By Marco Vigano’
Originally Posted Thursday, March 22, 2007
BLOG DELLA PRIMA SCALATA DEL VIGANO’ IN ETIOPIA, SITO www.areamk.com
(La spedizione viene riproposta dal CAI Varese-Bologna: “Le Tre Sfide”,Ras Dejen 2000)
Date tentative: 2-17 Settembre 2007 (Pagmi 1999-Meskerem 2000 Cal. Etiopico).
Disponibili ancora posti.
Dettagli a fine racconto
Caro Amministratore, non so bene come farò a trovare il tempo per scrivere questo diario.
Non sarà proprio un blog stilato al volo, devo riuscire a leggere i pasticci che ho scritto alla luce cavaocchi della pila cinese comprata a Chiro Leba, la vigilia della scalata.
Scrivo così male che gli alunni ad Addis Abeba a volte mi obbligavano a scrivere con la sinistra. “Così va meglio, prof”. Con la sinistra facevo schemi, provando intanto a scrivere con la destra, tutta scena, per captare l’attenzione. Loro intanto si sono accorti che con la sinistra scrivo molto piano, è la soluzione! Leggerò ‘sti appunti, meglio, schemi a “ragnetto” come riesco.
Una occasione per mettere nel blog pezzi della mia Africa, quindici anni o più di ricordi sfuggiti, ormai in gran parte confusi, mai fissati.
Il dottor Fausto di cui al primo giorno di diario qui sotto è l’ultimo di tanti personaggi, Ugandesi, Maliani, Ivoriani, Nigerini, Congolesi, Etiopici, Inglesi, Francesi, Tedeschi ed Italiani che mi sono passati accanto, hanno vissuto a fianco alla mia vita di normale “cooperante”, un po’ più insistente di altri, come sono io, ad acclimatarsi e a cercare di lasciare un segno tra chi mi passa vicino. Alcuni di loro vorrei fissare al volo in questo blog, per magari un giorno scrivere di più, quando la vita me ne desse il tempo.
Giordy, mio figlio “grande”, questo blog è per te ed il vostro sito.
Mi sei mancato tantissimo per tutto il viaggio, mi manchi ora. Per te ho una lezione da quassù, nel paese dove gli aerei scendono di poco e milioni, troppi milioni di poveri continuano ad innalzare preghiere, già molto vicini al cielo: Giordy, alla fine del viaggio su queste montagne come in questa vita la cosa che conta di più è la gente che hai vicino, quelli che avevi di fianco nel cammino, tra un sasso e un tratto di terra scivolosa, le persone che ami e ti hanno amato.
Nulla può contare di più. La soddisfazione che hai dal sapere di essere stato loro utile, di averli saputi ascoltare vale più della scalata a qualsiasi cima della vita.
il gruppo
De Bark, primo giorno
Wubit alle prime luci dell’alba d’altipiano si appoggia sempre molto, troppo discreta, dietro il poggiatesta di Fausto, sfiora da dietro intenzionalmente i suoi capelli, tra il brizzolato ed un bel bianco, lunghi quanto basta per coronare il suo metro e novanta.
Fausto ha i capelli belli, diceva la mia Lele, ed io mi sono ritrovato, nel sedile dietro di una di quelle land cruisers giapponesi che popolano l’Africa dei ricchi, quassù tra milioni di fiori gialli e l’aroma di benzina delle due maledette taniche di riserva.
Certo, avevo voglia di uscire sull’altopiano, via dall’aria zozza di Addis e dalle rogne della nostra fabbrichetta, ma avevo paura: si cominciava a produrre lo yogurt. Se si contamina con un pochino di lieviti i vasetti si gonfiano. E se poi ci fossero altre grane con l’ENEL etiopica, o se guastassero di nuovo per bene i furgoncini? Così Wubit diventa il fattore della decisione.
Come posso lasciarla sola tra tutti quegli italiani, senza una lingua in comune? Finora ho fatto da interprete per lei ogni volta che il Fausto ci invitava. Forse Lele si sente un po’ in colpa, coinvolta perché lei, Wubit, sua migliore amica, per bella che sia, alta quasi quanto lei, magra da sportiva di professione qual è, un ragazzo serio non l’ha mai trovato.
Devo andare, per mia fortuna, al diavolo lo yoghurt, ordine di famiglia!
Fausto dottore alpinista pochi anni fa aveva tentato un ottomila, il Broad Peak in Pakistan, con sette compagni di cordata.
Avevano mollato a 7300 metri, dopo aver capito che i tre coreani che li precedevano non sarebbero mai tornati. Li avevano visti coi binocoli, lungo quel chilometro di ghiaccio e neve fresca poco digradante prima dell’ultima salita. Erano solo in due, uno doveva essere rimasto all’inizio di quel pendio, in difficoltà per qualcosa. Erano le quattro del pomeriggio, forse passate da diversi minuti.
Troppo, troppo tardi. Dopo la cima, tornati dal compagno, il monsone portò neve fresca. Tanta, la tormenta, per dodici ore. Abbastanza da sfinire le batterie della radio, congelate come la loro ultima voce.
E’ Fausto, l’esperto, che ha organizzato la nostra uscita. Ha quindici giorni di ferie. Ha invitato amici, forse non i più vicini, indisponibili a venire proprio ora fin qui.
Con lui fa da capo organizzatore ad Addis il Reinhardt, carabiniere all’ambasciata italiana, altoatesino puro e duro, come dice il suo nome, e ancor più dolce e semplice nel cuore.
“Tu non mi conosci” aveva detto Fausto. Forse lo conoscerò meglio dopo questi otto giorni.
Ci intendiamo, come possono due italiani presi in situazioni diverse ad Addis Abeba, vicini per cultura, ma davvero diversi.
Fausto si dice egoista. Non si è mai giocato nella famiglia. Fortunato, non ha bisogno di essere diplomatico con nessuno. Solo, a fatica, penso debba farlo nel suo lavoro di mediatore tra il governo di qui ed i fondi della cooperazione italiana, nel progetto sanitario che disegnò tre anni fa e che ora dirige.
Fausto parte dopo gli altri, spesso, dalle tende. Recupera con passi in salita che paiono falcate da corsa. La sua età non si indovina dal fisico, forse dalla canizie. Nulla lo raggiunge. Lui a volte si ficca in testa di tener testa a Reinhardt su per qualche dirupo duro, ma quella è un’altra storia.
Arrivare fin qui in macchina è stata una tirata di due giorni sull’altopiano, a volte scendendo nelle valli, seguendo la strada fascista del lago Tana.
Mussolini promise di inondare le verdi campagne d’Abissina con un milione di contadini italiani senza terra, ridotti a migrare perché quasi alla fame.
Quando le divisioni indopachistane agli ordini di sua maestà britannica ci cacciarono da qui c’erano forse tremilacinquecento contadini, ma centomila amministratori e soldati.
Il lago Tana era sede di un centro sperimentale di cerealicoltura e l’oggetto di una miriade di progetti di irrigazione mai realizzati.
Abbiamo attraversato il Nilo azzurro, dopo una precipitosa discesa a scarpata da 2800 a 900 metri.
Ci siamo riposati a Debre Markos. Io ho beccato il letto scomodo, Reinhardt quello buono. Non ho dormito. Pensavo a Wubit. Possibile che sia così addormentata? Forse fa finta, perché in Etiopia, come nei paesi orientali, e ben diversamente dal resto dell’Africa, dire sesso è tabù.
Oppure, è per questo che non trova il ragazzo.
Dopo una misera camminata di un paio d’ore sulla montagna di Addis nella pioggia, fino al dirupo da cui si vedono diverse iene in pieno giorno, quasi addomesticate dal villaggio di Akako, che tributa loro in pegno di tregua ogni sorta di cibo quotidianamente, finalmente ero riuscito a sganciarmi, scomodo interprete, e a lasciar andare Wubit a casa sola con Fausto.
A lui sono capitati degli amici italiani in cerca di non so quale medicazione, e la Wubit è passata poi da noi a ritirare la borsa. Che dice a quelli di casa? “Marco mi ha lasciata tutta sola, senza dirmi niente!”
Allora a Debre Markos ho prenotato la matrimoniale per Fausto e lei, mentre lui ed i Genovesi se la sbrigavano con benzina e gomme, e le altre camere per noi.
Quando l’ha capito, mi ha guardato disorientata: “indee?” “ma come?”. Allora mi sono un po’ scocciato, amichevolmente, l’ho presa, tirata nella stanza, chiuso a chiave e le ho detto chiaro che da ora doveva sbrigarsela lei!
Se l’obiettivo della mia presenza qui era anche avvicinarla a “Dr. Faust”, non poteva andare meglio.
La mattina si è dimenticata il pigiama in stanza, davvero raro per una tipa superorganizzata come lei. “Marco, avevo tanto caldo e me lo sono tolto, ora come facciamo a riprenderlo?”
Beati loro, non so se non ho dormito dal freddo o per via di quel lettaccio, a Debre Markos!
Ieri siamo passati a Bahar Dahr, sempre di corsa. Il nome vuol dire “costa del mare”. Non è il mare, ma il lago Tana, sorgente del Nilo azzurro. Agli amici alpinisti non importa più di tanto, sono troppo di fretta. Riesco appena a portarli a fare colazione all’hotel di stato su quel promontorio a lago.
Piace a tutti. Per me non è un promontorio. È un vascello fantastico lanciato in un oceano di bei ricordi. Qui per tre giorni Giordy, Titti, Thomas e la Nicole hanno inventato fino a sera tarda avventure, tra canneti, alberi, fiori, viste sulle isole dei monaci, circondati da flottiglie di passaggio di barche di papiro. Anni fa. Per me, come ieri.
Stanotte a De Bark, la porta del parco dei monti Semien, ho dormito profondamente.
Ieri sera abbiamo pagato gli ingressi e dibattuto brevemente con un responsabile del parco.
Ci aspettavano. Il Fausto conosce gli austriaci che aiutano nel parco con progetti vari: vivai di piante per non abbattere le foreste, accomodazione per turisti, “vie ferrate” di puro legno d’erica ed altri passaggi facilitati realizzati localmente…Sapevano molto di noi, e ci hanno dato Getnet, guida senior, colto, degno della miglior tradizione alpina. In breve si modifica un po’ il piano di Fausto e Reinhardt, troppo duro, irrealizzabile nel tempo dato. I nostri due hanno mappe varie e le note di altri alpinisti…delle alpi, tra cui il loro amico Alberto Re, grande organizzatore di scalate e trekking in tutto il mondo, passati anche loro di qui.
Stamane partenza per Sanka Ber, da lì tende, sacco a pelo e da montagna e…gambe, l’avventura comincia.
Da Sanka Ber a Ghich, secondo giorno
Trentotto chilometri di pista per arrivare a Sanka Ber. Da qui il parco si fa unico. Sotto il lungo costone si vede lontano, siamo oltre i tremila metri, sotto c’è uno di quegli strapiombi tipici dell’Etiopia, vasti, aperti, profondi almeno un migliaio di metri. Sotto si vedono fasce diverse di vegetazione, ognuna di un colore distinto, a seconda del fiore che vi domina ora.
La strada attraversa un corridoio di specie protette. Non dovrebbe passare da qui, ma intanto c’è ed apre l’accesso a molta gente oltre il parco, gli ultimi, i più lontani.
Incrociamo una densa famiglia di babbuini Gelada. Il nome in amarico ha poco a che fare col freddo in cui vivono, quasi mai sotto i 3500 metri. Chilada, il nome originale, vuol dire selvatico, irraggiungibile. Esistono solo in Etiopia, di selvaggio hanno le chiome lunghissime, forse a proteggerle dal freddo. Altrimenti sono scimmie calme, quasi addomesticate, per nulla turbate dalla nostra presenza, dalle tante foto, dal Pio che va quasi a scacciarle apposta. Si buttano dal pendio e si rotolano come fossero scimmie di pezza, o di gomma, i piccoli più dei grandi. Fanno un gran chiasso, si mettono in mostra, litigano. Proprio come noi. Fosse che… discendano dagli uomini?
Sanka Ber è uno sperone di roccia sormontato da capanne di pietra, un rifugio del parco. Qui lasciamo le auto, ormai ad oltre 900 chilometri da Addis Abeba, scarichiamo le masserizie.
Tra arma et impedimenta si caricano ben otto muli, guidati da sette mulattieri. Mulu, la cuoca, va con loro.
Getnet, la guida, sa di scienze naturali ed un po’ di geologia. E’ attento alla gente, rispettoso di ognuno, molto professionale. Sul Ras Dejen è salito più di settanta volte. Di escursionisti, ne ha conosciuti di ogni paese, di ogni tipo.
Zewdu, lo scout armato, chiude il gruppo. Chiacchiera assai, tra la disapprovazione dei veri alpinisti, pronti allo sforzo e meno a sciupar fiato. Così attacca bottone con me.
Per i nostri compagni esperti, quella di oggi è una camminata di assaggio e di riscaldamento. Non dura più di sei ore.
Zewdu – Cascate del Jembar
Getnet é basso ed un po’ curvo. Ha quarantasette anni, ci ha detto. Ma ne dimostra di più. Forse i denti per nulla curati, ha la figura di un anziano. Gli anziani contano, e Getnet si dà da fare in positivo. Ci racconta di cinque scuole ed almeno tre chiese che segue. A volte è riuscito ad avere aiuti, per qui notevoli, da turisti di passaggio. Nel cammino ci precede e chiude il gruppo, a seconda delle situazioni. Sbuca da chissà quale scorciatoia, ci tiene sempre sotto controllo, gregge di buoi di particolare pregio. Può rivaleggiare e battere in salita persino Reinhardt.
Getnet ci fa infilare un canalone digradante, poi una salita. Dietro un angolo di prato, compare una cascata, dall’altro lato di uno strapiombo. Quanto sarà alta? Oltre 500 metri, avvisa Getnet. E’ uno spettacolo piuttosto effimero, fra un mese o due, quando questo eden verde sarà diventato giallo ed argenteo, si sarà asciugata.
Costeggiamo il rivo che la forma, finché ad un certo punto lo si deve attraversare. Passo per primo.
Qualcuno mi vuol far strada, ma mi chiude l’accesso col piede ad una roccia del guado, e ci casco con una gamba. Su, dalla prima salita, per asciugarmi. Arrivano gli altri, per loro, roba da poco. Dino però forse per un attimo dimentica i suoi 67 anni, o segue il ragazzino davanti, lo stesso che mi aveva tradito, che saltella come una capra di montagna, e non ha scarpe ingombranti. Dino infila al volo lo stesso sasso, ma cade malamente. Da sopra strillavo un consiglio, visto che mi ci ero già inzuppato. Lo vedo prendere una gran spallata su una roccia, penso al peggio. Scendo un po’ malvolentieri, pensando alla risalita. Giro l’angolo di un trovante caduto a bordo del rivo, temendo guai seri. Nulla, Dino si è già praticamente rivestito, da testa a piedi, con tutti i ricambi che ha nella borsa. Per gli esperti, un’altra occasione per redarguirmi, e di insegnarmi la montagna: “Se capitava a te, o ci andavi nudo, in cima, o con i vestiti fradici!”. Eh, hanno davvero ragione, nel sacco ho solo l’acqua, un po’ di cibo “da corsa”, una canottiera, il cappellino, e nemmeno gli occhiali da sole!
guado
Dino Romano è il presidente del CAI di Genova o lo era fino ad un paio di anni fa, ora fa da vice.
Vedo nei suoi occhi che questa Etiopia gli piace davvero, e me ne sento orgoglioso. Lui ha girato le montagne del mondo. E’ guida di sci alpinismo, e fa parte di un consiglio di dodici “saggi” che guidano il Club Alpino Italiano. Ha la faccia ed un guizzo negli occhi chiari da uomo di classe, un leader, contento di fare il nonno con diversi nipoti, nel suo chalet in Valle d’Aosta, davanti al Rosa.
Pio Costa ha il viso da vero ligure, lungo col naso diritto quasi francese, tosto e rugoso, come quelli che di mare ne hanno fatto anche troppo. Sento che ha un cabinato di dieci metri, e che veleggia per il mediterraneo. Non ti metti la crema solare? “Bèlin io di creme non ne ho mai messe”
“Tu mi sembri un vero ligure, somigli al mio bagnino da ragazzo, Baciccia – e comincio la mia gaffe – se volessi trovarti un altro lavoro, potresti benissimo lavorare in spiaggia. Dino mi pare invece un ligure nobile, di quelli che avevano villa in Via Garibaldi”. Loro si guardano e si danno una spallata, sento sottovoce “non diciamoglielo, lo deluderemmo”.
La mia “buca” non era migliore di quella di certo Bepi barista, quando tale Briatore aveva ancorato al porto di Genova con una sua miss nera molto popolare in Italia. Bepi se la vede entrare al bar, la squadra per un po’ ed attacca: “Belìn, ma quella lì è troppo bella per lavorare sulle barche, dovrebbe fare l’entreneuse”. Dopo un po’ qualcuno gli porta una rivista con la Naomi in copertina o da qualche parte dentro, e gli fa una lezione di “celebrities”.
Scopro poi che gli antenati di Dino venivano da Napoli.
Chiedo, a completare la gaffe, quasi per scherzo a Pio se ha a che fare con la famiglia Costa della Costa crociere, visto che sa tutto di mare. Risponde “L’abbiamo venduta, bene, prima che la concorrenza americana ci mettesse in crisi”.
Pio era anche il depositario degli accordi fra le grandi compagnie navali che solcano tutto l’Atlantico, organizzava le conferenze marittime, cartelli per la gestione di rotte, di interi mari.
E’ andato presto in pensione, avrà forse dieci anni meno di Dino, e con lui se la spassa in giro, in barca per il mediterraneo, con il suo fuoristrada Mercedes nel deserto tunisino o libico a capodanno, al monte di Portofino per una escursione in giornata, o per due o tre giorni in canoa lungo la costa di qualche isola greca, con la tendina ed il sacco a bordo, dormendo sulle spiagge.
Si sale, e comincia a poco a poco, lungo una valle dove qualcuno le ha anche strappate ed usate per fare una divisione tra campi contigui, la zona delle Lobelie. Piante maestose con la parvenza del cactus tipo Saguaro, alte tra tre e sette metri, hanno in verità una chioma di foglie a palmizio sottile, ed il “cactus” sopra è una lunga infiorescenza, che presto cade. Sembrano alberi, ma sono erbacee, il loro legno somiglia più ad un fusto di banano, leggero, come vuoto.
Tardo pomeriggio, passiamo un villaggio, Ghich. Ci dicono che il campo è un po’ sopra.
Tempo per un’altra pausa, dopo quella al guado del rivo più grosso sotto, dove Dino si era cambiato.
Compaiono tanti bambini, come ogni volta che ci si ferma. Qui poi, sbucano a decine dalle capanne. La loro è una vita isolata, montana, senza nulla. Basti il cibo che il buon Dio qui generalmente non nega. La scuola è lontana, ragazzini e ragazzine sono tutti a piedi scalzi, sotto vestiti invariabilmente lisi o stralci. Qualcuno vanta un raro tallero d’argento come pendente, con il petto abbondante di Maria Teresa d’Austria, di quelli che il Duce fece coniare a decine di milioni, comprato il punzone del 1780 in Austria, perché gli Eritrei non volevano i talleri del Re, dove non c’erano il petto né la fibbia per verificare al tatto lo stato della moneta, che valeva solo per il suo peso di metallo. Tutti vociferano e mi stanno intorno. Allora provo il vecchio scherzo di guardare un piccolo solo fra tanti con occhi cupi, tentando di mettergli paura. Tutti gli altri ridono. Continuo mettendo i più vicini in guardia, potrei essere un mangiatore di bambini! E tra le risa dei più e la paura di alcuni faccio finta di mangiare le orecchie di una bambina dal sorriso chilometrico che mi capita vicino.
Ma è ora di andare, mi alzo, nemmeno tanto di scatto, e la cosa provoca un fuggi fuggi e la caduta di diversi bambini che schiamazzano e si divertono ancor di più fra loro. Getnet, la guida, mi chiede di non farlo più.
Mi guadagno però un seguito: la bambina dai troppi denti, il sorriso più lungo del villaggio ed un’altra con gli occhi dolci, credo malati, mi seguono imperterrite, fino al campo.
Al campo si montano le tende. Sto con Reinhardt, che ha una tenda super, con tanto di “porticato”, dove sistemiamo le borse anche di Fausto e Wubit, dentro è larga , si monta in un attimo, è la più solida delle tre.
C’è un tucul, una capanna grande, con tetto di paglia e pavimento in cemento, dove Mulu ha attrezzato la cucina. Ci sono altri turisti, e la troupe dei ricercatori dell’università di Berna, arrivati poco prima di noi, ha occupato una grande zona con una casetta fuori. Il posto si fa stretto. Si accende un bel fuoco in mezzo. Tremilaseicento metri. Fa freddo, inizia a piovere. Per fortuna le tende sono montate. Abbiamo ogni genere di vettovaglia, dalle albicocche secche liguri alla carne in scatola etiopica, al pane sudtirolese, fatto in casa dalla moglie di Reinhardt partendo da tre antichi tipi di frumento, sfarinati con il mulino di casa.
Mulu, cuoca
Pio domanda a Fausto un po’ di cose sulla cooperazione nei paesi poveri. Inizia una lezione.
Alle sette e mezza, massimo alle otto si dorme. Per così dire. A me sembra che qualcuno continui a sbatacchiare la tenda, a sessanta centimetri dalle mie orecchie. E’ il vento, poi la pioggia, verso mattina, mi pare nevischio. Non si dorme, ci si riposa, distesi.
Sera a ghich
Da Ghich a Chennek, la crisi
Sveglia alle sei, colazione prima delle sei e mezza, partenza prima delle sette. Io credevo di farmi la barba, ma dopo aver cambiato la lametta ed averla sepolta bene, non trovo i ricambi! Vago confuso con la faccia da clown innevata di spuma tra le tende. I soliti bambini mi guardano perplessi.
Perdo tempo e mi becco un mezzo “cicchettone” dal Fausto. Insomma, farò come gli altri, la barba rasata come premio alla fine dell’impresa.
Si va dove ci porta Getnet, non ho un idea precisa. Meglio, è tutta una scoperta. Costoni in salita, poi un lieve discesa tra sassi ed l’ennesimo bel rivo dalle coste zeppe di fiori: labiate blu, gli immancabili fiori della croce, uno dei simboli dell’Etiopia, per ogni etiopico il simbolo della fine delle piogge e dell’anno nuovo, che qui comincia il nostro 12 Settembre.
Gli altri allungano, resto indietro, ci si avvicina ai 4000. Mi scopro le dita gonfie. Vedo prima gli studenti di medicina tedeschi, poi i nostri sulla cima dell’Immetgogo.
Wubit ha raccolto una curiosa storia sull’origine del nome. Una mamma, Immet, cercava il figlio sperduto forse dal villaggio di Ghich, ormai lontano. Lo chiamò per tutto il giorno. “Gogo, Gogo!”.
Solo alla fine della giornata, arrivata in fondo al costone di roccia tanto lungo che ho davanti ora, sentì un debole “Immet”. Si erano ritrovati.
In cima mi sento sollevato, ringrazio Fausto, grazie a lui sono qui, in fondo. C’è una vista estasiante, come l’aria fina. Fausto mi toglie l’anello, deciso. O te lo togli ora, subito, o passerai un guaio! Per fortuna se ne esce senza troppo sforzo.
L’Immetgogo è affiancato da tre costoni simili, di nuovo salire, scendere. Passiamo le sorgenti del rivo che forma, poco sotto le cascate di ieri, quelle alte cinquecento metri. E’ una zona di erbe più alte, la fastuca endemica di qui ed altre, a volte gli scarponi sprofondano. Poi, una salita ripida, tra le eriche arboree. Sono staccato da tutti, e Getnet mi fa da balia. Di nuovo una salita, meno ripida, anzi un pendio lieve molto lungo, più facile. Il gruppo si è fermato, riposo, o attesa del ritardatario. Non mi posso fermare, allungo il passo. C’è Zewdu l’armato, tifa per me. Allungo di più, stacco tutti di molto, spreco troppe forze. Siamo ancora a diverse ore di cammino, forse tre, quattro, dalla meta di oggi. Dopo il “pranzo”, un panino, salame, carne secca, cioccolato, si riparte. Io sono subito indietro. Mi aspettano ad un ora di marcia. Passiamo di fianco allo strapiombo, ci mostrano lontani gli stambecchi del Semien, sono dello stesso genere dei nostri, non molto diversi, vivono solo qui e su di un’altra montagna verso Addis Abeba, il Mahal Meda.
Da almeno mille metri sotto sale altissima una nuvola, si perde nelle altre forse duemila metri sopra.
Cos’é, Getnet? “Gum”, traduce, “nebbia”. La “nebbia” salendo si impiglia tra le minuscole fronde dei licheni che adornano tutte le eriche, moltiplicando la loro capacità di trattenere acqua. Qualche naturalista deve aver tramandato che sono radici aeree, un mezzo delle eriche per assorbire acqua. Noto però che crescono anche sui sassi sotto, a volte, dove sono più dense. Devono essere invece parassiti, o ospiti delle corteccia di questi alberi da macchia, che fanno somigliare il bosco stranamente ad un oliveto ligure, abbarbicato a strapiombi disumani.
Il dirupo si indovina, non si vede più. Sta appena di fianco al nostro cammino.
“Marco, allora?” “Non ce la faccio, ho un…debito formativo…nelle gambe!” Sì, non vado mai a piedi, altro che marciare per dieci ore. L’unico sport che faccio è il nuoto, buono solo per il fiato!
“Se potessi andare con le braccia, in quelle ho forza”. Reinhardt mi guarda perplesso, scuote la testa. Fausto mi presta le racchette.
Sono in piena crisi. Scendere è un problema, quasi più che salire. Gambe legnose, passi brevi, Getnet si ferma con me. Finalmente mi indica un tornante della strada, vi scendiamo, “Chennek è la dietro”. Manca poco al buio. Avrò camminato quasi dieci ore.
La nebbia circonda il campo. Intorno, un prato di “tossign”, il timo etiopico. A dispetto delle regole, Getnet me ne raccoglie qualche piccola foglia, tra milioni. Mi prepareranno un tè con quello, medicina aromatica, rilassante.
Da Chennek ad Ambicco
La legge del gruppo per propria sopravvivenza prima sostiene i membri deboli, poi duramente li esclude.
Fausto, sotto pressione per la mia defaillance di ieri, concorda con Getnet due programmi distinti.
Tra Chennek ed Ambicco c’è un passo a 4.200 metri, e di fianco la cima del Bwait, oltre 4.400 metri, seconda vetta dei Semien.
Gli altri partono prima, immediatamente dopo la colazione nel campo, direti a cima Bwait.
A noi tocca una breve attesa, verificare lo smantellamento delle tende. Sopra di noi, il campo dei “gentlemen and ladies”. Inglesi veri, attrezzati come per una reale scampagnata. Una tenda a più padiglioni fa da sala pranzo e salotto. Al nostro arrivo era già attrezzata con tavoli, candelabri, té e persino vino italiano! Solo due chiacchere con uno di loro, 3.000 sterline spese bene, sostiene il docente di Sheffield, lo stesso giro che a noi locali costerà 300 euro biglietto aereo escluso. Una chiacchera più approfondita con due signore con aria da etiopiche distinte, e piedi gonfi. Più tardi ci diranno che una é la moglie del ministro del “Capacity Building”, nome preso a prestito dal più grande studioso di povertà, Amartya Sen di Oxford. Ministero di tutto e niente, in un governo di militari mal sopportato dalla gente.
Mulu, Wubit ed io saliamo lentamente al passo. Incontriamo prima l’auto di un etologo. A poco dal passo, in una bellissima gola sul dirupo, il ricercatore ci ferma. Risponde al mio saluto in un amarico davvero molto inglese. Per sfondo, la risata di un grande barbuto regista BBC, calato diretamente da Bush House, London, con aria cordiale, divertito dal colloquio in ostica lingua dei due “ferenji”, bianchi contrapposti sul ciglione. Deciso, ci invita a deviare. Wubit si scoccia un po’, come a difesa del diritto di “ramblers” sui terreni di un padrone latifondista o colonialista.
In fondo, presenterà a tanti le nostre montagne, i babbuini Chilada, il suo ordinario lavoro di etologo di scimmie. Capisco non sappia trattare con lo stesso tatto anche la gente.
Scollinato tra la nebbia, convinti di non aver perso la vista negata anche agli altri dalla cima del Bwait, scendiamo verso la bibita promessa dall’armato Zewdu a Chiro Leba. Il paesino é dimenticato sulle carte, ma non dal Root Card System della Coca Cola Company. Poco dopo il passo la discesa é dura. Incrociamo molti muli carichi di granaglie con la bandiera a stelle e strisce e la scritta US AID. Mi rispondono che é grano degli aiuti, venduto dai mercanti ai lontani abitanti di Beyuda, oltre le montagne.
Ci consolano nella durissima discesa, interminabile, campi di un fiore raro, composita, alta bandiera sotto bianca, poi gialla, rosso fuoco in cima. I fiori ed arbusti italici hanno nomi qualunque, tipo Primula vera, o Myrthus communis. Questa stupenda specie affine all’aloe si chiama sbalorditivamente Infofia fluffia.
Lavoro di una fantasia fuori dal comune, o tributo alla rarità ed alla bellezza del fiore?
Ragazzini dalle suole nude, piedini dalla pelle rotta da giornate di corsa tra i dirupi tra scuola, capanna e pascoli, ci seguono offrendo un mulo.
Ricordo il Gian Gian. Ci eravamo incontrati tra vocianti ragazzini vestiti di GoreTex, scarpe in tono con l’attacco Solomon, a Cunardo sopra Varese. Lui aveva allenato Stefania, cuneese pluriolimpionica, fondista di sci.
Inventavo ad alta voce un sogno assurdo, formare fondisti etiopici. L’ho rivisto poco fa: “ma dove ti eri cacciato, ho preparato gli ski-roll, quando mi mandi i ragazzi?” Mi aveva preso troppo sul serio. Bisognerebbe partire da ragazzi molto giovani, per non ripetere l’errore della Nike. Con che soldi potrei io, poi? La nota marca americana delle scarpe di lusso fatte in…Vietnam, cavalcando idea e successo dei giamaicani del bob finanziò due kenioti. Erano fondisti a fine carriera con l’ètà riazzerata. Tiravano in piano ed un po’ in salita, ma pare centrassero gli abeti in discesa…
Guardo i ragazzini di un altro gruppo, usciti da scuola, passarmi, scivolare sui sentieri. Forse ha ragione il Gian Gian!
Finalmente Chiro Leba. La Coca c’é davvero, come la Pepsi. Civiltà. Posso comprarmi una pila Tiger, ad ottanta centesimi di euro, pile comprese. Mi mettono su un mulo. faccio una foto a Wube, salita sul mulo solo per un secondo. La foto sarà usata contro di lei dal gruppo dei puri e duri, che la accuseranno di aver mollato, come Marco dalle gambe indurite.
La sella é ostica, ma il mulo forte. Si scende ancora, si guada un rivo, si sale per Ambicco.
Supero ingranando le ridotte Mulu e Wubit in difficoltà, sotto il sole in salita. “come va, Wube? Non sali sul mulo?”
“E’ davvero tosto… no, grazie”.
marco in sella – 4531!?
Entro trionfalmente quasi travolgendo un palo divaricato nel recinto della chiesa ad Ambicco. Fischi del gruppo e foto disonorante sul basto. Culo rotto ma onore intonso “Beh, io da vero etiopico benestante mi presento a cavallo, da noi i “puverasc” come voi vanno a piedi”. Battuta a vuoto. Si prepara il consesso serale a mia destituzione.
Getnet mi aveva preavvisato. Apre il discorso Dino, chiaro, a tutti: ci dispiace dover constatare lo stato di Marco. Era meglio lasciarlo a casa. Fausto si scusa: la colpa é mia, non dovevo portarlo. Io lo discolpo, per stare al gioco, ma in vera amicizia: non ha avuto il tempo di valutarmi, eravamo oberati dal lavoro entrambi. Chiude Dino: deve aspettarci, non può salire in cima. Getnet ti ha preparato un percorso alternativo, andrai con Mulu ed i muli ad aspettarci a Menta Ber. Mi oppongo deciso: ma sto meglio di ieri, ho preso il mulo solo qui sotto (bugia). Mi ero preparato, dato l’avviso di Getnet. L’avevo scoperto da poco, e gioco la mia ultima carta. “Ho saputo che si può arrivare in cima anche col mulo.”
Già, incalza Reinhardt, ma il mulo non può scendere da lassù, abbiamo una giornata di 11 ore, non ti possiamo aspettare nel buio, é per te. “Ma il mulo può anche scendere, con me in sella , per due terzi del cammino”.
Getnet, forse solo perché molto spinto da Zewdu, trova un compromesso. “Marco può salire col mulo solo fino alla sella a 4.300 metri, poi ci aspetterà lì. Ma dovrà affittare il mulo anche per i due giorni seguenti”. Accetto, deluso del pollice verso del gruppo, deciso in cuor mio a salire comunque. Usciamo dalla capanna. Ci eravamo accovacciati su vecchie pelli straunte, qualcuno si era lamentato delle pulci. E’ una capanna abbandonata, usata solo dai turisti di passaggio, pioviggina e da dentro si vede il cielo, qualche goccia entra. Certo, meglio le tende.
Ancora due chiacchere fuori. Fausto continua, su richiesta di Dino e Pio, racconti sul Ruwenzori. Dino parla di Nepal.
Ora collego: é lui Fausto di Kalongo, il medico di Fiducia di Don Vittorio.
Vittorio Pastori, tra 230 e 250 chili di massa corporea, un grande cuore semplice e confusionario ad aiuto dei suoi “neretti”. L’uomo della foto di Prospero Cravedi che girò il pianeta, missionario laico bianco a fianco del “neretto” allo stremo, 40 chili scarsi, alto quasi come lui. Confusionario non nel ricevere aiuti. Un vero organizzatore, imprenditore di colonie estive della chiesa, del miglior ristorante di Varese, che ancora porta il suo nome.
“Onorevole Giulio, avrei bisogno di un aereo” chiedeva dalla casa di Lugogo bypass road, Kampala. E da Roma Andreotti di solito glielo concedeva. La sua cultura di attivista gli faceva buttare mezzi ed aiuti in imprese babiloniche, ma, negli anni ottanta, non c’era il master di Pavia. Gli italiani della cooperazione di solito non erano diversi da lui, ignoranti imprenditori della carità troppo proni a promuovere disastri.
Il “Vitturiun” soffriva nel grande corpo. Una sera Colin, freddo e chiaro, visitando le sue gambe annerite dal difetto di circolazione: “non scommetterei un penny che possa vivere ancora cinque anni”. Don Pastori, uomo dell’emergenza servì i suoi neretti d’Uganda ancora per dieci anni, con onore eroico quando si trattava di distribuire cibo nelle situazioni più dure.
Perplesso del medico scozzese di Moroto, si illuminava in volto dicendo: “ma io vado dal dottor Fausto, a Kalongo!!!”
Mi offrono un tè in più. Non dormo, per nulla, ripenso ad una strategia: li precederò col mulo, non potranno fermarmi. Disonore e rabbia, perché mi negano la cima?
L’ascensione
Cinque di mattina. La sveglia é un sollievo, non ne potevo più. Dovevo partire.
Si sale al buio con le luci frontali. Seguo con la torcia in mano, voltandomi spesso indietro.
Ma dov’é finito il mulo col suo mulattiere, unica mia speranza di riuscita?
Il gps del Fausto indica oltre 450 metri di dislivello da Ambicco, sorge l’alba. Zewdu mi segue e tifa, di tanto in tanto, ad alta voce. Decide di trovarmi un mulo sostituto. Sale come uno stambecco walia all’ultima capanna, trova il mulo.
Io continuo a salire, precedendo tutti. Odo un lontano battibecco. Getnet ha visto sotto il mio mulattiere. Apprenderò che aveva passato le ore antelucane cercando il mulo sulle cime, dispersa proprietà di altro pastore, mio fuoristrada negato.
Si monta su digradanti, lunghi pianori di un delicato verde. L’aria é purissima, profuma di erbette, aromi di fiori, timo. All’orizzonte altri picchi celano i dirupi, si vedono gli altipiani più bassi, pullulanti di fiori gialli.
Il Paradiso é così?
Catterina Mosso, proprio con due “t”, la nostra straordinaria vicina al monte Tabor a Varese stava morendo.
Ischemia cerebrale diceva il medico. Le tenevo la mano, parlò: vedo il paradiso! Si risvegliò, ma non ricordava nulla. Altri, numerosi, in simili casi hanno raccontato di aver visto prati degradanti verso una luce che nutriva d’immenso gente come seduta per un pic-nic. Tornò, dopo un istante in paradiso, alla sua vita al Tabor, ancora per un paio di anni, accanto al burbero marito, eremita tra i varesini, vestito sempre con lo stesso spolverino da esibizionista, bravo giocatore in borsa. Alla loro morte, lasciarono ad altri centinaia di migliaia di euro in titoli vari, inutile basto nei prati, lassù.
Ora si infilano tre canaloni. L’ultimo é così ripido che il mulo, anche sgravato da me, non riesce a salire. Farà una lunga deviazione. Dietro, gli altri cinque membri delle nostra spedizione, Zewdu e Getnet. Evito di farmi vedere in sella, scendo ad aspettare il gruppo, ben in vista, per mostrare di saper ancora salire. Fausto mi raggiunge, vuole la foto di Marco sul mulo! Si vede sopra una delle cime, bastione nord di una serie di tre di altezza simile. Si svolta a destra, la stretta valle si apre su un muretto, fortificazione di una antica guerra tra Tigrini ed Amara. Appena sopra la sella, in realtà un passo, incontriamo muli carichi di altro cibo e qualche antico moschetto.
Fausto e Reinhardt arrivano subito dopo di me. Sognano di metter tenda lì, chissà quando, dietro la fortificazione antica.
Il mulattiere si inventa che il mulo non può proseguire. Ricordo la restrizione impostami ieri. Pian piano mi avvio da solo.
Il sentiero può essere solo uno, tra rare lobelie, terra fredda che somiglia ad una sella tra due piste di sci. Ci sono qua e là lastre di ghiaccio sottile. Dopo poco Zewdu mi richiama. “Ahi, qui mi bloccano”, penso. Invece, mi manda il mulo, e mi indica il cammino. Di nuovo Fausto e Reinhardt, rapidi, mi passano. Giusto davanti a me, sopraggiunta Wube, le mostrano come salire in una larga fessura tra le due punte più alte, in realtà piatte in cima, stretta amba, la più alta di tutte. E’ un primo o al massimo un secondo grado. Chiunque può salire con attenzione, trenta metri di dislivello, forse meno. Arrivo in cima togliendo la parola di bocca al Fausto “Marco e Dino arriveranno certo molto tardi”. Anche Dino, arrivato ultimo in cima, mi complimenterà, quasi a scusa per ieri sera, ma stavolta starà a me correggerlo: “vedi, là sotto si vede il mio fuoristrada a quattro zampe motrici”.
Da quassù si vedono altri monti verso il Tigray, più bassi di molto, visuale sempre impressionante, ma limitata dalle altre due cime, il bastione nord e quello a sud-est, chiaramente più basse, ma di poco. Il gps legge prima 4509, poi sale, quando arriva a 4531 Fausto lo stacca. Ci siamo accorti dopo che tende a salire per almeno venti minuti, su queste cime etiopiche. Non siamo in grado di verificare l’altezza esatta, ancora sconosciuta. Un gps simile, visto da un altra guida incontrata sulla discesa segnò 4590, la spedizione italiana del 1937, decine di persone, col metodo barometrico, marcò i 4620 delle carte, mentre la topografia del parco, fatta dai bernesi, legge 4533.
Aspettando il Dino, compare un ragazzo vestito di pelli ricoperte di lungo pelo, emaciato. Non chiede nulla, ci osserva da una certa distanza. Io e Fausto ci guardiamo. Non eravamo riusciti a scommettere, perché entrambi avremmo messo qualche birr sul fatto che anche in cima al ras Dashen avremmo avuto visite. La gente, qui, pullula quasi ovunque.
Foto di gruppo, albicocche secche. Le ultime credo, biscotti dell’esercito italiano, pronti a scendere.
Fausto ci racconta dei Gipeti, grandi falchi con una testa grande come quella di un piccolo bambino, pronti a spaventare col volo radente stambeccchi ed altri abitanti delle alte creste, al limite ad urtarli per farli cadere e cibarsene.
Riprendo la sella. La discesa é interminabile. Getnet ci mostra in fondo ad una lontana valle uno scorcio del nostro punto di arrivo. Sparisce subito. Si scende rapidamente, poi si risale, più volte. In fondo, calici di valli praticamente irraggiungibili. Lì si nascondevano i guerriglieri, gli uomini che rovesciarono Menghistu, eroi rimasti quattrodici anni per sbaglio al potere, amministratori quasi privi di competenze al di là di queste valli chiuse.
Si incontrano erbe più alte, l’orzo, i fiori gialli. Bifidus micropodia, mi insegna Getnet, il fiore della croce, o adei abeba, il simbolo della primavera, alla fine della stagione delle pioggie. L’incredibile paesaggio ormai quotidiano si assapora meglio, ce l’abbiamo fatta. In questa discesa, comunque, davvero ogni scorcio é stupendo.
Finalmente Menta Ber. Ancora una volta, ospiti di un campo della chiesa. Niente doccia di pioggia pomeridiana, arriviamo al tramonto, undici ore di camminata alle spalle. Avevo lasciato il mulo mezz’ora prima. e camminavo spedito.
A sinistra, strutture come lunghi muri di pietre, in verità, pieghe geologiche diritte, finte opere umane tra orzo verde, papaveri rossi.
Entro al campo, come sempre già montato dai mulattieri che ci precedono per le scorciatoie, senza toccare le cime.
Buon umore, faccio un po’ di battute. Mi lavo in piedi tra bimbi divertiti dal bianco seminudo, approfitto della luce del tramonto per asciugarmi, sospeso su un pezzettino di prato, un po’ più vicino al cielo.
Pio aveva regalato la maglietta, ma continuava a grattarsi. Da un paio di notti prima Reinhardt, mio compagno di tenda, poi anch’io, lamentavamo qualcosa tipo pulci sulla pelle. Lavatomi, scopro l’eziologia, faccio la mia completa diagnosi, inizio l’unica cura possibile: schiacciare gli stramaledetti pidocchi del corpo uno ad uno, cercandoli dove si ficcano, tra le cuciture dei vestiti. Pediculus humani var. corporis. Fausto, isolato davanti alla tenda, brandisce il binocolo normale ed il binocolo fotografico ad un paio di gipeti. Non mi vuol dare assolutamente retta, mi dà del visionario. Non ammette neppure l’esistenza del parassita che ho trovato.
Per lui i gipeti sono una passione. Pilotava fino a poco fa aerei da turismo. Non potendo volare in Etiopia, ha perso il brevetto. Torniamo terra terra, a fil di pelle: i pidocchi del corpo, da noi scomparsi da due generazioni, o ridotti a rari casi tra la gente di strada ed i più poveri dei poveri, sono un vero tormento. Pungono in continuazione, nutrendosi di brandellini di pelle e grasso. Avviso tutti, Getnet mi raccomanda di ucciderli con cura e non riseminarli in giro.
Riposo meritato.
Da Menta Ber ad Ambi Walka
Da Menta Ber si percorre un costone, si risale tra i campi d’orzo. Piove, seguendo me il gruppo sbaglia sentiero. Forse, un sentiero non c’é. Turisti non ne vengono, di qui, massimo un gruppo all’anno, o due. L’orzo ci infracica da sotto, la pioggia da sopra. Presto torna il sole. Uso a piacere il mulo. Girmay, il mulattiere, é un diacono della chiesa ortodossa. Pretino di montagna, tiene alla sua gente. Passando nei paesini spersi, la conversazione con i passanti invariabilmente é centrata sui risultati scolastici, sui lavori per ampliare o costruire classi di legno e paglia. Diversi baciano la croce che tiene appesa sotto la maglietta.
Ennesima salita dura, lunga ore di cammino. In un paesotto un ragazzo si avvicina e chiede, veloce “weriugo?” Non capisco. Resomi conto che mi vuol parlare in inglese, rispondo canzonandolo un po’ in amarico. Tutti ridono sorpresi.
Il turista non dovrebbe parlare la lingua che, nata qui in giro, é diventata la lingua del paese.
Arkwasie é un paese più grande. Avvicinandosi si sente il rumore di un vecchio motore diesel lento. Colpi distanziati a ritmare la salita. Troviamo un mulino, dei telai all’aperto, fili a raggi ancorati come a terra, lunghi dieci metri.
Pausa panino e carne secca seduti sui tronchi nella “piazza”, davanti ai telai. Girmay, prete mulattiere, chiede permesso e sparisce con amici. Mi racconterà che era il turno dei suoi preparare la tella, birra di miglio. Mi raggiunge sudato e divertito.
Scendendo in radure di erbe più alte mi mostrano la casa di un tenente, responsabile della sicurezza nella zona. Era nell’esercito di Menghistu, non si capisce come sia riuscito a riciclarsi con i tigrini al potere.
Dietro un angolo Fausto e Wube si scambiano tenerezze.
Ambi Walka é un campo grande, di erba rasata dal clima e dalle pecore. Troppo bello, un sogno! A sinistra la cresta di Chennek, l’Immetgogo ed un susseguirsi di cime. Sotto, le lowlands.
Nel piano iniziale, studiato a tavolino in casa di Reinhardt, nella villa in ambasciata tra un piatto altoatesino ed un altro, pane tirolese fatto in casa e coronato di schnappes, c’era la possibilità di scendere là. Le lowlands richiedono altri otto giorni. Ma da qui Fausto e Reinhardt si staccheranno, domattina, per scendere ad assaggiarle. Risaliranno per le vie ferrate, ripide, a rincontrarci a Ghich.
Il campo é davanti ad una scuola serale per adulti. E’ un tetto di paglia, neppure muri di fango.
Dormo un po’ meglio. Il prato incredibile fa anche da materasso.
Da Ambi Walka a Chennek
Mattina sul prato di Ambi Walka. Ci dividiamo. Dino e Pio fanno una foto: “questo é il posto più bello del viaggio”.
Saliamo per un bosco di erica arborea, il più denso del parco. Il progetto austriaco prepara piantine in quattro vivai principali. La zona di pre-parco deve servire a dar da vivere ai circa 5-6.000 che anche nel parco vivono. Non si potrebbe preservare nulla di queste foreste, altrimenti. Il parco inizia solo per questo dirupo. Getnet andrà in missione fra poco, con il progetto di ampliare il parco alla cima del Ras Dejen ed alle zone attraversate in questi ultimi tre giorni.
La camminata é la più breve di tutte. Arrivati a Chennek, abbiamo il tempo di salire ad un poggetto con panca di legno, far due chiacchiere con Pio e Dino.
“Mechennek, techenneken”, da qui il nome del posto, traducono “patire, abbiamo sofferto”. Qui si rifugiarono esuli da antiche guerre. Ricordo la fatica del secondo giorno di cammino.
La sera é limpida. Le stelle non sono più vicine, ma il cielo é così terso che ci sembrano sospese in un gel invisibile appena sopra di noi. Cena nel tucul di fianco al pozzo. Wube aveva fatto bucato, anche per me, io una bella doccia sotto la pompa a mano.
Il freddo é molto. Non si dorme dal gelo. Wubit ed io abbiamo eretto una barriera di borsoni fra i nostri due sacchi a pelo. La tenda di Reinhardt mi sembrava più calda di questa di Fausto. Improponibile avvicinarsi, se non altro per tenersi caldo. Al mattino ci tiriamo un paio di cazzotti per riscaldarci.
Ghich al ritorno
I sentieri per Ghich sono facili, a parte qualche zona di fanghiglia, sotto l’Immetgogo. Lo scout recuperato sul posto sbaglia apparentemente strada però. Forse aveva capito che ci dirigevamo a Sanka ber, l’uscita dal parco. Così, a poco dall’arrivo, interminabile andirivieni nella valle tra Ghich e la strada del passo Bwait.
Arriviamo, dopo un rinfresco nel rivo sotto il campo, dopo Fausto e Reinhardt. Raccontano di una salita molto dura, circa mille metri di dislivello, e di una zona più lussureggiante, sotto. Le ferrate erano di tronchi d’erica, non sarebbero state una difficoltà.
Al campo incontriamo Iva, ricercatrice dell’università di Berna. Ci invita ad una passeggiata, al tramonto, ad una vista poco sopra di noi. Con lei, agenti di sviluppo locali ed Ato Menaghesha, commerciante con idee interessanti, ex coltivatore di cotone, uno dei promotori dello sviluppo nelle zone intorno a Gondar.
Mulu, Wubit ed alcuni dei mulattieri preparano il banchetto finale, il pecorone di rito ci aspettava.
Al campo c’é Andrea, sfasciacarrozze di Bologna, camminatore solitario. Fisico secco ed invidiabile, orecchini vari, aria da monaco zen e testa rapata. Racconta di viaggi in India. Con lui gli uomini di Morello, agente di viaggi ad Addis, Italiano d’Etiopia con un bel futuro, occupato ad espandere questo turismo crescente, insieme ad operatori dello stivale.
I due ragazzi sanno un po’ di italiano. Scambiamo qualche battuta sul mio ed il loro lavoro.
Iva manda un messaggero con un invito: tè da lei, dopocena.
Wubit dà sfoggio di arte culinaria, dal montone sacrificale una decina di piatti diversi, dalla trippa allo spiedino, dal consommè alle costolette.
Entriamo tutti nelle grandi tende della spedizione svizzera. Come prendere un tè nelle alpi bernesi.
La conversazione verte sugli aiuti in cibo. Riferiamo i due avvistamenti di muli carichi di cibo, al passo del Bwait e sull’ultima sella del Ras Dejen. Iva dice che in 60,000 sono alla fame in una zona inaccessibile, Beyuda, oltre le cime più alte. Una strada dovrebbe raggiungere la zona, ma occorre un tunnel, molto dispendioso.
Racconto la mia esperienza di produzione cerealicola nel Bale, del “mio” seme di triticale che molti apprezzano, dei furti gravi che il governo perpetra sui costi del trasporto degli aiuti internazionali, per legge demandati solo a parastatali del partito al potere. Fausto non ha voglia di tradurre il mio inglese a Dino, che, stanco, mostrava però interesse.
La mattina mi alzo prima degli altri. Faccio in tempo ad accompagnare Andrea il bolognese al punto con vista di ieri sera. Molti babbuini gelada, lontani stambecchi walia.
I babbuini gelada
Il cammino verso Sanka Ber non é breve. Più che altro percorre la strada sterrata che attraversa il parco per il lungo, verso il passo Bwait.
Verso la fine Getnet ammicca a Reinhardt e Fausto, taglia sul costone. Io li seguo, dopo un po’ perdo però contatto e cammino. Uscirò più tardi verso la strada. Fausto aveva accellerato molto, come a riprendere Reinhardt.
Da Sanka Ber, il rientro é in macchina. Le competenze di Pio, traversatore di deserti in fuoristrada, sono utili per assicurare con corde intrecciate ed un tirante il paraurti di Reinhardt, staccatosi per le vibrazioni di molte centinaia di chilometri di pista, e per risolvere la situazione generata da una foratura.
I castelli e la parte fascista di Gondar, davvero singolari, interessano poco a Pino, che dice chiaro: sono qui per le montagne. Ne attraversiamo tante altre, di fretta, scendendo verso Addis Abeba.
Fausto riprende lavoro al suo progetto, Reinhardt in ambasciata, Wube tra famiglia e squadra, io tra Addis e la fabbrichetta, difficile impresa tra i laghi vulcanici, sostegno di tanti piccoli contadini.
Dino e Pio offrono una cena di commiato. Rientrano stasera a Genova.
Giordy grande figlio, stai ancora praticando la chitarra? Continua. Un giorno ti porterai quassù la trequarti, leggera, a deliziare il vecchio papà ancora in vena di camminare. Lancerai assoli agli strapiombi. Non arriveranno a disturbare i voli dei gipeti, sacre ali nerazzurre sospese più in alto dei Semien.
In Cima
Marco
“Fausto”
Programma della Spedizione CAI Varese-Bologna: “Le Tre Sfide”, Ras Dejen 2000
Date tentative: 2-17 Settembre 2007 (Pagmi 1999-Meskerem 2000 Cal. Etiopico).
Linee guida: la missione comprende visite ad Addis Abeba, Bahar Dar e lago Tana, Gondar, Lalibela, Ankober, Debre Zeyt, oltre a sei giorni di trekking nei Semien.
Lo spostamento per via di terra permetterà di conoscere il territorio e visitare molte località significative sul percorso. Arrivare in quota lentamente ci aiuterà ad abituarci all’altezza. Il trekking non é molto pesante, ma richiede allenamento per essere piacevole e si raggiungerà una quota di oltre 4500m… da misurare!
Addis Abeba si trova tra 2.300 e 2.600m, sul fianco sud del monte Entoto. La strada che ci porta a nord oltrepassa per lunghi tratti i 3.000m con punte a 3.500.
Il periodo scelto coincide con il capodanno 2000 etiopico, ma anche con la possibilità di trovare un po’ di neve sulle due cime maggiori, il Bwait e il Ras Dejen.
Occorrerà equipaggiamento leggero da pioggia, la neve non supererà salvo rarissimi imprevisti, se presente, i 10 cm circa.
Tende ed equipaggiamento da trekking sono personali. Tende “rancio” e organizzazione cucina-vettovaglie per colazione e cena dell’organizzazione.
Occorrono:
Cibo “da corsa”, barrette, cioccolato, uvetta, frutta secca e noci etc. a piacere per i sei giorni di trekking, per le pause durante il cammino.
Diversi maglioni, nei campi più in alto la mattina ci si avvicina allo zero termico.
Equipaggiamento da pioggia. Si può usare un ombrello pieghevole, le mani sono libere.
Cappello ed occhiali da sole
Una piletta per la luce la sera e per poter iniziare l’ascensione prima dell’alba.
Posate, tazza e piatto personali.
Tenda personale. tana Tours, l’operatore in etiopia ne mette fino a 25 a disposizione di chi ne fosse sprovvisto.
Sacco a pelo
Sacco da montagna piccolo per portare con sé solo un ricambio, acqua e cibo da corsa oltre a camera fotografica o video e/o binocolo, borsone da affidare ai mulattieri con la tenda.
Giorno 1-2: un pernottamento al massimo in Addis e visite guidate, musei dell’Institute of Ethiopian Studies e Nazionale, primo impatto con i souvenirs locali da Haileselassie Alemayehu. Possibili partecipazioni a cocktail e presentazione spedizione a AF e IIC con il coinvolgimento di personaggi della cultura e istituzionali locali.
Giorno 3: prestissimo partenza in pulmini per Bahar Dar, sul lago Tana, sorgente del nilo azzurro. Sosta con commenti a Debre Libanos, visita all’antico ponte etiopico detto “Portoghese”. Seconda sosta al ponte del Nilo. Pranzo tardivo a Debre Markos. Cena e pernottamento al Lake Tana Hotel, in alternativa cena al Dib Anbessa Hotel, di Shibabaw, segretario del club Lion che il Viganò ha fondato a Bahar Dar e padre della nota popstar locale Gigi. Trasferimenti su Toyota Coaster Bus 28 posti comodi mezzi affidabili.
Giorno 4: visita mattutina alle isole del lago Tana e ai monasteri. Pranzo a Bahar Dar, partenza per Gonder. Visita pomeridiana-serale alla Camelot d’Africa, il Ghebì degli Imperatori. Potremmo, se i partecipanti fossero numerosi, tentare una rappresentazione storica Son et Lumiere all’interno della cinta dei Castelli, in comcomitanza con il capodanno 2000 locale. Pernottamento all’Hotel Goha.
Giorno 5: all’alba partenza per il Parco Semien. Sulla strada breve stop a Kosoye, località di una storica visita della Regina Elisabetta e dell’Imperatore Haile Selassie, e ad un villaggio dei falasha, residuo gruppo della popolazione ebrea a Quarra. Pranzo all’etiopica a De Bark, sede del parco. Ingresso nei Semien, spostamento a Chennek, in fondo al parco. Breve trekking pomeridiano nei dintorni, ricerca animali endemici e della zona. Il campo verrà preparato larrpima volta con i mulattieri, che dovranno prendere conoscenza con il nostro equipaggaimento. Sanno montare ogni genere di tende, ma ognuno avrà raccomandazioni particolari. I mulattieri ci precedono o seguono su cammini alternativi e prepareranno sempre i campi per noi, portando cibo e acqua e attrezzature. Nello zaino, solo: un ricambio, l’acqua, cibo “da corsa”, un binocolo e/o la macchina fotografica! Note ecologiche e tecniche del Prof. Viganò e della guida Senior, tra i fondatori del parco, Getnet Akalu.
Da Chennek si formano due gruppi, uno probabilmente piu’ numeroso al Ras Dejen via Ambikko, ritorno a Menta Ber. I misuratori, parzialmente indipendenti, dormiranno probabilmente in quota all’ultimo passo prima della cima o sotto l’ultimo bastione. Il secondo gruppo farà un bel pezzo delle lowlands, considerate la parte più spettacolare del parco, e la quasi totalità della regione alta e centrale del parco stesso.
Giorno 6-10 primo gruppo (assistono alla misurazione della montagna, trekking più lungo):
Primo giorno salita al Bwait, circa 4.430m. La strada da Chennek sale a 4.200m, il passo più alto d’Africa. dal Bwait si scende a Chiro Leba e si pernotta a Ambiko, il punto di partenza per la salita. Tra 6 e 9 ore di trekking. Si scende in una valle profonda. Dislivelli: Chennek Bwait +850, Bwait fondo valle circa -1.350, fondo valle Ambiko +600. Secondo giorno Da Ambiko al Ras Dejen, +1.050 circa, rientro su Menta Ber, costone verde con vista su entrambe le montagne scalate. Congiungimento presso la cima con l’equipe di misurazione. Lungo tratto tra la vegetazione afroalpina oltre i 4.200.
Terzo giorno da Menta Ber a Amiwalka, per i più provati dai primi due giorni duri possibilmente a dorso di mulo o bardotto. Si passa una zona stupenda ma più antropizzata, con il paesotto di Arkwasihe, passaggio verso il Tigray. Ami Walka é il paradiso personale del Viganò, un prato verde sospeso tra le cime a scogliera sui 4.000, addentellate, dell’Enatye e dell’Immetgogo e dell’abisso di Dirni e le lowlands sotto. Ho verificato che nell’anno tra i miei due trekking nei Semien era stata visitata sola da un altra tenda di trekkers.
Quarto giorno risalita a Chennek, proseguendo per Ghich, luogo di reincontro dei due gruppi.
Giorno 6-10 secondo gruppo: (visitano meglio il parco, piu’ animali e flora, trekking in un tratto (Dirni gorge) più impegnativo, ma in totale meno tratti percorsi.
Primo giorno con il primo gruppo per la mattinata al Bwait. Secondo la disponibilità di tempo tecnico dell’equipe di misurazione, si potrebbe anche conoscere l’altezza reale ed esatta del Bwait, ed eventualmente del passo stradale sottostante, per raccogliere il dato di base per definire due questioni:
1- il Bwait è la terza montagna d’Etiopia e la sesta d’Africa, o il Tullu Dimtu nel sud est etiopico la precede in entrambe le posizioni? Come si colloca l’Abba Yared, nei Semien oltre la valle davanti, dato per lievemente piu’ alto (dovrebbe essere il secondo del paese)?
2- il passo del Bwait é il più alto d’Africa transitabile con mezzi meccanici? Discesa ad Amiwalka, il prato stupendo descritto sopra nel tragitto del primo gruppo, pernottamento.
Secondo giorno da Amiwalka a Dirni, tappa alle porte delle lowlands, ricca di fiori, animali, uccelli. Terzo giorno salita dal Dirni Gorge – stretto passo un po’ impegnativo, “strada ferrata” di legno d’erica – e proseguimento per Ghich, nel cuore del parco e Sanka Ber. Quarto giorno tappa spettacolare e leggera tra Sanka Ber e Ghich, passando per le cascate del Jembar e per il punto panoramico del Kedadit.
Pomeriggio-sera giorno 10, ricongiungimento gruppi (il secondo precederà il primo di poche ore) e accampamento finale a Ghich. Faremo in modo di avere due telefoni satellitari per i contatti fra i gruppi, anche se un “Fidippide” etiopico potrebbe facilmente portare messaggi urgenti tra i due.
Ghich o Chennek, accampamenti a gruppi riuniti, sono i posti ideali per la consegna del contributo e la presa di contatto de visu con il progetto che sponsorizziamo.
In questa fase però l’attività é indicata come tipologia (una scuola in realizzazione o esistente), per la nostra partecipazione (in cash) e per i controlli sul buon fine del progetto (consegna diretta ai responsabili di un comitato scolastico che già abbia realizzato qualcosa di concreto e visibile, follow-up nei prossimi trekking preventivati), non per l’identificazione della realizzazione. Se la scuola fosse vicino a Ghich o Chennek, tutti potremmo essere partecipi. Altrimenti i fondi verranno consegnati e la presa di visione e contatto effettuata da uno dei due gruppi.
Giorno 11-14 rientro via Debre Tabor e Lalibela: un giorno e mezzo nelle chiese della Preghiere di Roccia, da oltre venti anni nella prima lista del patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, con visite nelle altre chiese rupestri dei dintorni, come Nakuto La’ab. La strada da Gonder a Debre Tabor é di una panoramicità spettacolare, passa per diversi monasteri, é quasi tutta oltre i tremila metri. Da Lalibela rientro per il passo del Terma Ber e le scarpate del Mahal Meda. Colazione al sacco sulla scarpata più spettacolare, dopo le gallerie “Mussolini”. Visita ad Ankober, prima vcapitale di Minilik ed alla tomba di un esploratore Italiano.
Giorno 14-15 ad Addis Abeba, pernottamento a Debre Zeyt (laghi vulcanici di Bishoftu), in un lodge su un lago craterico.
Faremo “turismo di sviluppo rurale” visitando progetti e l’economia reale, contatto con l’Etiopia che vuole ma non riesce a crescere.
In funzione del volo prenotato, se c’é tempo, eventuale notte extra ad Ambo e visita al cratere di Wonchi, o a Melka Konture al sito paleoantropologico e alla chiesa di Adadi Mariam, verificata la disponibilità dei ricercatori paleoetnologi.
PER CONTATTI:
PROF. MARCO VIGANO’
OPPURE: martinesglauco@libero.it