By Ilaria Tabarelli
Originally Posted Monday, June 12, 2006
NAMIBIA – Agosto 2005Resoconto di Ilaria Tabarelli.
Immagini Pierluigi Creziato
LA PARTENZA
Volo Milano -Amsterdam-Amsterdam – Cape Town
La prima cosa che noto una volta in volo è la quasi totale assenza di volti africani sull’aereo. Mi aspettavo un po’ più di colore, ma a quanto pare, e ripensandoci non stupisce, gli unici sudafricani che possono permettersi di viaggiare in aereo sono di pelle bianca. E anche se non amo confermare i cliché, sono un po’ zotici, pallidi, e persino un po’ limitati. Ma forse sono ingiusta, e dico così perché ne ho uno seduto accanto davvero poco simpatico, che ha commesso il peccato imperdonabile di non farmi guardare il deserto dall’alto. Ha lui il posto accanto al finestrino, e anche quando gli ho chiesto se poteva aprire la tenda, l’ha sollevata per qualche istante e poi, con uno sguardo che credo volesse risultare ironico, ha detto “only desert” e ha richiuso la tendina. Ora invece stiamo sorvolando la Nigeria. Il commento acuto questa volta è stato “only bombs”… dubito che la conversazione possa farsi interessante. Chiudo gli occhi, forse è il momento buono per un pisolino. In un lampo mi tornano alla mente le immagini delle elezioni del 1994, quelle che sancirono la fine dell’apartheid e la designazione di Mandela a primo Presidente nero del Sudafrica. Immagini di uomini e donne in cammino dalle regioni più interne del paese, lontanissime, anche a livello culturale, dall’occidentale meccanismo del voto, in cammino, perché gli africani vanno a piedi, per contribuire al cambiamento, per riappropriarsi della propria dignità.
A suo tempo quelle immagini, diffuse dalla televisione italiana, mi avevano profondamente commossa, trasmettendomi tutta la dignità e l’enorme importanza della partecipazione individuale ad un evento di rilevanza, in quel caso, mondiale.
Sono un po’ inquieta, come sempre all’inizio di un viaggio… penso alle traversie che ha passato il mio compagno, partito per Cape Town una settimana prima di me: overbooking a Milano con volo Alitalia, poi bloccato due giorni a Londra per sciopero della South African Airways, quindi deviato su Johannesburg. Quattro giorni per arrivare a Cape Town… e il bagaglio chissà dov’è finito.
Purtroppo la sfortuna ci sta ancora attaccata: all’arrivo a Cape Town, infatti, scopro che il mio bagaglio è rimasto ad Amsterdam.
CAPE TOWN
Il primo impatto con Cape Town è estremamente positivo. Alloggiamo nell’ostello Long Street Backpackers, in Long Street, una strada molto alla moda. Le case sono dipinte con colori vivaci, con balconate e colonnine che ricordano molto New Orleans. A livello della strada è tutto un susseguirsi di negozietti di vestiti, musica, tessuti, perline, locali e ristoranti, tutto estremamente trendy. Gli inconvenienti di viaggio però si susseguono purtroppo a ritmo serrato: recuperati i bagagli, il mio compagno perde il portafogli con tutti i documenti, carta di credito e bancomat. Passiamo così i primi giorni tra aeroporto, polizia e ambasciata… l’atmosfera comincia a diventare pesante e non vediamo l’ora di ripartire.
Il tempo è variabile, fa freddo e piove spesso, con scrosci furiosi seguiti da sprazzi di luce che lasciano vedere la Table Montain, che si staglia alle spalle della città, le rocce aguzze spruzzate di verde. Presto però ci accorgiamo che anche in questa zona tanto “in” non è tutto rose e fiori. Sono molti i senza tetto, girano avvolti in coperte e trapunte muffite, spesso scalzi, lo sguardo vacuo, molti tirano di colla e ci colpisce l’evidenza di una apartheid che sopravvive di fatto, nonostante i cambiamenti che ci sono stati nel paese. Nei locali e nei negozi i clienti sono quasi unicamente bianchi, mentre i poveracci per strada sono invariabilmente neri.
In compenso, o a maggiore scompenso, è pieno di internet point, dove ci sentiamo subito a casa, ringraziamo il dio della rete e risolviamo non pochi problemi.
La sera scatta il coprifuoco, almeno per noi che giriamo a piedi e a cui sembra tutto forse più pauroso di quanto non sia in realtà. Rimaniamo inquietati da questi personaggi notturni avvolti di stracci, che sbucano da ogni angolo buio, mentre giovani sudafricane bionde girano tranquillamente su macchine fiammanti e sembrano non accorgersi della miseria al di là dei finestrini.
NAMIBIA
CAPE TOWN – AI AIS (FISH RIVER CANYON) – 722 KM
Quando, una settimana dopo, ci mettiamo finalmente in viaggio per la Namibia alla guida di una brillante Toyota Condor appena noleggiata, su Cape Town splende il sole, e dopo qualche giro a vuoto imbocchiamo la N7: circa 700 chilometri di strada dritta che ci porterà fino al confine con la Namibia.
Appena fuori da Cape Town gli spazi si aprono. Per qualche chilometro ancora, tentacoli di bidonvilles sembrano premere verso la città, finché non vengono sostituiti dagli ampi spazi dei latifondi. Ogni tanto si intravede una fattoria, lontano dalla strada, circondata da vasti campi verdi.
La strada scura prosegue diritta, tagliando distese immense, appena ondulate, prati e fiori in quantità, bianchi, gialli, arancioni e rosa. Nonostante i cambiamenti degli ultimi 11 anni, uno dei problemi centrali del Sudafrica resta proprio la questione agraria. Sono ancora evidenti
gli effetti delle leggi razziali che permettevano alla minoranza bianca di possedere la quasi totalità delle terre coltivabili (alla maggioranza nera, il 79% della popolazione, veniva concesso solo il 13% della terra coltivabile), prova ne è il fatto che dal 1994 a oggi, solamente il 4% delle terre sarebbe stato venduto ai neri. Tra le cause di questa situazione di stallo va annoverata senza dubbio la stessa politica del governo, che sostanzialmente riflette le regole del libero mercato, come ricorda lo slogan “willing buyer, willing seller”, regole che, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione, non aiutano certo la popolazione locale, che non ha il denaro sufficiente per acquistare a prezzo di mercato le terre dai grandi proprietari, in maggioranza bianchi, che possiedono aziende agricole ormai avviate e efficienti. La titubanza del governo, però, può avanzare mille spiegazioni e va considerata all’interno del complesso contesto dell’odierno Sudafrica.
Superiamo qualche sparuto gruppo di case, e non ci si può credere che sia lo stesso paese segnato sulla mappa come fosse una cittadina. Contro ogni previsione riusciamo ad arrivare al confine al tramonto e il passaggio alla frontiera dalla cittadina di Noordoewer è rapido e indolore. A pochi metri dalla dogana ci troviamo a costeggiare l’ennesima bidonvilles. Nella luce calante i ragazzini giocano a pallone, sullo sfondo di case di latta.
In Namibia si è avanti di un’ora e viene buio presto. In un attimo il cielo si riempie di stelle e noi ci troviamo ad ammirare per la prima volta il cielo australe dalla C10, la pista che porta ad Ai Ais, dove faremo la nostra prima tappa.
E’ uno spettacolo. Siamo solo noi nell’arco di chilometri, nessuna luce artificiale penetra l’oscurità luminosa. Risaliamo in macchina, i fari illuminano lo sterrato e i vari animaletti che sbucano dal buio.
Impieghiamo circa un paio d’ore per raggiungere l’Ai Ais Hot Sprins Resort, arriviamo appena in tempo per mangiare qualcosa al ristorante, che chiude tassativamente alle 22.00, meno male altrimenti avremmo dovuto digiunare.
La prima notte in Namibia ci dà un primo assaggio del freddo che dovremo patire per tutta la vacanza: in tenda con dei normali materassini di gomma sottile ci rendiamo conto di avere sottovalutato lo sbalzo termico di cui avevamo letto sulla guida.
L’indomani curiosiamo un po’ attorno. Il piccolo complesso comprende ristorante, terme, shop e ufficio, cui si aggiungono una ventina di stanze per gli ospiti, ampi prati per i campeggiatori e, un po’ discosti, i prefabbricati dove dormono i locali che lavorano lì. Siamo in una conca rigogliosa… fin troppo, infatti scopriamo che qui le alluvioni sono cosa frequente. Circondati da grandi rocce rosse punteggiate di licheni facciamo il bagno in piscina e nel pomeriggio proseguiamo il nostro ozio all’interno delle terme, una piccola struttura dall’aria vagamente sovietica, ricca di getti caldi e idromassaggi, con tubi colorati ma un po’ scrostati che corrono lungo i soffitti.
A parte il piacevole e rilassante ozio delle terme, uno dei motivi che ci ha condotti qui è il desiderio di visitare il Fisch River Canyon, che si dice sia il più grande del mondo dopo il Grand Canyon americano. Da Ai-Ais ci dirigiamo dunque verso Hobas, il punto più settentrionale di accesso al canyon. Superato un posto di controllo si è liberi di costeggiare la gola, raggiungendo con il proprio mezzo i vari punti d’osservazione. Tortuoso e imponente, il Canyon si snoda per chilometri ed è davvero incredibile. Ammiriamo dall’alto questo sorta di enorme labirinto di rocce, le pareti che da viola diventano rosse, marroni. Sul fondo, in lontananza, l’acqua è verde, ma a Hikers’ Viewpoint, un cartello posto all’inizio del sentiero vieta la discesa senza una guida, si tratta evidentemente dell’itinerario di 85 km che porta fino ad Ai-Ais, con 5 giorni di cammino.
Passiamo tutta la giornata a girare per questo anfiteatro gigante, osservando le sue agavi color ruggine, le piccole piante grasse che somigliano a margherite rosa. Al tramonto le rocce sembrano brillare, calde e rossicce, peccato duri poco. Il sole infatti cala rapidamente, e l’oscurità ci riconduce alla base.
Al ritorno al campeggio veniamo invitati a cena dai nostri “vicini”. Si tratta di una famiglia di Sudafricani bianchi che ci hanno inspiegabilmente preso in simpatia. Ci raccontano subito della loro attività: il marito è proprietario di una delle tante aziende vinicole del Sudafrica, la moglie è segretaria in una grande azienda. Ci descrivono la loro casa a Cape Town, una grande villa, naturalmente con piscina, con l’immancabile cartello “armed responsed”, molti cani, agiatezza.
Il discorso cade subito sulla situazione attuale del Sudafrica, che i nostri ospiti tengono ad illustrare, naturalmente dal loro punto di vista, a noi in quanto bianchi e stranieri. Secondo loro, dopo la fine dell’apartheid, cui pure si dichiarano moralmente contrari, si è instaurato una sorta di controregime, per colpa del quale i giovani sudafricani bianchi faticano a trovare lavoro, e mentre le posizioni più importanti dei vari settori dell’economia sono riservate dalla politica delle quote alla popolazione nera, questa manca però totalmente delle qualifiche necessarie. Per questo l’economia del paese sarebbe ormai in rapido declino. Il fatto che la maggior parte di una popolazione che fino a pochi anni fa veniva privata dei diritti umani fondamentali, non abbia ancora sviluppato lo stesso grado di preparazione dei suoi persecutori, ci sembra una conseguenza abbastanza prevedibile e scontata. Ciò che al contrario scontato non è affatto, è come tale realtà vada affrontata, soprattutto a livello politico. Abbiamo infatti modo di constatare che i proprietari bianchi sono uniti in un lamento comune e sembrano non volersi rendere conto di avere beneficiato troppo a lungo e quasi gratuitamente del lavoro dei braccianti che vivevano sulle loro terre, e ora non fanno che deprecare le richieste di aumento salariale, che rischiano, a loro dire, di mandarli in bancarotta. La soluzione adottata, spesso, è quella di cacciare i braccianti e convertire la proprietà, nella migliore delle ipotesi in riserva naturale, nella peggiore, e più lucrosa, in riserva di caccia. Il tutto senza preoccuparsi del fatto che i braccianti cacciati cercheranno a quel punto rifugio nelle città, dove andranno probabilmente a ingrossare le fila dei derelitti senza tetto, dei disperati che si fanno di colla, mezzi comatosi agli angoli delle strade, rendendo le città “sporche e pericolose”.
AI AIS – SESRIEM (SOSSULSVEI) – 755 KM
Il mattino dopo riprendiamo il nostro cammino verso il deserto del Namib. Speriamo di arrivare a destinazione in giornata, per questo abbandoniamo le piste, più brevi ma più lente, e riprendiamo la B1, l’unica strada asfaltata del Paese.
Dritta e nera spacca distese di paglia chiara, appena punteggiate di cespugli di rovi, che si estendono fin dove l’orizzonte si unisce con le montagne rosse, dalle rocce smussate ricche di sfumature.
Attraverseremo le città di Keetmanshoop e Gibeon. Subito prima di Mariental imboccheremo la C19 in direzione di Maltahoe, per proseguire, sempre lungo la C19, fino a Sesriem. Non è ancora deserto, ma si sente nell’aria, si intravede nella sabbia tra i rovi. È Africa, ce lo ricorda l’orizzonte che si allarga, la maestosità delle piane senza fine, gli alberi di aloe e di acacia, gli animali che incontriamo lungo il cammino… gli operai che asfaltano a mano la strada, i contadini sui carretti. Arriviamo a Sesriem in tempo per montare la tenda alle ultime luci del tramonto.
Il campeggio non è molto accogliente, di fatto ci accampiamo in mezzo alla sabbia, ma il luogo è certamente suggestivo, anche se rovinato dalla presenza di uno dei classici Lodge per turisti danarosi dal gusto kitch… che però ci permette di non andare a letto senza cena: infatti al campeggio non accettano pagamento con bancomat o carta di credito e noi abbiamo giusto i contanti per pagare una notte. Ci “godiamo” la cena più cara di tutto il viaggio e andiamo subito a dormire: il giorno dopo vogliamo svegliarci presto, per arrivare alle dune in tempo per vedere l’alba.
Foto 9, 10 e 11 La levataccia ci lascia un po’ storditi, ma ciò che non ci aspettavamo di trovare è una folla di turisti vocianti, che continuano ad arrivare a bordo di pullman dai colori sgargianti e di fuoristrada che non sanno guidare e affondano nella sabbia… insomma l’antitesi della solitudine e della pace che si tende ad associare al deserto. Dopo una prima fermata alla famosa Duna 45, proseguiamo per Sossusvlei. Non avendo un 4×4 lasciamo la nostra auto al primo parcheggio e percorriamo a piedi il tratto fino a Sossusvlei.
Il paesaggio è molto particolare, le dune arancioni sono altissime, ed è strano notare come le correnti dei venti abbiano radunato la sabbia, al punto che spesso il sentiero che si snoda tra le dune risulta duro e pulito. Durante la passeggiata avvistiamo delle splendide antilopi, ma quando alla fine della mattinata torniamo indietro non ci dispiace dovere ripartire: la confusione è davvero troppa e le dune perdono parecchio del loro fascino se si presentano ricoperte di orme umane. Inoltre il nostro desiderio di deserto si scontra con la necessità di recuperare del contante e la partenza diventa inevitabile.
SESRIEM – SWOKOPMUND – 343 KM
Ci dirigiamo così verso Walvis Bay, cittadina portuale sull’oceano, di cui la Lonely Planet segnala diversi Resort a prezzi abbordabili. Da Sesriem percorriamo la C19 in direzione Solitaire: un bar, un piccolo ristorante, la pompa di benzina, intorno solo la savana. Nonostante questo c’è un sacco di gente, turisti e anche una troupe di una televisione sudafricana; ci spiegano che stanno girando uno spot per promuovere il turismo in Namibia.
Noi siamo al settimo cielo perché abbiamo scoperto che qui si può pagare con la carta, e così facciamo il pieno di benzina e ci ingozziamo di torta di mele. Il posto è molto accogliente, la torta di mele è all’altezza della sua fama, per non parlare del pane caldo appena sfornato. Il padrone è molto simpatico, ride e pare divertito dal “boom economico” della sua attività.
La sosta è un toccasana, ma dobbiamo rimetterci in viaggio se vogliamo arrivare a destinazione prima di notte. Dopo Solitarie imbocchiamo la C14, che dobbiamo percorrere per circa 250 chilometri, lo sterrato è abbastanza agevole, ma il pericolo di forare è sempre in agguato e non appena la luce comincia a calare gli animali compaiono sulla pista, spesso improvvisamente, obbligandoci a un’andatura piuttosto lenta. Questo tratto è comunque bellissimo, il paesaggio nei pressi del Passo Gaub è spettacolare, e al tramonto le rocce levigate risplendono di tonalità blu-amaranto. Quando infine giungiamo a Walvis Bay, è ormai buio. La cittadina è completamente deserta e all’indirizzo riportato sulla guida non troviamo nessun Resort. Impieghiamo le ultime energie per raggiungere Swokopmund, 30 chilometri più a nord, dove le nostre preghiere ad una Mrs. anglofona, proprietaria dello Skyline Desert Resort, ci garantiscono un posto per la tenda in un grazioso giardinetto battuto dai venti oceanici.
Il giorno dopo visitiamo Swokopmund, una delle principali località di villeggiatura della Namibia. L’architettura da campagna tedesca suona un po’ irreale, come le donne locali vestite di lunghe crinoline sgargianti. L’obiettivo principale che ci ha condotto qui resta però inappagato. Non capiamo perché ma non riusciamo a prelevare contante in nessuna delle numerose banche e la nostra padrona di casa accetta solo pagamento in contanti. Dopo un primo momento di paranoia (e qualche telefonata alla banca in Italia) capiamo cos’è successo: abbiamo cercato di prelevare troppo presto, quando le banche in Italia sono ancora chiuse: dopo tre tentativi a vuoto il bancomat viene bloccato per la giornata. Ormai è fatta, ci tocca ripartire con le tasche vuote, lungo la strada cercheremo una soluzione.
SWAKOPMUND – KEMANJAB – 590 KM
Da Swakopmund percorriamo la B2 fino a Karibib, poi la C33 fino a Otjiwarongo, la C38 fino a Outjo ed in fine la C40 che ci porta a destinazione. E’ una tappa strana: ci fermiamo ad ogni paese dove ci sia una banca, parliamo con numerosi impiegati, alla fine racimoliamo circa 1000 N$. La nostra meta è Kemanjab, verso nord, dove il giorno prima abbiamo prenotato un posto tenda. Lungo la strada diamo un passaggio a una donna locale con due bambine, bellissime e imbronciate, mi fissano attente per tutto il tragitto. La donna si chiama Jasmine, sembra che per lei sia normale non sapere come tornare a casa la sera. Per ogni evenienza ha una coperta con sé. In un inglese approssimativo ci spiega di essere andata a prendere il latte, che tiene in una tanica di plastica.
Evidentemente trova buffo il mio sconcerto davanti ad un cartello stradale che segnala il pericolo di attraversamento elefanti e ci rassicura, spiegando che di solito si muovono solo di notte.
Lasciamo le nostre passeggere in paese e proseguiamo verso il campeggio, segnalato poco più avanti. E’ un posto splendido e per una volta ci godiamo il tramonto sulla savana dalla nostra tenda. Siamo lontani da tutto, il silenzio è rotto solo dal cinguettio degli uccelli, che dispettosamente cercano di infilarsi nelle aperture dei termitai. I sentieri sabbiosi che si snodano tra le sterpaglie mostrano le orme di animali di vario tipo. Lungo la strada abbiamo incontrato numerosi facoceri, molte scimmie, delle giraffe e numerosi springbok. È un vero paradiso lontano da tutto, eppure è proprio qui che risolviamo i nostri problemi economici
Katrina, la signora tedesca proprietaria del campo, non solo accetta di farsi pagare con la carta ma ci fa anche da banca, fornendoci il contante tanto ambito. Passiamo qui due giorni di meraviglioso riposo, e ripartiamo con la sensazione di lasciare casa. Forse è per questo, oltre al fatto che quando giungiamo a Sesfontaine troviamo troppa polvere e desolazione, che alla fine cambiamo i nostri programmi e torniamo al campo per un’ultima notte e un’ultima abbondante colazione e ci dirigiamo poi verso il mitico Etosha Park.
Arrivando da Sud entriamo nel parco da Okaukuejo con prati verdi e turisti in piscina, ma purtroppo, per noi e la nostra tenda non c’è posto. Proseguiamo dunque fino ad Halali, godendoci lo spettacolo: elefanti, giraffe, zebre, sprinbok, gli animali sono dappertutto e non paiono affatto impauriti dalle macchine dei turisti, riusciamo addirittura ad avvistare un leone, che però rimane a una certa distanza dalla pista.
Ad Halali ci accampiamo nella polvere; dei tre campeggi nell’area dell’Ethosa (Okaukuejo, Halali e Namutomi) appare il più squallido: polvere ovunque e di prati nemmeno l’ombra. Ma come la stragrande maggioranza dei campeggi namibiani dispone di una piscina dignitosa, il ristorante garantisce cene e colazioni abbondanti a cifre rispettabili e, soprattutto, ad Halali c’è la pozza. Detto così sembra poco, ma alla pozza, illuminata, si recano gli animali per abbeverarsi la sera e i turisti come noi possono ammirarli stando comodamente seduti su panchine sopraelevate e relativamente protette. Siamo fortunati e in due sere vediamo un branco di elefanti (9 esemplari adulti e 3 piccoli stupendi e indisciplinati che ci fanno morire dal ridere), dei rinoceronti, anche loro con piccolino, si fa per dire, delle antilopi e alcuni sciacalli. Se non fosse per delle aggressive farfalline morsicatrici non ce ne saremmo mai andati, ma imparo a mie spese che non è opportuno lavarsi con bagnoschiuma profumato in situazioni simili.
Oltre alla pozza, naturalmente, giriamo il parco di giorno in lungo e in largo. Avvistare gli animali è emozionante, anche se, per delle persone scarsamente esperte come noi, rischia di degenerare troppo facilmente in una sorta di “celocelomanca”.
Quando dopo tre giorni ripartiamo, la tristezza è grande.
Inizia la discesa attraverso il paese che ci riporterà a Cape Town e da lì in Italia.
HALALI – REHOBOTH – 574 KM
Percorriamo in un’unica tappa dall’Etosha a Rehoboth, a sud di Windohek. Ci dispiace non fare tappa nella capitale, che vediamo solo dalla B1 e ci appare piccola, coloratissima, bella insomma, ma i tempi stretti si impongono e ci ripromettiamo di fermarci quando torneremo il prossimo anno. Rehoboth si trova pochi chilometri a nord del Tropico del Capricorno ed è un luogo incantevole. Il campeggio dove alloggiamo è il Lake Oanob Resort, che offre poche piazzole erbose comode e distanti tra loro; tutta la struttura si affaccia su un lago blu zaffiro, circondato da basse montagne piatte, con gli alberi allargati tipici della savana che filtrano il tramonto.
Qua e là qualche chalet con il tetto di paglia scura rende il paesaggio ancora più prezioso.
Essendo bassa stagione, a parte noi non c’è praticamente nessuno e ci godiamo il panorama in piena libertà. È un vero peccato non poterci fermare e ci ripromettiamo di tornare in futuro. Sulla guida c’è scritto che Rehoboth è tra le mete preferite dai Sudafricani benestanti, ma agosto per loro non è periodo di vacanza e noi possiamo goderci il paesaggio in assoluta solitudine. Purtroppo però siamo arrivati alla fine del viaggio. Siamo fin troppo consapevoli che questa è la nostra ultima notte in Namibia e stentiamo ad allontanare la tristezza.
REHOBOTH – SPRINGBOK – 419 KM
Ci mettiamo in viaggio molto presto, vogliamo arrivare in Sudafrica in tempo per cercare un campeggio. Ancora una volta superiamo il confine senza nessuna difficoltà e riusciamo anche a convertire in rand africani i dollari namibiani che ci sono avanzati. La tappa però risulta particolarmente snervante a causa dei numerosi tir che rallentano il traffico, difficili da superare in una strada a due corsie e a doppio senso di marcia. Nonostante questo raggiungiamo Springbok in poco più di un paio d’ore e ci rimane tutto il tempo per trovare una sistemazione e girare con calma la cittadina. Il Tourist Information è proprio in fondo alla strada principale, come da indicazioni della Lonely Planet. Per pochi rand ci offrono una sistemazione perfetta: noi e la macchina in un enorme garage, proprio dietro il loro ufficio. Si tratta di uno stanzone lungo e stretto, pulitissimo. Alle pareti sono appese le brande, per il resto è attrezzato come un appartamento, con tavolo, sedie, e naturalmente lavandino, frigorifero, cucina a gas e tutto quello che serve per cucinare. Il bagno è appena fuori e come sempre è lindo. Nonostante ci siano 12 posti letto, siamo gli unici occupanti e anche con la macchina dentro, rimane parecchio spazio vuoto. Springbok è una piccola cittadina molto vivace. Passiamo il pomeriggio passeggiando per le strade principali, ci sono negozi di ogni tipo, numerosi ristoranti e alcuni supermercati dove compriamo il necessario per la colazione. Ancora una volta rimaniamo colpiti dall’esplosione di colori. Tutti i prodotti sono avvolti in confezioni dai colori brillanti, senza contare le dimensioni di qualsiasi cosa, dai panetti di burro da 5 kg, alle damigiane di latte o succhi di frutta: qui nessuno le ha mai viste le monoporzioni per single. Lungo la strada entriamo anche in un paio di locali e tutto, almeno per i criteri europei, è davvero molto economico… e sempre in quantità doppia rispetto alle porzioni dei locali italiani.
SPRINGBOK – CLANWILLIAM – 350
Da Springbok a Clenwilliam si ripresenta la menata dei camion e dei lavori in corso lungo la strada, che in alcuni punti impongono il senso unico alternato, ma il tragitto è abbastanza breve e arriviamo a Clenwilliam poco dopo pranzo. Le indicazioni per il campeggio però non sono affatto chiare e la guida non offre molte delucidazioni, così prima di trovarlo giriamo a vuoto per un po’. Ancora una volta però il luogo è splendido, anche se fa pensare più ad un paesaggio alpino che a una località africana. Abeti e varie conifere incorniciano un grande lago, su cui si affacciano rigogliosi, quanto umidi, prati fioriti. Il campeggio è relativamente pieno, almeno per gli standard africani; notiamo anche qualche padre di famiglia che la mattina lascia la roulotte con la moglie e il figlio per recarsi al lavoro in città, completo gessato e ventiquattrore. In questo caso il campeggio è statale, ma per quanto sia tutto assai spartano e ridotto all’indispensabile, si presenta comunque pulito e accogliente. L’unico inconveniente è ancora una volta rappresentato dal freddo pungente, che unito all’umidità notturna ci tiene svegli buona parte della notte.
CLANWILLIAM – CAPE TOWN – 121 KM
Cape Town ci accoglie ancora più fredda e piovosa di quando siamo partiti. Arriviamo in tempo per un’ultima notte all’ostello (ci hanno tenuto la stessa stanza dell’arrivo).
Il giorno dopo ci rechiamo in aeroporto di buon mattino, le bidonvilles scorrono per l’ultima volta dietro i finestrini del taxi. Saliamo sull’aereo con la sensazione di fare la cosa sbagliata. Dovremmo restare, vorremmo tornare in Namibia e dimenticare Milano. Non ci resta che pensare al prossimo anno. Arrivederci