By Luciano Pieri
Originally Posted Monday, December 19, 2011
Da Niamey, dove atterrano i voli intercontinentali, ad Agadez, porta d’ingresso ai grandi Tenerè, ci sono mille chilometri di noia. Dodici ore di macchina in un territorio piatto, ricco solo di coltivazioni agricole, con un solo punto interessante, Abalak, il più grande mercato ad uso e consumo dei Tuareg.
Ad Agadez siamo nel centro del Niger, grande repubblica nord africana, quattro volte la superficie italiana. La città è quanto di più classico in fatto di urbanistica sahariana, case basse intonacate di bianco, vie invase da una eterogenea popolazione in maggioranza tuareg, poi bororo, peul, tebu, kanuri, hausa. Qui più che mai questa riflessione è vera: “quando visitiamo luoghi lontani pensiamo di muoverci nello spazio mentre in realtà ci spostiamo nel tempo”. Alcuni artigiani tuareg, i forgerons, un po’ fabbri, un po’ orafi, fondono strane leghe di metalli per fabbricare le “croci di Agadez” monili di una forma che ricorda la croce, diverse per ogni kel tuareg, che, portata al collo, definisce la loro tribu di provenienza. Su tutto, ad Agadez, domina un grande minareto di “banco” vecchio di cinquecento anni e da sempre faro di riferimento per chi arriva dal grande deserto.
Con guide tuareg, qui i veri signori, partiamo verso il nord per addentrarci nel grande gruppo montagnoso dell’Air, attraverso gli ighazer, le valli dove i nomadi vanno con gli animali in cerca dei rari pascoli stagionali. Ai piedi dell’Air si trovano le terre salate, completamento indispensabile per l’allevamento del bestiame, dove una volta l’anno nelle zone di In Gall e Teguidda n’Tessoum, i bororo ed i peul portano le loro mandrie per la “cura del sale” e per organizzare grandi feste, che almeno per pochi giorni, interrompono la loro ancestrale solitudine nel deserto. Attraversando verso est l’Air, ci attende il tenerè di Tafassasset, impressionante piatto di quattrocento chilometri di reg, dove la visione del mondo è un cerchio perfetto di 360°.
La sera, alle prime ombre, montato il campo per la notte, i tuareg rinnovano l’eterno e insostituibile rito del thè; nella loro tradizione tre sono le cose per fare un buon thè: il tempo, la brace e gli amici; e tre sono i bicchieri da bere: il primo amaro come la vita, il secondo dolce come l’amore ed il terzo soave come la morte. Una buona guida tuareg attraversa il tenerè di Tafassasset senza strumenti di navigazione, con l’unica indicazione che gli viene dalle leggere ondulazioni che un vento di direzione costante lascia sulla sabbia, fino a centrare dopo quattrocento chilometri, una piccola collina non più alta di sette/otto metri chiamata “l’arbre perdu du tenere” dove l’albero è costituito da tre arbusti assetati ai piedi dei quali furono deposte le ceneri del francese Thierey Sabine, ideatore della Parigi-Dakar, morto anni fa in un incidente proprio nel suo deserto.
Ci lasciamo alle spalle la balise 15, mitico riferimento cartografico della spedizione francese Berliet, che nel 1960 attraversò tutto il Sahara, da est ad ovest, per studiarne le caratteristiche geografiche, climatiche e storico-ambientali. Nella cittadina di Chirfa, la prima che si incontra arrivati ai piedi dell’altipiano roccioso del Jado, punto indispensabile per rifornirsi di acqua e di carburante, c’è ancora un vecchio forte della Legione straniera che il deserto sta col tempo riassorbendo. Poi giù verso sud, attraverso dune cedevoli come borotalco, fino alla cittadina di Seguedine, importante mercato per i contrabbandieri libici che arrivano dal Passo del Salvador, portando benzina, gomme, sigarette, elettrodomestici e perfino liquori; pur essendo qui tutti islamici, evidentemente qualche peccatore esiste. Sempre verso sud costeggiamo il massiccio del Kaouar fino a Bilma, storicamente uno dei punti più importanti del Sahara.
A Bilma, fin dal neolitico si è estratto il sale, prodotto basilare per la vita delle popolazioni del deserto. Il sale, oltre che per l’alimentazione umana, è sempre stato indispensabile per la dieta degli animali, per la tintura delle stoffe, per la fusione di metalli. Bilma è il punto di arrivo e di partenza della grandi carovane che partono dalle oasi di Agadez cariche di granaglie e di datteri per ritornare cariche di sale, dopo aver attraversato l’Erg du Tenerè e il grande Erg du Bilma. Sono le Azalai, formate anche da più di cinquecento cammelli, che stagionalmente attraversano il deserto; parola che affascina anche le persone più sedentarie e timorose. Alla parola deserto sono legate immagini che esercitano uguale attrazione: carovane, nomadismo, tuareg, oasi.
Le direttrici delle Azalai sono nomi che appartengono ad un mondo sconosciuto alla maggior parte degli europei: Timbuktu, Toudenni, Agadez, Arawan, Bilma, Fachi. Per centinaia di anni le Azalai attraversarono il Sahara portando: oro, avorio, schiavi e sale. Furono gli arabi, grandi esploratori, viaggiatori, commercianti, a tenere vive queste “vie” che univano il Mediterraneo al “Bilad-al-Sudan”, la terra dei neri. Ora, nel terzo millennio, rischiamo di perdere questo affascinante patrimonio culturale, null’altro sollecita la fantasia come la Azalai, qualcosa di profondo viene stimolato perchè l’idea del movimento, della migrazione, del viaggio è l’istinto ancestrale sito in ogni essere umano.
Diceva Bruce Chatwin: “La vera Casa dell’uomo non è una casa, è la strada, e la vita stessa è un viaggio da fare a piedi” e il poeta persiano Omar Kayaam disse: “la vita è un viaggio, chi viaggia vive due volte”, quindi che cosa, meglio delle carovane del deserto, racchiude l’essenza del viaggiare?
Procedendo a ovest di Bilma, attraverso uno dei più affascinanti deserti, il Tenerè, si giunge a Faschi poi avanti fino all’Arbre du Tenerè. Era l’unico albero in centinaia di chilometri quadrati di sabbia, una thala di discrete dimensioni, punto di riferimento di un pozzo, quindi tappa obbligata delle Azalai. Nel 1973, un camionista l’ha investita, sradicandola; ora fa triste ricordo di se al Museo Nazionale di Niamey e sul luogo dove viveva, un artista giapponese, l’ha sostituita con un albero stilizzato di tubi metallici, brutto e fuori luogo.
Sulla direttrice Albero del Tenere-Agadez, a sud dei monti Beguezane, c’è una striscia di deserto alta due chilometri e larga centocinquanta, che costituisce uno dei più grandi giacimenti di ossa fossili del cretaceo, risalente a cento milioni di anni fa. I tuareg lo chiamano, Gadoufoua, letteralmente “Il luogo dei serpenti di pietra”.
Scoperto intorno al 1950 dall’equipe francese Foureau-Lamy venne ulteriormente studiato da una missione scientifica italiana della fondazione Ligabue di Venezia, attualmente per giuste restrizioni governative, è difficilmente accessibile.
Il rientro ad Agadez è il coronamento di un grande viaggio, a distanza ci dà il benvenuto il vecchio minareto e come premio ci aspetta una cena al ristorante di Vittorio Gioni, un romano che abbandonò tanti anni fa il suo lavoro di bancario a Roma, per venire qui nel Niger, aprire due ristoranti, uno a Niamey ed uno ad Agadez dove un tempo c’era il bordello della Legione Straniera, sposare una bellissima tuareg e diventare famoso nel circuito mondiale dei sahariani.