By Donato Cianchini
Originally Posted Friday, December 7, 2007
Sud Sudan, è tempo di pace
Quello che vi apprestate a leggere non è un vero e proprio report di viaggio ma è un personale resoconto di ciò che ho provato attraversando un lembo di quest’immenso paese a 20 anni dalla fine della guerra civile. Non troverete punti gps, roadbook, né immagini di luoghi importanti. Per ragioni strettamente militari, al momento è ancora vietato entrare con le auto proprie e fotografare a meno che…, bè, qualcosa si riesce sempre a documentare!
Il visto d’ingresso per scopi umanitari è stato rilasciato a Nairobi dalla sede dell’SPLA (Sudan People Liberation Army), l’unico modo per poter entrare in Sud Sudan e avere una scorta militare, indispensabile lasciapassare in zone ad alto rischio dove ancora oggi bande di ribelli o di militari che non si riconoscono negli accordi di pace, seminano morte e generano terrore.
Inutile dire che dopo 20 anni di guerra civile, tutto è stato distrutto. E’ incredibile, ma dopo qualche giorno eravamo quasi “abituati” a vedere dappertutto rovine e macerie, edifici smembrati dalla violenza dei combattimenti.
Siamo arrivati a Juba, la nuova capitale del futuro stato indipendente del Sud Sudan. Qui abbiamo visto la maestosità del Nilo, lo abbiamo attraversato sull’unico ponte rimasto miracolosamente intatto proseguendo fino a Bor, nell’enclave del popolo Dinka, i fieri pastori nilotici che hanno saputo resistere alla barbarie degli arabi. Hanno pagato un prezzo altissimo di vite umane (si parla di centinaia di migliaia di morti e di deportati), i più fortunati e i più coraggiosi sono rimasti nelle loro terre ancestrali in compagnia delle mucche dalle grandi corna a forma di lira, la loro unica fonte di ricchezza.
Il Sud Sudan ha un’estensione pari a due volte e mezzo quella dell’Italia ed una popolazione di circa 9.000.000 di persone. E’ una terra in gran parte paludosa dove il Nilo Bianco esonda con le sue piene annuali. Quest’area s’identifica nel “Sudd”, un’immensa piana alluvionale di 400 mila kmq. Non una collina né un’altura a delimitare la monotonia del territorio. All’inizio della stagione delle piogge fra maggio e giugno, la terra sembra sparire sommersa dall’acqua e dal fango, impedendo qualsiasi movimento agli animali e agli uomini. E’ la rivincita della natura sull’uomo.
Il viaggio è stato effettuato tra dicembre 2006 e gennaio 2007, periodo ideale che corrisponde alla stagione secca, anche se è piovuto in alcune zone costringendoci a modificare la seconda parte dell’itinerario. L’organizzazione è stata curata dall’associazione Argonauti Explorers di Milano www.argonautiexplorers.net che segue due progetti di grande utilità nel campo sanitario e scolastico. Si tratta dell’ammodernamento di alcuni ospedali nei distretti di Rumbek, Adior e Billing nel Bahr El Ghazal, e la costruzione di un complesso scolastico nel distretto di Kapoeta nell’East Equatoria.
Dopo il volo interno da Nairobi a Lockichoggio, gli spostamenti sono avvenuti con mezzi fuoristrada con autisti di etnia Dinka. Viste le enormi difficoltà logistiche, per i pasti abbiamo utilizzato alimenti portati dall’Italia con quelli acquistati a Nairobi; per i pernottamenti la tenda si è rivelata utile per la mancanza di strutture ricettive (solo a Juba esistono alcuni campi tendati sulle rive del Nilo).
Nella concreta speranza che la pace si rafforzi al più presto, credo fermamente che questo nuovo stato africano abbia tutte le possibilità di diventare una forte attrattiva per il turismo. Una natura forte e rigogliosa, la varietà dei panorami, il Nilo che di per sé vale il viaggio, gruppi etnici di indubbio interesse, rappresentano alcuni dei motivi per prevedere, nel prossimo futuro, un viaggio in Sud Sudan.
I luoghi di un certo interesse attraversati dopo la frontiera di Nadapal sono:
Narus – Kapoeta – Natinga – Riwoto – Torit – Juba – Malek – Bor.
Le etnie incontrate sono:
Toposa – Latoka – Mundari – Dinka.
Lockichoggio fino a qualche anno fa era un tranquillo villaggio popolato dai pastori Turkana, sulla sponda nord occidentale dell’omonimo lago. Niente più di un puntino minuscolo sulle mappe topografiche del Kenya. Per portare aiuti umanitari alle popolazioni sudanesi afflitte da una guerra civile disastrosa, l’ONU ha costruito un aeroporto internazionale (la pista è lunga 1.800 metri) ed una base logistica attrezzata per i voli interni fino a Juba, con grande beneficio per tutte le altre Ong umanitarie (dall’Unicef a Save the Children, Medici senza Frontiere, Amnesty International ecc..) che operano in questa zona martoriata dell’Africa. Grazie alla realizzazione di una piccola scuola nel distretto di Kapoeta, riusciamo ad avere il visto d’ingresso per scopi umanitari rilasciato a Nairobi nella sede provvisoria dell’SPLA (Sudan People Liberation Army). L’Esercito popolare di liberazione del Sudan è l’ex gruppo ribelle che, dopo gli accordi di pace firmati agli inizi del 2005 con il governo di Khartoum, controlla di fatto la parte meridionale del paese. Questa fazione, creata nel 1983 da John Garang leader indiscusso del movimento e deceduto subito dopo la pace, è composta principalmente dalle etnie Dinka e Nuer e rivendica a gran voce la creazione di un nuovo stato, il Sud Sudan. L’apparato politico è l’SPLM (Sudan People Liberation Movement).
Diciamo subito che l’inaugurazione della scuola è stata l’occasione, o se vogliamo il pretesto, per vedere la situazione reale a 2 anni dalla fine della guerra. Dappertutto c’è un profondo senso di abbandono. Tra le varie comunità regna l’insicurezza per un futuro che molto semplicemente non esiste. Nessuno è veramente in grado di predire ciò che accadrà nei prossimi mesi. Una data è certa, ed è quella del 2011, anno del voto referendario in cui si deciderà l’indipendenza dal governo di Khartoum e dal potere islamico di Omar el-Bashir, responsabile di morte e miseria. Nel frattempo tutto è fermo, immobile. E’ come se la clessidra temporale si fosse inspiegabilmente bloccata!
La gente è in attesa. Intanto ci sono i regolamenti di conti fra le autorità locali. Quelli che erano in carica con il vecchio regime, sono destituiti senza appello; poco importa se sono persone serie e professionali, il solo fatto di essere stati alle dipendenze degli arabi, non è visto di buon occhio; potrebbero essere spie. Al loro posto, quelli che hanno combattuto a fianco dell’SPLA.
Il Sudan è un paese che ha sostanzialmente dimenticato come si vive in un contesto non militare. I soldati, spesso difficilmente distinguibili dai civili, sono ancora ovunque. Così come la diffusione di un’enorme quantità di armi che, è opinione comune: “servono a proteggerci dal nemico (gli arabi) che potrebbe tornare in qualunque momento”. Divisi su tutto, l’unico elemento che accomuna il Nord e il Sud è la guerra!
Kapoeta è il primo agglomerato urbano che incontriamo arrivando dal Kenya. Qui si è combattuta nel 2003 una delle ultime sanguinose battaglie con i soldati dell’SPLA che hanno mostrato i muscoli alle milizie arabe di Khartoum, riconquistando con meno di 700 uomini, il controllo di questa zona strategicamente molto importante per la vicinanza al confine del Kenya. A raccontarla con un pizzico di orgoglio è Andreas Lowela, comandante di un plotone di 250 uomini della guarnigione di Kapoeta. E’ un personaggio fuori dal comune. Mentre tutti parlano inglese, lui parla spagnolo! Ha studiato 8 anni alla scuola militare di Cuba. Dopo una folgorante carriera e 15 anni di guerriglia tra Torit e Kapoeta oggi, a 40 anni, con le stellette di capitano sulle spalle, si gode questo scampolo di relativa tranquillità.
Ovunque i segni tragici del conflitto. Mura divelte, fori di proiettili e granate tappezzano i pochi edifici rimasti in piedi, mentre carcasse di carri armati e mezzi blindati giacciono immobili, arenati sotto un metro di terra che profuma di morte.
A pochi chilometri i segni della follia dell’uomo. La chiesa di una missione comboniana brutalmente sventrata, distrutta e oltraggiata da scritte in arabo.
Siamo abituati a vedere le immagini di guerra attraverso la televisione, ma queste cose, vissute personalmente mettono i brividi, fanno accapponare la pelle. Restiamo senza fiato alla vista di decine di mutilati, privati delle braccia o delle gambe a causa delle mine o delle schegge di granate. Sono le “vittime viventi” di quest’assurda guerra che in 22 anni ha causato 2 milioni di morti ed una cifra altrettanto spaventosa di 5 milioni di sfollati. La maggior parte è concentrata ancora nei campi profughi attrezzati in Kenya, Etiopia, Uganda e Ciad, e non hanno intenzione di ritornare nei luoghi d’origine fino a quando la situazione non si stabilizzerà definitivamente.
Basta allontanarsi dai centri abitati, per trovarsi immersi nel folto della savana, con grandi acacie e villaggi di una bellezza estrema. Ovunque le scene tradizionali della quotidianità africana: bambini vocianti con i secchi in testa pieni d’acqua, le donne a pestare il sorgo, uomini e anziani seduti a chiacchierare. Siamo nella zona di Riwoto ad una ventina di chilometri da Kapoeta, terra del gruppo etnico dei Toposa.
Gli uomini sono guerrieri abili e temibili. In entrambi i sessi usano scarificarsi il corpo come segno di appartenenza e di vanità. Fieri del loro status, consentono al nostro gruppo di visitare i loro villaggi dimostrandoci un grande senso dell’ospitalità e di rispetto.
Nonostante gli accordi di pace, le armi non tacciono del tutto. Si continua a combattere e a morire per le strade che dalla cittadina di Torit portano a Juba, la nuova capitale del Sud Sudan. Si tratta di attacchi indiscriminati contro civili da parte di gruppi armati sconosciuti che assaltano villaggi inermi e veicoli lungo le piste. A confermarlo è James, l’autista che ci accompagna nel viaggio fino a Bor. E’ un Dinka e, come la maggior parte della sua gente, ha militato nelle file dell’Spla fino alla fine della guerra. Con una moglie e 2 figli, parcheggiati temporaneamente nella città keniota di Nakuru, si guadagna da vivere facendo il tassista per i funzionari delle Ong internazionali che da Lockichoggio entrano in missione in Sudan.
Per la vicinanza con il confine ugandese, la zona è presa di mira da bande che fanno capo al tristemente noto Esercito di resistenza del Signore (LRA), con a capo Joseph Kony che, malato da tempo, pare si nasconda in queste vallate ai piedi della catena montuosa dell’Imatong. I suoi adepti, per la maggior parte adolescenti imbottiti di alcol e droghe, con la tattica della guerriglia, seminano morte, terrore e distruzione fra la popolazione. Per questi drammatici motivi, la zona è presidiata militarmente dalle forze dell’Spla con quelle di peacekeeping delle Nazioni Unite. Per proseguire con relativa sicurezza, il nostro gruppo è scortato da un pick up di soldati armati con cui passiamo velocemente i numerosi posti di blocco.
In compenso i panorami sono superbi. Percorriamo tratti di aperta savana intervallati da isolati picchi montuosi dove la roccia nera contrasta con il verde intenso della vegetazione. La pista sembra tagliare in due la roccia. S’insinua e serpeggia intorno a questi monoliti con ampi tornanti. L’autista ci fa notare diversi villaggi eretti sui fianchi delle montagne perfettamente mimetizzati nel contesto naturale. Alcuni sono proprio in cima! Sono del gruppo etnico dei Latoka, agricoltori della zona.
A Juba, sull’unico ponte rimasto miracolosamente in piedi, attraversiamo il Nilo per entrare in città. Siamo finalmente sulle rive del più grande fiume dell’Africa. Il Nilo è talmente importante da poter essere definito come l’elemento costitutivo dell’identità del Sudan.
Risorsa fondante per l’autosussistenza e lo sviluppo, l’acqua è un bene che ha assunto un ruolo strategico per la popolazione e lo stato stesso, ed è stato oggetto di rivendicazione nella guerra tra nord e sud. Ironia della sorte, le risorse naturali di cui è ricco il paese, invece di costituire una risorsa sono divenute sinonimi di morte e disuguaglianze etniche. La scoperta d’importanti giacimenti petroliferi nel sud, più che una benedizione, si è rivelata una maledizione per la popolazione. Il governo di Khartoum ha deliberatamente espropriato le terre di molte etnie come i Nuba, i Dinka, i Nuer per offrirle in concessione alle compagnie petrolifere. I metodi di allontanamento non sono stati molto pacifici! Si parla di deportazioni di massa, di villaggi bruciati e bombardati, d’interi raccolti dati alle fiamme per ridurre alla fame il popolo del sud. Le compagnie petrolifere hanno grandi responsabilità riguardo alla violazione dei diritti umani fondamentali. Molte provengono da stati rappresentati nelle Nazioni Unite come Cina, Malesia, Svezia e Canada.
A Juba, si mescolano l’odore della polvere delle strade e i rumori di una città che a fatica tenta di risollevarsi, cercando di rimettere in moto quei meccanismi che sono essenziali per guardare con fiducia al futuro. Uno di questi è l’Università, l’unica esistente su un territorio grande 2 volte l’Italia! La sua attività di studio e di ricerca, sarà fondamentale per i giovani.
A pochi metri dal mausoleo di John Garang, ci fermiamo nell’unico mercato trovato in tutto il Sud Sudan! Finalmente possiamo acquistare succulenti ananas e manghi, pomodori maturi e patate a volontà. La gente qui ha una visione meno pessimista rispetto ai “fratelli” di Torit e Kapoeta, anche se è opinione comune che non ci sarà alcuna speranza di pace finché non saranno risolte in modo adeguato le questioni del petrolio e dell’acqua. Non basta firmare un accordo per avere la pace.
Testo e foto di Donato Cianchini