbiamo attraversare il fiume su una canoa scavata in tronco d’albero (vi sono anche delle piroghe a motore ma pare che siano riservate per non meglio identificati traffici locali).

Il prezzo richiesto è decisamente esorbitante (molto di piu’ di quanto indicato dalla Lonley Planet) e malgrado tentativi di trattative non riusciamo a spuntare un trattamento migliore. Ma ormai visto che siamo arrivati fino a qui cediamo. Il villaggio comunque non merita la visita, è spaventosamente squallido e sporco, le capanne di forma oblunga sono una accozzaglia di materiali diversi dalla plastica al cartone, dalla latta a legni vari,il tutto tenuto assieme da improbabili corde. I Dasanech, poco simpatici, insistono per essere fotografati per guadagnare qualche birr ma poi si mettono in posa e le foto già di per se insignificanti per il contesto sono ancora piu’ “penose”, e oltretutto piove! Lasciamo volentieri lo squallido villaggio e riattraversato il fiume ci aggiriamo per Omorate, ma lo spettacolo non è molto migliore. Sinceramente, una delusione.

Ci dirigiamo quindi verso Jinka dopo essere passati, ormai per l’ennesima volta, da Turmi e poi Dimeka. La pista è lenta e molto rovinata dalle piogge recenti, numerosi anche se non particolarmente impegnativi sono i guadi. Dopo Key Afer la strada attraversa montagne spettacolari a quote superiori ai 2500 mt ma il tempo che ci aspetta non promette niente di buono. Diventa buio e la guida è piuttosto difficoltosa perché di notte le trappole della pista sono poco visibili. Per di piu’ a qualche km da Jinka rompiamo l’ammortizzatore posteriore destro e quindi in queste condizioni gli ultimi km diventano difficili anche perché, strano a dirsi, piove. Siamo stanchi per la lunga giornata e ci pregustiamo una bella doccia calda perché oltre la tensione degli ultimi km abbiamo sulle spalle la notte nel tucul ed il caldo di Omorate. Ma a Jinka non si trova una stanza, pare che ci sia un meeting tra Etiopia e Kenya per questioni di pascoli e confini e tutti gli alberghi sono pieni. Troviamo a mala pena un paio di stanze in un alberghetto anonimo (nel senso letterale, perché non ha proprio un nome) le camere sono decenti (sempre secondo il metro africano) ma non c’è la sognata doccia in compenso i gabinetti sono al solito spaventosi. E nella notte piove!

5 novembre

Il pantano che avvolge Jinka è assoluto. Per prima cosa andiamo dal meccanico ove con circa 100 € sostituiamo entrambi gli ammortizzatori posteriori. Partiamo quindi per il parco nazionale del Mago ma uscire da Jinka non è affatto facile perché i torrenti in piena rendono intransitabili molte delle vie che portano alla pista per il Mago. Il paesaggio che ci circonda è molto bello, la discesa nella valle del fiume Mago è spettacolare, tutto è verdissimo e quando esce il sole (raramente!) fa molto caldo, sarebbe tutto molto attraente se non ci fosse lo sgradevole contatto con i Mursi l’etnia famosa per il piattello labiale portato dalle donne. I Mursi ormai si sono prostituiti alla fotografia; tutte le etnie che abbiamo incontrato chiedono un compenso per le foto ma in genere lo fanno con un certo garbo (anche gli Arbore di cui ho detto prima), poi si può “trattare”, sempre con simpatia.

I Mursi dei villaggi che si affacciano sulla pista che attraversa il parco del Mago invece ti obbligano a fermarti e ti obbligano a fotografarli, naturalmente dietro un compenso che è anche piuttosto elevato (se moltiplicato per il numero dei turisti che visitano il parco) e lo fanno in modo brusco ed il sorriso raramente si affaccia nella trattativa. Le foto poi, al di la del ricordo e del folclore dato da queste labbra orrendamente deformate (soprattutto quando, come nella maggior parte del tempo,non portano il piattello labiale) sono quasi sempre difficili perche i Mursi si “mettono in posa”; girare per il villaggio e fotografare la vita quotidiana è praticamente impossibile. Alla tassa sulla foto si deve aggiungere la tassa di “ingresso” al villaggio (circa 20 euro). Insomma un esperienza piuttosto sgradevole cui si aggiunge la delusione di non vedere grossi animali selvatici (salvo babbuini, dik dik e faraone). Il parco del Mago infatti, molto bello scenograficamente, ospita pochi animali e quei pochi probabilmente in questa stagione di abbondanza d’acqua e di verde lussureggiante non si fanno vedere. A sera siamo ospiti di Federico Ferretti, un coraggioso italiano, che sta costruendo a Jinka un lodge di un certo pregio in una splendida posizione panoramica.

6 novembre giovedi

Una impervia strada sterrata ci porta al bel museo etnografico di Jinka, certamente interessante e ben tenuto, in una magnifica posizione dominante. Qui sono raccolte testimonianze di tutte le straordinarie culture della valle dell’Omo. Lasciamo Jinka e lungo la strada per Key Afer, un vivace paesotto a circa 1800 mt. principale centro del territorio dell’etnia Banna,incontriamo tanti vivaci e fantasiosi ragazzini che fermano i rari turisti per eseguire improvvisate danze per guadagnare qualche birr. Oggi a Key Afer è giorno di mercato ed i Banna di tutti i villaggi della zona convergono qui.

Il mercato è molto animato e si possono trovare diversi oggetti interessanti anche per il turista. I Banna hanno una cultura simile agli Hammer, sono piu’ scuri di quest’ultimi, gli uomini hanno un fisico possente che ostentano con orgoglio, indossando solo una sorta di gonnellino. Siamo affascinati da questo mercato e da questa etnia forse ancor piu’ del mercato, piu’ famoso, di Turmi e degli Hammer. Dopo aver girovagato per il mercato ci beviamo un ottimo tejj bevanda a base di miele, leggermente alcolica diversa da quella che avevamo gustato a Turmi. Dopo colazione riprendiamo il nostro viaggio e scendiamo nella Rift Valley (qui sui 900 mt di altezza), si costeggia una grande strada in costruzione ed il pensiero corre a quello che sarà quando la strada sarà terminata: porterà certamente vantaggi consistenti a queste etnie che però inevitabilmente perderanno molto della loro specificità. Il mondo ovunque avanza ma molto si perde, giusto o sbagliato che sia, è inevitabile. Siamo fortunati noi ad aver conosciuto mondi in estinzione. Ci fermiamo al villaggio di Weyto,tipico punto di sosta africano a metà circa della Rift e non trovando camere disponibili, montiamo il nostro campo. Qui veniamo a sapere che il guado che ci aspetta fra un’ottantina di km è intransitabile e diversi fuoristrada stanno aspettando di poter passare.

7 novembre

Nella notte piove a dirotto, il pensiero del guado che ci aspetta non ci lascia tranquilli. Al mattino aspettiamo almeno un paio d’ore prima di partire perché abbiamo notizia che il guado non è fattibile ed un auto che ha tentato il passaggio è stata portata via dalla corrente. Riprendiamo il nostro viaggio con un po’ di preoccupazione e dopo qualche decina di km incrociamo delle Toyota che procedono in senso inverso, questo ci fa ben sperare. Sappiamo anche che un bulldozer utilizzato per la costruzione della nuova strada sta spianando il guado. Arrivati al punto fatidico ci accodiamo a diversi fuoristrada e camioncini in attesa di passare e vediamo con un po’ di batticuore a valle del guado la macchina travolta stamattina. Arrivato il nostro turno passiamo abbastanza agevolmente, tirando un bel sospiro di sollievo !! Raggiunta Konso ci concediamo per colazione un‘ottima n’jera in una locanda locale e poi partiamo uniti ad altri fuoristrada(perché la pista si annuncia difficile) verso Yabelo. La pista invece si rivela ottima addirittura secca come secchi sono i torrenti che incontriamo (incredibile pensare che nell’altro versante a pochi km da qui l’acqua la faceva da padrona). Dopo qualche km però tutti fermi perché c’è un ponte di ferro il cui assito di legno è semi distrutto e non si può passare.

Utilizziamo le nostre piastre da sabbia (che si dimostreranno molto utili anche in una situazione di fango mollissimo in Kenya) per aiutare un pulmino di linea locale a passare il ponte mentre io, avendo visto un camion 4×4 di tedeschi guadare il fiume, mi sento piu’ tranquillo a guadare il fiume piuttosto che rischiare di precipitare da 3/4 metri, tanto è alto sull’acqua il ponte pericolante.

Anche gli altri fuoristrada ci imitano. Oltrepassato questo fiume, il paesaggio diventa sempre piu’ africano con grandi acacie e tanti rossi termitai, si sale fino a circa 2000mt e poi si scollina. La natura dell’altro versante è molto diversa, grandi prati verdissimi con tanti fiori, numerose e strane conifere ed altri sconosciuti alberi giganteschi. Verso le 16 siamo a Yabelo e troviamo posto al motel omonimo, buono e con ottima doccia calda, peccato per il ristorante che non offre molta scelta. Appena sistemati in camera si scatena un violentissimo temporale!

8 novembre

Tentiamo di visitare la riserva naturale di Yabelo ove dovrebbero esserci rari uccelli endemici ma un torrente in piena ci impedisce di penetrare nel parco ma l’impressione è di abbandono e di scarsa vita animale. La nostra impressione è confermata da quanto ci dice il vecchio guardia-parco che ci accompagna: l’attuale governo, che tanti meriti ha avuto nello scacciare la precedente dittatura di stampo sovietico, e che ha portato avanti privatizzazioni ed apprezzate riforme, ha abbandonato i parchi preferendo concedere queste terre a pastori ed agricoltori e consentendo di fatto la distruzione della vita selvatica ed il risultato di questa miope politica si constata con mano. Torniamo quindi a Yabelo per fare il pieno di gasolio che qui costa 10 birr (0,80 € al cambio attuale) e scendiamo verso sud su asfalto buono anche se la strada è molto stretta; il paesaggio è sempre molto interessante, a tratti spettacolare. Dopo qualche decina di km facciamo una deviazione verso Est ad El-Sod villaggio posto ai margini di un profondo cratere in fondo al quale c’è un laghetto dalle acque nere dove gli abitanti della zona, di etnia Borana, estraggono un sale molto rinomato.

Ai margini della pista finalmente vediamo degli animali selvatici (a parte babbuini, dik dik e fararone), un bel branchetto di gazzelle di Grant. Lungo la strada che ci porta al confine col Kenya attraversiamo diversi villaggi di pastori Borana fatti di tucul ma anche di costruzioni col tetto di erba, in questo momento verdissima. Molto interessanti sono i drappeggi delle donne Borana dai colori molto caldi. Verso le 16.30 siamo a Moyale, tipica e animata cittadina di frontiera. A sera il nostro amico Oneday ci organizza una ottima cenetta a lume di candela, innaffiata da un ottimo vino etiope, il tutto in un nuovo albergo che ha l’aria di essere molto buono. Oneday, che si congeda da noi lasciandoci dei graditissimi doni, si è dimostrato veramente un’ottima guida col quale abbiamo stabilito un rapporto di vera amicizia. La simpatica serata con lui mi fa passare l’arrabbiatura che invece mi fatto venire la guida kenyota che mi aveva appena annunciato che domani mattina non sarà in frontiera ad aspettarci come io avevo creduto di avere combinato.

9 novembre

La frontiera apre solo alle 9 e mentre aspettiamo l’apertura degli uffici cambiamo un po’ di soldi al nero (al cambio di 1 $ per 70 scellini kenyoti ksh) perché oggi è domenica e non vi sono altre possibilità di cambio. Aperti gli uffici, in meno di mezz’ora completiamo le formalità di uscita dall’Etiopia. Un’altra mezz’ora, forse meno, e facciamo le formalità di entrata nel Kenya. Noi abbiamo già il visto che avevamo fatto in Italia a caro prezzo (circa 85 €) ma qui ci dicono che potevamo farlo senza problemi in frontiera per soli 50 $. Mi informo in frontiera circa l’eventuale convoglio per raggiungere Marsabit, convoglio che tempo fa era organizzato per ragioni di sicurezza essendo la zona pericolosa e di cui avevo letto anche sulla Lonley Planet (soprattutto per queste ragioni avevo chiesto alla guida kenyota di aspettarci al confine). In frontiera però mi rassicurano e negano vi sia necessità del convoglio. Invece fatte poche centinaia di metri ci fermano per registrarci e farci pagare una modesta somma per un presunto convoglio. Pagata la somma (200 scellini) ci fanno partire da soli dicendoci che ci seguiranno dei camion in caso ci fossero problemi (evidentemente meccanici!!). In effetti partiamo soli e facciamo tutto il viaggio soli (passa un solo camion quando siamo fermi per un breve spuntino). La pista è brutta ma per quello che mi avevano detto mi aspettavo di peggio, anche se a lungo andare mette a dura prova la vecchia Toyota. Si procede dapprima in un tunnel di arbusti spinosi verdissimi, si incontra pochissima gente e nessuno saluta per primo, tutti hanno un’aria cupa, anche i bambini, a differenza dell’Etiopia dove tutti al nostro passaggio urlano ferenji ferenji o you you, sono taciturni, lo constatiamo ma non ci facciamo caso piu’ di tanto. Dopo la foresta di arbusti c’è un immensa pianura pietrosa che ora è verde ma che nella stagione secca deve essere piuttosto infernale. Iniziamo a salire ed il paesaggio assume un aspetto di montagna sahariana anche se ora molto verde. Dopo aver costeggiato un enorme cratere vulcanico (la zona ne è piena) arriviamo a Marsabit squallida e sporca cittadina ora completamente infangata. Alloggiamo al molto africano albergo Jey Jey Center, camere e servizi passabili (e doccia calda!). A sera si scatena un violento acquazzone ma oggi finalmente è stata una giornata di sole.

10 novembre

Partenza di buon’ora, babbuini e nebbia e foresta di montagna. La bruma si dirada e anche oggi avremo una giornata di sole anche se scapoliamo per poco diversi temporali. Comunque si vede che è piovuto e molto di recente. La foresta è sempre piu’ africana (secondo il comune immaginario) anche se non si vedono animali; la pista è molto larga ma il fondo è particolarmente brutto (tole e buche), a tratti micidiale e mi chiedo come la macchina non si sfasci, per la verità un inizio di disfacimento c’è perché mi accorgo di avere perso la mascherina copri-fari destra. Ad Archer’s Post (piccolo villaggio alle soglie del parco di Samburu) incontriamo la guida Mike che qui è arrivato noleggiando una motoretta con conducente. Il primo contatto è carico di tensione perché non mi è andata giu’ che Mike non sia venuto ad aspettarci in frontiera come gli avevo chiesto ma decido di non insistere per non rovinarci il viaggio. In realtà Mike si rivelerà un’ottima persona ed una guida molto professionale e forse a causa della lingua (inglese) non perfettamente conosciuta da entrambi non ci eravamo capiti bene. D’altra parte devo ribadire che essendo soli il fatto di avere un accompagnatore locale fin dalla frontiera non era un capriccio di un viaggiatore timoroso perché veniamo a sapere che solo il giorno dopo il nostro passaggio nella tratta Moyale- Marsabit (quella ritenuta pericolosa secondo le nostre informazioni) quattro italiani (non so come viaggiassero) sono stati rapinati!! E’ forse per questa ragione di insicurezza latente che la gente ci è parsa così poco socievole??

Si avvicina il tardo pomeriggio ed andiamo subito al Samburu National Park dove vediamo subito diversi animali tra cui orici, gazzelle, antilopi, giraffe, zebre ed elefanti tra cui un vecchio maschio che non gradisce troppo la nostra troppo ravvicinata presenza. Gli elefanti hanno tutti una curiosa colorazione ocra, data dal fango che si sono gettati addosso e che poi si è seccato sulla pelle. Il fiume Ewaso Ngiro che segna il confine tra il parco e la riserva di Buffalo Spring è in piena e totalmente color ocra. Il primo impatto con l’Africa che non conoscevo,quella degli animali, è positivo anche se indubbiamente c’è un retrogusto inquietante (mica saremo in un grande zoo-safari??). Ormai è sera ed andiamo a campeggiare all’interno del parco in un’area apposita. Rosalba si esibisce in una delle sue leggendarie cene, ma siamo disturbati da un nugolo impressionante di insetti volanti di ogni genere.

11 novembre

Sveglia alle 5.45 e smontaggio del campo sotto il diluvio! Andiamo a cercare coccodrilli ed altri animali nella vicinanza del fiume ma il fango è troppo e decidiamo di desistere ma nel girarci per ritornare sui nostri passi ci infognamo pesantemente e dopo molti vani tentativi solo con l’aiuto delle piastre da sabbia (Cattone sei sicuro che servano solo a far scena??) riusciamo ad uscirne. Il tempo migliora anche se rimane coperto, eccitante è l’incontro con una coppia di ghepardi, e poi col sole che finalmente prevale sulle nuvole incontriamo molti animali (le stesse specie di ieri) tra cui un bel gruppo di impala con due giovani puledrini che giocano a rincorrersi e che mi viene spontaneo paragonare alla mia Sahara, giovane setter che gioca allo stesso modo con una cagnetta sua grande amica. Usciamo dal parco per dirigerci verso Maralal, la pista è abbastanza buona e molto bella la natura circostante ma purtroppo il tempo peggiora e piove pesantemente; vediamo poco delle montagne e delle foreste che ci circondano anche se intuiamo la spettacolarità dei luoghi. Il tempo migliora quando arriviamo su un grandissimo altopiano sui 2000 mt qui branchetti di zebre pascolano assieme a mandrie di animali domestici. È tutto verdissimo, laghetti e fiumiciattoli ci fanno sentire in Scozia! Verso le 16 arriviamo alla cittadina di Maralal, grosso centro piuttosto triste e sporco; ci rifocilliamo con un buon tè (peraltro non paragonabile con lo sciai bekkemem l’ottimo speziato tè etiope) e con un corroborante doccia calda al bel Cheers Hotel.

12 novembre

Oggi è una splendida giornata senza nuvole e fa piuttosto freddo (bastano comunque una camicia ed un gilet di pile), ci dirigiamo verso nord sulla pessima pista che porta al lago Turkana; dopo una trentina di km si devia per andare ad un magnifico punto panoramico dove l’altopiano precipita improvvisamente e da dove si domina la Rift Valley. Qui ci concediamo un ricco breakfast e poi ritorniamo a Maralal per poi proseguire verso il lago Baringo.La pista è molto bella e molto “africana” e si snoda attraverso immense foreste di fittissime piante alte 4/5 metri. Incontriamo branchi di giraffe e di zebre, gli unici animali selvatic (tranne gli onnipresenti babbuini,dik dik e faraone) visti fuori dai parchi. Verso le 15 arriviamo in posizione molto panoramica dominante il lago Baringo e quando mancano solo una decina di km alla meta di colpo la Toyota ammutolisce. Dopo un attimo di batticuore penso subito di essere rimasto senza gasolio perché l’indicatore del livello del carburante è difettoso e non troppo attendibile. Travaso quindi dal supplementare ma il motore non ne vuol sapere di partire, mi sorge il dubbio che il problema non sia il gasolio.

Cerco freneticamente la pompa per lo spurgo ma forse per l’agitazione del momento faccio fatica a trovarla. Finalmente individuo la pompetta e dopo qualche colpetto il motore riprende subito il suo rassicurante rombo!!

Raggiungiamo quindi il bellissimo Robert Campsite, sulle rive del lago, dove montiamo il nostro campo; nella notte sentiamo degli strani versi, sapremo poi che si trattava di ippopotami.

13 novembre

Il giorno dell’aquila (meretrice).

Giro sul lago Baringo, noto per essere ricchissimo di uccelli acquatici ed in particolare noto per ospitare aquile pescatrici.

Subito il sospetto che sia un giro per turisti alpi tour.

Appena lasciata la riva, per puro caso (ma-che-caso direbbero a Striscia la Notizia) incrociamo due pescatori su tradizionali zattere di balsa che hanno pescato miseri pesci (ricordo che il lago è famoso anche per essere ricco dell’ottima tilapia, pesce che viene qui servito ovunque) che il nostro accompagnatore acquista per pochi soldi (forniti da noi!!); poi un insignificante giro lungo la riva verso Nord, ove scarsissimi sono gli uccelli. Torniamo sui nostri passi e ci dirigiamo verso Sud oltrepassando il nostro campsite. Ed eccola la, lontana, isolata, con fare provocante in cima ad un albero che costeggia la riva del lago. Il barcaiolo prende il pesce acquistato dai pescatori, gli apre lo stomaco e gli infila un pezzo di balsa in modo da farlo galleggiare e poi lo butta in acqua a qualche metro da noi, quindi lancia un paio di fischi laceranti (tipo stadio) e l’aquila (meretrice) si libra in volo, viene velocemente verso di noi, afferra con le artigliate zampe protese il suo pesce e se ne va. L’abbiamo pagata e lei ce l’ha data, la meretrice!!

Ecco un limpido esempio di inquinamento turistico. Mi viene in mente, tristemente, il pesce Napoleone di Sharm (el Sheik naturalmente). Mi spiego: ero stato con due amici nel Mar Rosso nel 1965, allora ero un sub abbastanza bravo, ed uno dei pesci piu’ difficili da avvicinare era il pesce Napoleone, tanto che nessuno di noi era riuscito a catturarne uno. Una decina d’anni fa sono andato a Sharm el Sheik che non aveva raggiunto l’attuale livello ma era già sulla buona strada per essere un luogo allucinante ove ogni nuovo albergo deve essere piu’ grande e spettacolare del precedente. Mi immersi nella località di Ras Mohammed, rinomata secca, e subito vidi un grossissimo pesce Napoleone che si avvicinava senza alcun timore ai sub mangiando dalle loro mani uova sode procurate alla bisogna dall’accompagnatore di turno. L’incontro con l’aquila (meretrice) mi ha fatto provare le stesse sensazioni: l’animale selvatico turisticizzato, ovvero come vendere la propria dignità. Un po’ meglio l’incontro coi coccodrilli e con gli ippopotami con il solito maschio che non gradisce l’intrusione dei turisti nel suo territorio…almeno lui ha conservato la sua dignità!!

Lasciamo il lago Baringo e ci dirigiamo verso Nakuru col suo lago ed il suo parco,la strada è ottima. Nella importante cittadina facciamo un po’ di spesa ed acquistiamo qualche souvenir e ci dirigiamo verso il parco che si estende proprio alle porte della città. Mentre Mike si occupa delle formalità di entrata una scimmietta (un cercopiteco) approfitta di una portiera aperta e ruba dalle mani di Rosalba della frutta che avevamo appena comprato! Il parco è zeppo di animali (tranne gli elefanti) che convivono pacificamente (gli erbivori temono solo i predatori) in particolare ci sono moltissimi bufali e rinoceronti ma il vero spettacolo è dato dalle centinaia di migliaia di fenicotteri che formano una enorme diga rosa e dagli altrettanto numerosi pellicani, per non parlare di molte altre specie di acquatici. Grazie alla tenacia ed all’occhio di Mike riusciamo anche a vedere una leonessa pigramente sdraiata su una roccia. Qui i leoni sono rari perché tempo fa un leone ha ucciso tre rangers e poiché pare che un leone mangiatore di uomini trovandoli una vera leccornia non smetta il vizio, la direzione del parco decise di abbatterli quasi tutti non essendo in grado di individuare il colpevole.

E’ ormai buio quando torniamo alla guest house (un tucul molto grande attrezzato con cucina, frigo, pentole etc). Mike che kikuyu ci prepara una ottima cena keniota, che noi innaffiamo con ottimo vino etiope.

14 novembre

La guest house è recintata per ragioni di sicurezza ed è uno spettacolo vedere branchi di bufali che pascolano nell’incerta luce dell’alba.

Giriamo per il parco per quattro ore rivedendo tutti gli animali di ieri (oggi molti rinoceronti) ed incontrando sulla stessa rupe di ieri ben tre leonesse che si crogiolavano al sole.

L’unico animale che non siamo riusciti a vedere è stato il leopardo.

Alle 13 partiamo per Nairobi, la strada non particolarmente interessante è molto trafficata. In città il traffico è pazzesco ma per fortuna Mike conosce la strada della missione dove domani lasceremo la Toyota quindi ci arriviamo abbastanza bene.

15 novembre

Una bella lavata ed ingrassata alla macchina ci voleva proprio e cosi rigenerata la portiamo alla missione dove riposerà per alcuni mesi.

Ultimi acquisti e nella notte partenza per l’Italia. Il prossimo passo sarà Kenya, Tanzania e forse Malawi, nessuno se la sente di venire con noi?? Portare l’auto in Kenya via mare non è cosi difficile!!

Gian Casati

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