By Federico Gamba
Originally Posted Saturday, January 1, 2000
Marocco-Mauritania-Mali Africavventura 1998-1999
un viaggio attraverso Marocco, Mauritania e Mali per vendere una Range Rover
Questa e’ la storia di Igor, di Federico e di un Range Rover di 18 anni che, di comune accordo, perlomeno i primi due, decidono di fare un viaggio. Un’idea nata dalla famosa mente malsana di Federico (famosa, per chi conosce gia’ Federico mentre chi non lo conosce ancora avra’ modo di farlo leggendo queste pagine) a cui ha preso parte anche Igor che ,al momento della decisione, non conoscendolo ancora bene ,si e’ fidato ed e’ partito con lui.
Questa e’ la storia di come da un’idea scaturisce un’avventura, fatta di poche essenziali cose, prima fra tutte l’amore per una terra dove il niente e’ il vero padrone, dove fra popolazioni sofferenti, foreste tropicali, deserti, ricchezze inestimabili ancora da scoprire o gia’ scoperte, il nulla e’ l’unica cosa che e’ sempre presente ed incombente su tutto. La lotta per arrivare alla fine della giornata da parte di tutto cio’ che popola quella terra (noi compresi, dunque, ma per noi era solo routine quotidiana di avventura) dove i valori umani differiscono nettamente da quelli sociali, dove il tempo e’ scandito dal sole e dalla luna, dove la piu’ importante delle cose e’ rivedere il sole domani mattina: questo sara’ un po’ il filo conduttore del diario. Insieme alla sfortuna che da sempre caratterizza ogni momento della mia vita.
Questa e’ anche la storia di come l’Africa ha trasformato due conoscenti in amici (credo).
Federico aveva da sempre un obbiettivo: cercare di trascorrere tutte le feste invernali in Africa, non aveva importanza se nel deserto o nella giungla, l’importante era l’Africa.
Questa volta, con l’aiuto di Igor, l’obbiettivo e’ stato raggiunto, con difficolta’, gioie, incazzature, risate, torcicollo, dissenteria, rotture di palle e tutto quanto puo’ concernere un viaggio avventura, e cosi’ Federico stavolta e’ riuscito a trascorrere il compleanno, Natale, Santo Stefano, Capodanno ed Epifania in Africa. O meglio, per quanto riguarda il compleanno non e’ stato proprio cosi’, infatti nel giorno del suo compleanno, il “xxesimo” (tanto poi lo capirete, leggendo), i due sfigati con il rottame sono partiti alla volta di Francia, Spagna, Marocco, Mauritania, Mali. Avrebbero dovuto fare anche la Costa d’Avorio ma i mauri hanno fatto perdere loro parecchio tempo e soldi ma non posso continuare a raccontare gli avvenimenti cos, altrimenti al posto del prologo, scrivo un altro diario.
Direi senz’altro che possiamo dare lo start di questa sfiga durata 8000 km dal primo giorno: il 19 dicembre 1998 ma, considerato che un po’ di anni prima, nello stesso giorno, nasceva Federico, anche questo viaggio verso l’avventura avrebbe idealmente potuto nascere con lui, per cui: 19 dicembre 1966.
MERCOLEDI 23/12/1998 MOROCCO CROSSING forse l’ultimo giorno
Ci siamo svegliati con una nebbia che avremmo voluto dimenticare per una ventina di giorni ed invece ci ha assillato ancora fino a tarda mattinata. E’ una foschia causata dalla fortissima umidita’ portata dall’oceano anche per parecchi km all’interno. Questa zona e’ l’inizio del territorio saraoui interessato dalla guerra del Polisario e, nonostante la guerra debba essere finita da qualche anno ci sono spiegamenti di forze militari e di polizia non indifferenti. I passaporti vengono consumati dai molteplici ed assolutamente inutili controlli dove ti chiedono un sacco di informazioni dettagliatissime, padre, madre professione, caratteristiche del mezzo e cosi’ via, ma vengono sempre trascritte sul primo pezzo di carta che trovano, che e’ poi il sacchetto dove c’erano i datteri del loro pranzo. Professionalita’ e serieta’ encomiabili.
Continua intanto alla nostra destra la costa atlantica che ci permette di fare delle foto irripetibili e degli incontri curiosi, come quella comitiva di camper francesi arroccati su un costone di roccia a strapiombo sull’oceano, attrezzati di tutto punto per vivere fino a quando non si fossero stufati. Insieme a loro c’era una simpatica cagnolona, con tre bei bimbi (cuccioli) che avevano rubato una scarpa lasciata incustodita vicino ad uno dei camper ed ora stavano per ridurla a brandelli. Poco piu’ in la’, in una laguna a livello del mare, c’era una colonia di fenicotteri che “pascolava” tranquillamente. Tutte queste cose non le vedrete mai perche’ un doganiere figlio di buona donna mi ha sequestrato il rullino con tutte queste bellissime foto.
Continua la strada per Dakhla, la nostra prima meta, il primo confine tra Marocco e Mauritania. Qui si faranno le formalita’ per l’uscita nel campo minato e da qui partira’ il convoglio, guidato da un militare, per evitare appunto di saltare su qualche mina.
Anche oggi pero’ riusciamo ad avere dei problemi con il R.R. che, un po’ perche’ beve senza ritegno ed un po’ perche’ la stazione di servizio non aveva piu’ benzina, per poco non ci lascia a piedi in un luogo dove non era proprio il caso di farsi una passeggiatina di duecento km. per una tanica di benzina. Praticamente, arrivati alla stazione di servizio, dopo i necessari convenevoli di rito, chiedo all’omino di farmi il pieno. Lui, con un sorriso a quattro o cinque denti, mi chiede:” Non e’ che avete sorpassato un’autocisterna? E’ da due giorni che la aspettiamo!”
Dopo aver realizzato che era finita la benzina sia nella pompa che nel R.R., il primo impulso e’ stato quello di estrargli anche i denti che gli erano rimasti in bocca, sfusi. Ma lui che ne poteva? C’est l’Afrique! Ed il problema, con queste parole magiche, quaggiu’ e’ risolto, a parole.
Riusciamo comunque ad arrivare al primo “barrage” di Dakhla con una spia della riserva che mi aveva quasi accecato e, fortunatamente, dietro al “barrage”, da qualche mese avevano messo in funzione un distributore. Eravamo salvi!
Dakhla e’ sempre la solita pattumiera, citta’ militare di frontiera, piena di militari, e un melange strano di marocchini e mauri. La strada che porta a Dakhla e’ un nastro nero che divide in due un promontorio che si staglia nelle acque dell’oceano Atlantico, formato da colline di sabbia bianchissima e da vallate salmastre dovute ad infiltrazioni di acqua di mare. Grazie a tutto cio’, il paesaggio e’ talmente lunare che, quando attraversi questa zona, ti aspetti sempre di trovarti qualche astronauta che ti fa ciao ciao con la manina; invece trovi solo qualche turista appassionato di pesca alla ricerca del posto incantato dove poter praticare la mitica pesca miracolosa, anche perche’ questo mare e’ pescoso davvero e garantisce il minimo indispensabile per la sopravvivenza della Mauritania.
Quest’anno opto per un hotel che, dall’esterno avrebbe potuto essere anche carino ma una volta dentro “abbiamo lasciato le nostre speranze”, come coloro che varcavano la porta dell’inferno nel poema dantesco. La lotta con gli scarafaggi era talmente impari che ci sembrava di essere sul set di “A Bug’s Life” e cosi’ abbiamo capitolato nei nostri sacchi a pelo anche perche’ qualche pulcettina nel letto ci sara’ stata di sicuro; la finestra con i vetri come optional, poi, permetteva il passaggio a zanzare dall’aspetto avicolo: quale migliore palestra per le zone a rischio di malaria che avremmo dovuto attraversare nei giorni a venire? Il prezzo comunque era contenuto e cio’ alla fine ci ha rincuorato molto.
Era ormai ora di cena e Dakhla brulicava di musulmani affamati come iene. Tutti i ristoranti, le bettole e qualsiasi altro cesso disposto a darti qualcosa da mangiare erano stracolmi di uomini che, in silenzio, avevano tuffato letteralmente la faccia nel piatto per mangiare qualsiasi cosa avessero messo loro davanti. Qualcuno addirittura in uno sfogo di debolezza, con grande rammarico del profeta, era intento a tracannarsi una birretta fresca: ma dove l’avra’ mai trovata? Nel dopo cena, la cittadina si era saturata di popolazione con la folla che si reimpastava su e giu’ per le tre o quattro vie centrali di Dakhla. Ovviamente per motivi di tradizione, se vogliamo anche religiosa, gli uomini erano da una parte e le donne dall’altra. Il desiderio di entrambe le parti era cosi’ forte che lo si poteva quasi toccare, ma durante il Ramadan e’ vietato anche quello, anche se qualche audace era gia’ riuscito a rimorchiare la buzzicona di turno e, passeggiando con lei a braccetto, se la tirava a mille mostrando praticamente a tutta la popolazione maschile, con aria di sfida, la grossa (nel senso di formosetta) preda che aveva cacciato, dimostrando cosi’ che Allah nulla puo’ nei confronti dell’amore. L’amore vince sempre. Quando pero’ l’ha poi pinzato il padre di lei, lo spavaldo ha capitolato in un round solo per K.O. tecnico!
E per la prima volta abbiamo mangiato il torrone marocchino. Bi-funzionale: 1 si attacca, e pure strenuamente, al lavoro del tuo dentista e lo annienta in pochi minuti; 2 si puo’ utilizzare come carta moschicida, in quanto la mosca sente l’odore dolce diabetico del prodotto alimentare (ma?) in questione e poi ne rimane talmente attratta (soprattutto dal Bostik, credo, che ci spalmano sopra) e muore l’, felice di mangiare tale dolcezza. Pero’ il prezzo alla fine era poi concorrenziale con il nostro torrone, e quindi avevamo la nostra bella convenienza.
GIOVEDI’ 24/12/1998. E’ QUASI NATALE (MA QUI NON LO SANNO)!!!!!
Oggi ci sara’ la kermesse delle formalita’ per l’uscita dal Marocco e per formare il convoglio scortato che attraversera’ il campo minato e, a giudicare dal movimento che c’e’ in citta’, ci sara’ anche molta gente.
Il campo minato e’ il residuo della guerra tra Marocco e Mauritania per il dominio del territorio dei Saraoui (ai quali nessuno a mai chiesto il parere ma si sono presi solo un sacco di botte, cosi’ senza sapere il perche’). Per attraversare questa zona, i marocchini si sono inventati il convoglio che frutta, poi, alla fine di tutti i discorsi sociali e politici, ricadendo come sempre in un grettissimo discorso economico, un sacco di soldi sia ai marocchini che ai mauri. Si sa: il turista porta sempre denaro.
Il convoglio non e’ altro che una fila di mezzi che, buoni buoni, uno dietro l’altro, attraversa, su una pista nel deserto, scortati da un militare solo, il tratto minato a cavallo tra Marocco e Mauritania.
Quest’anno ho gia’ visto un sacco di mezzi veramente interessanti, ma ne riparleremo nei prossimi giorni.
L’iter demenzial-burocratico e’ il seguente:
1 Ufficio di Polizia: generalita’ varie (nome, paternita’, professione, ecc)
2 Ufficio dello Stato maggiore/gendarmeria (stesse stupidaggini di prima piu’ due foto)
3 Ufficio della dogana (idem come polizia piu’ documenti della macchina).
Importantissimo: non si puo’ variare l’ordine degli uffici (altrimenti poi i funzionari marocchini non si raccapezzano piu’) e bisogna assolutamente fare tutte queste cose nel piu’ breve tempo possibile. Tanto saremmo partiti tutti il giorno dopo.
Finite le formalita’ un bel pranzo a base di pesce e poi, dopo una giornata di cazzeggiamenti a piedi per Dakhla, una bella cena a base di cus cus.
Domani si parte, al mattino presto, speriamo.
VENERDI’ 25/12/1998. IT’S CHRISTMAS TIME!!!!!!
Oggi si parte per la Mauritania e alle nove del mattino, piu’ o meno, tutti sono puntuali e ci si raduna nel piazzale antistante la polizia all’ingresso di Dakhla. La colazione oramai non sappiamo nemmeno piu’ cos’e’, anche perche’, per il solito Ramadan, e’ sempre tutto chiuso fino a chissa’ che ora.
In giro per la citta’ si vedono solo piu’ gruppetti che si sistemano i mezzi per attraversare il deserto. E’ il festival delle piastre da sabbia (sono come delle passerelle che, posizionate sotto le ruote della macchina non la fanno affondare nella sabbia), delle taniche, dei portapacchi, delle gomme di scorta. Tutte queste cose, al momento della partenza da casa, stavano tutte al loro posto, ben ordinate, proprio perche’ uno ci ha perso del tempo per trovare ad ogni cosa il proprio posticino, il buco per sistemare la tanica della benzina, lontano da quello per la tanica dell’acqua, e cosi’ via. Ora, dopo circa quattromila km., non ci sta piu’ niente, ed e’ tutto sempre fuori posto. La pala “balla” nei buchi e fa rumore, raschia contro la gomma che cosi’ si puo’ bucare. Tutto per ingannare il tempo antecedente la partenza.
C’e’ un sacco di gente: circa 70 mezzi tra cui degli autobus, delle Citroen 2CV ed un sacco di “bagnole” di “marchand” (questi francesismi, stanno ad indicare rispettivamente “rottami” e “mercanti”). Ma vediamo con precisione, nel riquadro sotto, chi c’era all’appello.
I PERSONAGGI 4
* I pullman dei francesi in gita scolastica con 37 studenti/esse tra i 15 ed i 18 anni. C’era un autobus praticamente di linea intercomunale (la “corriera”) con una ventina di ragazzi sopra, condotta da un “manico” che l’ha portata praticamente dappertutto piu’ tre pulmini, uno da trenta e due da venti posti guidati dalle maestre, qualcuna anche abbondantemente sopra gli “anta”, che, per l’occasione, si erano agghindate un po’ da bajadere, non esattamente in linea con la filosofia strettamente musulmana dei mauri. Gli autobus erano attrezzati di tutto punto, cucina, viveri, acqua, ecc. Inoltre, i gitanti avevano anche un vecchissimo camion a trazione integrale Mercedes che aveva lo scopo proprio di “scopa”, cioe’ di racimolare gli insabbiati. Era pero’ un rottame senza senso e non credo abbia fatto molta strada.
* Giuliana di Torino, splendida signora solitaria, con un pick up carico di esperienza di viaggi avventura in giro per l’Africa con itinerario a sorpresa. Nei momenti di pausa, durante il convoglio, ci ha raccontato dei suoi trascorsi in giro per il mondo e basti pensare che e’ andata fino in India con una Citro‰n 2CV partendo da Torino. Inoltre, scopro anche che ha origini astigiane.
* Gli UNIMOG veneti, con dei pazzi scatenati a bordo che hanno litigato praticamente con il mondo intero. Persone distintissime, alcune, selvagge altre. Un direttore di banca con relativa consorte a bordo di un Unimog praticamente nuovo che definire bellissimo e’ ancora poco. Stefano, solitario, con un Unimog che “ho comprato dai Vigili del Fuoco perche’ era troppo grande per i loro scopi; l’ho pagato la meta’ ed aveva, quando l’ho ritirato aveva 500 km (nuovo costa 150 milioni di lire)”. A me ‰ste cose qui non capitano mai. Claudio, ex dakariano, con pazientissima consorte, su un Unimog “piccolino” ex gara (Parigi Dakar, appunto); aveva due serbatoi per l’acqua di 80 litri cadauno ed uno di questi era pieno di prosecco. Con loro c’e’ anche un Toyota bellissimo con una Maggiolina che non ha quasi piu’ nessuna fisionomia della tenda da auto e inoltre era presente anche un altro Unimog, che, per la sua agilita’, velocita’, spunto ed accelerazione l’ho ribattezzato “il monumento”. E’ un mezzo assolutamente immobile, presumibilmente degli anni ’60, con degli accessori artigianali un po’ moderni di indubbio gusto kitch. Il cassone su cui c’era allestito tutto (cucina e letto) aveva forma di parallelepipedo con dimensioni 1,80×1,60×1,25 (lunghezzaxlarghezzaxaltezza). I due fratelli che lo guidavano erano due “selleroni” di due metri l’uno e non so dove riuscivano a stare.
* Le tre 2CV anni ’70. Erano due berlinette piu’ una furgonetta, tutte multicolor. Simpaticissime e con una accessoristica non prettamente africana, ma piu’ da “gita di Pasquetta”, comunque molto efficienti e soprattutto inarrestabili. La furgonetta, addirittura, al suo interno aveva una piccola saletta giochi per i bambini della coppia francese che guidava.
* Un francese in bicicletta. Non ricordo il nome, ma ricordo che aveva percorso gia’ un sacco di km in bicicletta nei paesi europei, ed ora aveva deciso di cambiare strada e dirigere la sua rotta verso l’Africa. In un campo minato, in bici appunto.
* Un sacco di Peugeot con i loro “peugeottari”. Questo termine e’ quello che serve per definire questi personaggi nominati anche “marchand”, mercanti d’auto. Consuetudine abbastanza frequente in Francia, quella di acquistare una vecchia Peugeot, auto cult per tutta l’Africa, e di percorrere migliaia di km in terra africana per poi rivenderla a qualche malcapitato indigeno. Successivamente, in Germania, si e’ sviluppato lo stesso fenomeno, pero’ con le Mercedes. C’e’ chi lo fa per turismo, come me, chi lo fa per lucro (rubare un’auto, in termini economici, costa sempre niente, in termini morali o giudiziari e’ pero’ un altro discorso) o chi lo fa per professione. Si parte con il rottame, si raggiunge il luogo di vendita il piu’ presto possibile, senza spazi per panorami o interessi turistici vari, si cerca di vendere al miglior prezzo possibile e con i soldi guadagnati si rientra a casa per ricominciare il tour de force. Questa pratica del “peugeottaro” era molto in voga negli anni ’70, soprattutto in Algeria e Niger, poi con la questione degli integralisti, si e’ bloccato tutto; ora si sono aperte delle vie alternative, anche se secondo me non e’ piu’ la stessa cosa. Se riusciste ad attraversare il tratto di deserto che divide l’Algeria dal Niger, vedreste un immenso cimitero d’auto, lungo anche un centinaio di km. Sono tutte le auto abbandonate dai “marchand” per un’insabbiamento profondo od un guasto grave. Oramai sono solo piu’ scheletri che emergono come zombi dalla sabbia, “ripuliti” di qualsiasi cosa che possa essere recuperata o rivenduta, dai Touareg. E resteranno l’ a testimoniare uno stile di vita dell’uomo bianco in Africa, fagocitate dalle sabbie, smerigliate dal continuo sferzare della sabbia portata dal vento e bruciate dal sole implacabile del Sahara. Grazie a loro pero’, i prossimi viandanti troveranno il passaggio giusto, quello sulla sabbia piu’ dura, esattamente come se fossero delle pietre miliari ad indicare direzioni e distanze, in un luogo dove forse non ha molta importanza ne’ dove vai, ne’ perche’ stai andando e nemmeno quanto tempo ci impiegherai.
* Un R.R. tedesco ex verde militare ora dipinto con vernice murale bianca per motivi di sicurezza. Infatti al giorno d’oggi, viaggiare in Africa con un mezzo ex militare puo’ avere dei significati strani per gli indigeni; quindi e’ meglio cercare di eliminare tutti i possibili riferimenti ad un excursus militare del veicolo, per evitare qualche sventagliata di mitra o qualche assalto di pirati o di ribelli. I due simpaticissimi ragazzi che lo portavano al macello, avevano, dunque, un po’ di timore che piovesse e che si sciogliesse la pittura al quarzo.
* Cinque moto tra cui una Harley Davidson. La guidava un sessantenne olandese con il tipico abbigliamento da “Harleysta” ma, fuori dall’asfalto, non l’ho piu’ visto. E non abbiamo nemmeno sentito il botto della mina, quindi sara’ tornato indietro.
* Fabio e Charlotte con il loro Toyota strapreparato. Uno stile molto “nobile”, ma con un buono spirito di adattamento, ha contraddistinto la coppia. Charlotte, sulle prime, sembrava non gradire molto il viaggio poi abbiamo capito che era proprio il suo modo di fare. Il Toyota era un modello molto potente che Fabio aveva acquistato poco tempo prima. E’ stata bellissima la faccia di Fabio quando Claudio, l’ex dakariano degli Unimog, ha riconosciuto il Toyota ed ha elencato il nutrito carnet di gare africane del veicolo, degne del curriculum vitae di un pilota professionista. Ma lo sbiancamento ed i sudori freddi di Fabio sono stati placati dal fatto che il vecchio proprietario del veicolo, sottoponeva il Toyota ad un meticoloso periodico check up, con relativa riparazione o sostituzione di parti danneggiate, al termine di ogni competizione per cui la macchina era veramente in buone condizioni.
* Piero e Anna con il Nissan pick up e le loro mille guide. Particolare interessante: la tenda da tetto. Tutte le “air camping”, come si definiscono le tende da tetto per auto, hanno degli spessori notevoli una volta chiuse. Questa era solo di pochissimi centimetri in quanto era stata ricavata artigianalmente da una rete da letto matrimoniale adattata al tetto e, a quanto pare, ha funzionato benissimo per tutto il viaggio.
Finalmente si parte, tutti in carovana, e’ uno spettacolo. Un convoglio di scassoni, con i quali nessuno si azzarderebbe neppure ad andare a comprare le sigarette, che giungono un po’ da tutta Europa per andare un po’ in tutta l’Africa. Le destinazioni piu’ comuni sono Mali, Burkina Faso, Niger, Ghana, Costa d’Avorio, Benin, Togo. Si fanno ancora due o tre riordini, per serrare un po’ la fila, fino ad arrivare a Bir Guendouz dove facciamo campo e festeggiamo il Natale con una fetta di panettone ed un po’ di spumante seduti nella freddissima sabbia fastidiosamente inumidita dall’aria dell’oceano. Piero sta male per un colpo di freddo allo stomaco mentre qualcuno ha gia’ spaccato la macchina, e’ rimasto indietro ed e’ stato recuperato solo ora, a notte tardissima e ancora qualcun altro festeggia il Natale con un brindisi, prendendosi un po’ la rivincita sul ramadan dei musulmani. Non sono festeggiamenti opulenti, per un viaggio avventura preferisci portare delle cose necessarie, non superflue, ma c’e’ comunque tanta sincerita’ e tanto “spirito di corpo” anche perche’ quando qui ti trovi nelle difficolta’ sei esattamente uno come tanti, perdendo tutti i tuoi pregi e i tuoi diritti e se perdi anche le amicizie e la solidarieta’ degli altri, allora sei veramente da solo e fregato.
Il panettone e lo spumante ed in collaborazione con il freddo e l’umido locali, fanno s’ che nelle nostre pancine si sviluppino delle reazioni gasogene che consentono, oltre ad un rapido riscaldamento ( e successivo surriscaldamento) dell’ambiente tenda, anche un effetto odoroso e sonoro di indubbio impatto (anche ambientale, se vogliamo) tant’e’ che nonostante i due, tre gradi di temperatura, ci e’ convenuto dormire con la tenda aperta se non volevamo finire come dei condannati alla camera a gas. Buon Natale! (Anche se sembrano le prove generali dei botti di Capodanno.)
SABATO 26/12/1998 (SANTO STEFANO)QUI COMINCIA L’AVVENTURA
Come al solito la sveglia e’ fissata per le cinque, anche se siamo ancora un po’ intontiti dagli eventi gassosi della notte, e lo start per il tratto piu’ divertente del convoglio e’ fra mezz’ora. Oggi approcceremo con il deserto e le sue piste, qui anche con le sue mine, forse. La temperatura e’ gia’ abbondantemente sopra i venti gradi e il sole comincia a farsi sentire.
Il campo dove ci siamo fermati a dormire e’ un piazzale di sabbia e roccia, dominato dal fortino della Legione Straniera Francese, ora dei marocchini, in cui non hai assolutamente nulla. Esattamente come se ti fermassi lungo l’autostrada in una rientranza apposita, anzi in autostrada hai il guard-rail, a Bir Guendouz no. Da quest’anno hanno costruito un fabbricato con i gabinetti, ma si sono dimenticati che nel deserto non c’e’ acqua e cosi’ i gabinetti sono come dire un po’ sguarniti, ecco. Da Bir Guendouz comincia la cosiddetta zona franca, di transizione tra il Marocco e la Mauritania e, con essa, anche il deserto. La strada dopo Bir Guendouz e’ ancora asfaltata per qualche km poi solo sabbia, pietre e quello che rimane della vecchia strada asfaltata, una fettuccia nera, impraticabile corrosa dall’azione combinata di sabbia, vento, carri armati e mine.
E’ un’ecatombe gia’ dopo pochi km. Il primo a passare e’ stato un Toyota olandese che dopo tre metri e’ annegato nella sabbia, gli altri Peugeot, Mercedes, auto e furgoni si insabbieranno tutti intorno al Toyota nel raggio di duecento metri alla ricerca di una via alternativa. Il R.R., da vera signora non ha provato nemmeno a cedere un po’ di motore (anche perche’ le avrei dato fuoco); le 2CV sono passate spavaldamente, senza infamia e senza lode. Le moto saranno ancora l’ che ravanano senza riuscire a fare un centimetro. E’ stata l’apoteosi delle piastre da sabbia, delle videocamere, delle macchine fotografiche e dei buoni samaritani che, disincagliata la propria vettura, vanno ad aiutare gli altri. Il massimo spettacolo l’ha dato il pullman da cinquanta posti che e’ passato come un razzo senza insabbiarsi! Un manicomio.
Tre ore di colonna per varcare la frontiera maura ad uno ad uno: consegna passaporto, annotazione dei dati ecc. ecc. La seconda pozza di sabbia e’ un uguale divertimento peccato che non si possano fare foto per via della frontiera maura. Lo spettacolo qui e’ dovuto dal fatto che la sabbia e’ sulla curva della pista. Curva stretta, fra terreno minato a destra e il filo spinato del confine a sinistra. Non si puo’ accelerare piu’ di tanto, altrimenti sconfini su una mina ed il tuo viaggio (anche quello con la “V” maiuscola) e’ gia’ terminato. I 4×4 (se chi guida ha un po’ di esperienza) possono passare la difficolta’ con una marcia molto corta e le gomme molto sgonfie, ma le vetture normali anche a velocita’ folli si piantano nella sabbia, fortunatamente nella sabbia. Il R.R. ha fatto il recupero di un furgone ma poi gli Unimog hanno fatto il resto, pullman compreso. Comunque bisogna venire fino qui per vedere un pullman che cerca di imitare un aereo, considerando il salto su una roccia che lo ha proiettato in alto di circa cinquanta centimetri!!
Cominciano i primi sentori di qualche problema con il visto per la Mauritania ma per ora riusciamo a passare. Da qui in poi la pista e’ dura (nel senso di compatta) e senza fatica riusciamo a raggiungere l’avamposto di Noahdibou dove ci vogliono fermare per la notte con il solito discorso dei passaporti, delle formalita’, della rava e della fava.
Durante le formalita’ di gruppo (tecnica africana) si sente un rumore leggero, di sottofondo. Non tutti lo percepiscono, presi come sono nelle faccende di frontiera. Poi il rumore diventa ritmico e molto piu’ forte, tanto che ora la gente si dice: “Hai sentito?” Da dietro le dune, in direzione di Laiguera, comincia a intravedersi una luce diffusa, lattiginosa. Tutti adesso fanno silenzio e l’interesse a quel “Hai sentito?” ora e’ quasi timore. Piano piano si staglia la figura della locomotiva ma non e’ ancora cosi’ definita da far associare il rumore di ferraglia al treno, anche perche’ pochi si aspettano di vedere il treno nel deserto. Non fai in tempo a chiederti “Ma cos’e’?” che capisci subito che si tratta di uno scassone che potrebbe solo circolare qui in Africa, ma quando non riesci a vederne la fine e, durante il suo lentissimo incedere, nemmeno piu’ l’inizio, ti chiedi “Ma quant’e’ lungo?” Poi dopo qualche minuto di silenzio totale in cui la ferraglia spadroneggia su tutti gli altri suoni, arrivano gli ultimi dei 250 vagoni e riesci di nuovo a respirare e a ricominciare a fare quello che stavi facendo, s’ perche’, senza rendertene conto, ti sei immobilizzato, rapito da un rottame degno di un film post-atomico, che per qualche istante ti ha creato una sensazione che va dal timore allo stupore, passando attraverso l’incredulita’. Poi ti guardi in giro, credendo di essere l’unico cretino che a trent’anni rimane a bocca aperta davanti al treno, ma vedi che piu’ o meno tutti sono al tuo livello, ti rincuori e ripiombi nella realta’ delle formalita’ di frontiera in Mauritania.
Intanto gli autobus si sono persi fra le dune in mezzo alle mine. I militari li recuperano nottetempo ma arriveranno in citta’ in tarda mattinata. Sono fantastiche le scuole francesi, soprattutto sicure: se avessi un figlio lo iscriverei senz’altro in una scuola che organizza una gita scolastica in un campo minato in Mauritania.
Con un’abile mossa riesco a sbloccare i passaporti degli italiani, grazie anche all’aiuto di Al’ e di Claudio degli Unimog e riesco ad andare a dormire al campeggio di Al’ su un quasi letto vero. Claudio e’ un ex dakariano, pazzo e, a volte, simpaticissimo; con i marchand pero’ dovrebbe avere un comportamento diverso. Oramai sono gia’ le tre del mattino. Domani formalita’ per l’ingresso in Mauritania.
I PERSONAGGI 5
Al’ e’ il proprietario di un bellissimo campeggio a Noahdibou: “La Baie du levrier”. Si tratta di un cortile di sabbia, recintato da muri, composto da tettoia con cucina, camere, e bagni a tua completa disposizione. Puoi scegliere se montare la tenda, dormire in camera, cucinare i tuoi viveri, quello che vuoi insomma. L’unico obbligo sono la doccia, che e’ sempre freddissima, ed i cessi, che puzzano sempre anche se il personale li pulisce sovente.
Al’ e’ un arabo che ha capito che se vuole vivere con il turismo deve adeguarsi alle necessita’ dei turisti. Non sono in molti in Mauritania ad averlo capito. E’ sempre disponibilissimo, cortese e nei limiti della sua cultura, pulito ed educato. Questi ingredienti hanno fatto s’ che il suo camping abbia un buon successo di avventori. Organizzatore di escursioni nel deserto, e’ un maniaco del te’ mauro, ma soprattutto del rito del te’. Se, durante la giornata, ti incontra nel cortile o spaparanzato sulle sdraio sotto la tettoia della cucina, ti offre immediatamente il te’: il primo amaro e con un sapore fortissimo, quasi di tabacco; il secondo, un po’ piu’ zuccherato ma sempre di aroma molto intenso; il terzo dolcissimo, da diabete, da favorire senza dubbio la carie dei denti tant’e’ che dopo ogni te’, Igor, maniaco dei denti, non avrebbe potuto continuare la giornata senza usare lo spazzolino.
Claudio e’ stato uno dei personaggi piu’ interessanti delle carovana. Chiunque in quella carovana avrebbe voluto ammazzarlo, a causa dell’odio fortissimo che stimolava il recondito istinto animale di chiunque, ma io a lui ero simpatico e lui a me non ha mai suggerito dei raptus omicidi. Innanzitutto e’ un pazzo scatenato, ex dakariano (corridore di Parigi Dakar), sbalzi di umore da crisi maniaco depressive, e, particolare degno di merito, aveva i due serbatoi dell’acqua dell’Unimog pieni di prosecco. Ha litigato con tutti ma come alibi aveva quello che alle due del pomeriggio aveva gia’ bevuto. Un tipo particolare insomma.
Ancora un incontro tipico di questi viaggi: Pasquale, di Napoli ma residente a Berlino, capelli lunghi intrecciati da rasta (dreadlocks), eta’ 48 anni (assomiglia allo zio Carlo, dice Igor), sposato e separato con un figlio di otto anni, “cittadino del mondo”, come si e’ autodefinito, aiuto cuoco in un ristorante della citta’ tedesca, con un Mercedes SW diesel da vendere a Bamako. Ma di lui avremo occasione di riparlarne piu’ avanti.
DOMENICA 27/12/1998. MAURITANIA’S LIFE.
A Noahdibou finalmente interrompiamo quell’usanza acquisita in Africa di non fare colazione e ci fiondiamo alla “Patisserie Claire de Lune” per strafogarci di dolci alla panna, dai sicuri effetti devastanti per noi gia’ provati dal panettone di Natale. Inoltre abbiamo portato la pioggia: era undici anni che non pioveva. Ma la sfiga non si ferma l’.
Le formalita’ maure consistono nell’attraversamento di piu’ difficolta’ inutil-burocratiche.
* Dogana: controllo formale delle dichiarazioni di valuta, dichiarazione sull’onore di non essere arrivati in Mauritania per vendere il mezzo (il novanta per cento dei partecipanti al convoglio erano marchand) e una bella fila per l’attesa del timbro sul passaporto per l’importazione temporanea del mezzo. Peccato che i doganieri, agli astanti in piedi nel corridoio, frugassero, cosi’ con disinvoltura, nelle tasche per racimolare qualche ouguiya, ovviamente senza chiedere o, meglio, cercando di non farsi accorgere.
* Assicurazione: stipula di una normale polizza con dei costi come se un neopatentato dovesse circolare con una Lamborghini Diablo a New York nelle ore di punta.
* Polizia: le dolenti note. Controllo formale dei visti e timbro di ingresso in Mauritania. “I fratelli italiani e francesi non hanno bisogno del visto per la Mauritania”, mi aveva detto il segretario dell’ambasciata maura a Rabat. Evidentemente quel poliziotto non era parente del segretario e, conseguentemente, nemmeno degli italiani o dei francesi, in quanto agli unici due italiani senza visto come noi e’ costata la bella cifra di 200.000 lire per poter entrare in Mauritania. Se tutti i miei accidenti hanno attaccato oramai quel simpatico poliziotto sara’ gia’ morto di ascaridi da un bel po’.
Salutato Al’ e Mohamed, riusciamo ad abbandonare Noahdibou verso le cinque del pomeriggio dopo aver comprato una tanica per l’acqua (pensavo di averla comprata in gioielleria, dopo aver sentito il prezzo!) e dopo aver riparato la gomma scoppiata. Quindi ci si ripropongono le tre baracchine mitiche della prima frontiera, quella del deserto, ovviamente in pieno fine ramadan cosi’ non c’era nessuno che ci considerasse. Ma ad un primo controllo, capendo che non avevamo fatto i biglietti per il Parco del Banco d’Arguin (che non dovevamo fare!), hanno cominciato a considerarci, soprattutto per batterci ancora dei soldi che, ormai schifati dalla giornata vessatoria, abbiamo pagato senza troppi problemi, augurando loro che, grazie ai nostri proventi, potessero godersi lunghe giornate di degenza presso un qualsiasi reparto di ortopedia o, meglio, di chirurgia di un qualsiasi ospedale locale, meglio se piccolo e male organizzato.
I PERSONAGGI 6
Mohamed e’ un mauro che ha vissuto parecchi anni in Italia, lavorando come carpentiere a Milano. Parla benissimo l’italiano ed usa un intercalare unico ” e’ un casino della madonna”Attualmente ha una ferramenta ma e’ sempre impegnato nei traffici ” da arabo” piu’ o meno loschi.
Partiamo che ormai e’ buio, alla vana ricerca degli Unimog, che ci avevano dato appuntamento, essendo partiti qualche ora prima di noi, su una pista mai fatta, in mezzo alla sabbia piu’ bella che c’era. La luna creava delle ombre tenui che ci indicavano i contorni delle dune da evitare ma, solo con i fari della macchina, era veramente difficile interpretare il colore della sabbia e quindi la sua consistenza. Igor era molto impegnato a crearsi la rotta con il GPS, finalmente al suo primo vero utilizzo da quando l’ho comprato, considerato che la ferrovia non la si vedeva quasi piu’ perche’ la pista le si era allontanata un po’ troppo e poi era molto buio. Viaggiammo per circa due ore a velocita’ un po’ ridotte; talvolta ci ritrovavamo in mezzo a sabbia soffice e il R.R. “moriva”, occorreva scalare, speravamo di non doverci fermare a spalare sabbia per poter ripartire. Alle dieci e mezzo avevo gli occhi che sembravano due cocomeri e considerato i 50 km che avevamo appena percorso, decidiamo di fare campo ai piedi di una bella duna. Tenda, fuoco e mangiare seduti sulle taniche, appoggiati al portellone posteriore che da bancone di officina per le piccole manutenzioni ora e’ diventata tavola da pranzo. Ovviamente il cielo stellato ci ha fatto da tetto. Ma non e’ fantastico tutto cio’? Pero’ faceva anche un bel freddo porco, tant’e’ che di notte poi la temperatura e’ scesa a due gradi e Igor, convinto di essere a Madonna di Campiglio, ha tirato fuori gli sci ed ha fatto due curvettine sulla dunetta che ci ospitava per la notte. Mi sono venuti in mente i surfisti di Agadir: che pena!
Mancava ancora un passaggio del treno di notte che e’ sempre una delle cose piu’ belle che abbia mai visto in vita mia: un treno impossibile (250 vagoni), su una ferrovia semidiroccata, nel buio assoluto del deserto con un faro centrale ed un rumore piu’ inquietante che assordante! A me lascia sempre senza fiato. Domani deserto. E vai!
LUNEDI’ 28/12/1998. MAURITANIA’S LIFE.
La notte e’ stata fantastica. Beh, non fraintendiamo, Igor non c’entra nulla, lui ha dormito come un sasso, credo, ed io pure. E come sassi ci siamo mimetizzati benissimo nella placida notte del deserto (comunque un po’ fredda). E dopo una notte di ottimo riposo, verso le nove del mattino ricominciamo il nostro cammino verso la citta’ di Choum (la dovete vedere!). Ovviamente prima abbiamo riassettato il campo ed abbiamo asciugato la tenda, fradicia di umidita’ che, incredibilmente, a quasi cento km di distanza, arriva ancora portata dal mare.
La ferrovia e’ a poche decine di metri da noi ma non vediamo le tracce della pista: cio’ potrebbe essere importante perche’, al di la’ della ferrovia, a circa un km, c’e’ il confine marocchino e, quindi, e’ possibile trovare delle mine; per cui se c’e’ la pista le mine non ci sono, diversamente: BUUMM!! Nonostante cio’ procediamo per un po’ nella sabbia vergine che a tratti e’ sofficissima costringendoci a sgonfiare le gomme per non affondare troppo ed a tratti e’ cosi’ dura che mi permette di portare il R.R. anche a 110 km/h di velocita’! Una bella alternativa ai quasi cento km percorsi in seconda velocita’ al massimo dei giri.
Attraversiamo dei villaggi che sono ovviamente nati per gli operai che lavorano alla manutenzione della ferrovia e, in uno di questi, credo a Inal, abbiamo trovato un locale che diceva di aver lavorato con un certo Antonio, “italiano, no? Lo conosci, eh ?” (gia’, perche’ in Italia chi non conosce il famoso Antonio? Ma dai, quello italiano!), che ovviamente gli aveva insegnato il solito turpiloquio di rito, forse anche un po’ piu’ turpe: un bel “P Dio!”, che l’indigeno usava come suo intercalare abituale.
Lungo la ferrovia, ci sono dei siti che sono stati teatro dei deragliamenti e, a giudicare dai vagoni sparpagliati nel raggio di un centinaio di metri, anche disastrosi. In direzione di Choum pero’ le sorprese non sono ancora finite. La pioggia, nei giorni scorsi, e’ caduta abbondante e in alcuni tratti di deserto e’ possibile vedere parecchia erbetta, che e’ una vera manna per i branchi di cammelli e le greggi di capre che pascolano in mezzo alla sabbia. La pioggia, insieme all’erbetta, ha fatto anche parecchio fango che ci causa qualche problema di aderenza, anche perche’ le gomme del R.R. sono rigorosamente pelate fino all’osso o meglio, alle tele. Troviamo anche una bella dunetta su cui riesco ad arrampicarmi con il R.R. e a fare cosi’ da skilift per Igor che finalmente riesce a provare gli sci come si deve. La sabbia tiene bene e Igor riesce a fare due belle curve ed una discesa come se fosse sulla neve, peccato che la duna era un po’ bassa! Finalmente Igor annovera nel suo personale carnet il quarto continente al mondo dove lui ha sciato.
Ora la pista per Choum e’ solo piu’ dune di sabbia, per evitare di perdere la rotta ne scavalchiamo qualcuna e finalmente, in lontananza, si vede Choum, dove arriviamo alle diciotto circa. Choum e’ fatta di casupole di terra che circondano la piazza del villaggio; ha una via di ingresso ed una di uscita (dipende da che parte si entra) ed uno scambio ferroviario per i convogli che arrivano dalle miniere di ferro di Zouerat. Rapidissime formalita’ di polizia, in cui apprendiamo che da Choum erano gia’ passati dei francesi che erano con noi ed il mitico Pasquale (il rasta di Napoli).
E’ gia’ l’imbrunire quando partiamo per Atar ed e’ un vero peccato, perche’ la strada porta verso le montagne e senz’altro il buio ci coprira’ dei panorami mozzafiato. Il tramonto ha dei colori violenti e bisogna fotografarlo subito perche’ va sempre un po’ di fretta in Africa e si rischia di perderlo.
La pista che valica il colle di Aouinat si inerpica su rocce appuntite e taglienti, uno spasso per le gomme che, se non lo avevamo ancora detto sono state scelte accuratamente pelatissime, di quattro tipi diversi, da un demolitore ad Asti. Ad un certo punto scorgiamo una lucina fioca e ipotizziamo subito un posto di controllo inutile, come al solito. A mano a mano che ci si avvicina la scena si concretizza e focalizza sempre di piu’: abbiamo raggiunto il nostro mitico Pasquale. Piu’ in dettaglio: essendosi insabbiato in una lingua di sabbia lunga duecento metri, era piantato cosi’ dalle sei del pomeriggio, aveva gia’ spalato a mano (cioe’ senza pala, a mani nude) circa dieci metri cubi di inerte sabbioso e suppongo avesse improperato per tutto il tempo perso contro santi e divinita’ varie. Il R.R. non ha nessun problema a passare e cosi’, in men che non si dica, agganciamo il Mercedes di Pasquale e lo tiriamo fuori dalla trappola di sabbia. “E’ il cielo che vi ha mandato!”, pronunciato con una cadenza dialettale tipica partenopea, e’ stato il migliore ringraziamento che avesse potuto farci.
Pasquale pero’ non era solo, aveva un compagno di viaggio. Questo personaggio era un maliano, professione autista, residente in Spagna, che noi abbiamo visto solo quando ha sorriso ed ha sfoderato i suoi denti ceramici firmati Richard Ginori (il colore della sua pelle era uguale al buio della notte) ed aveva un altro mezzo che subito abbiamo scambiato per un’autocisterna. “Che coraggio!” abbiamo pensato “infilarsi fra queste montagne con un camion!”. Avanzando e superando il mezzo per precedere i due sfigati, ci rendiamo conto che era una Peugeot 505 familiare con un carico incredibile: una lavatrice, un frigorifero, una cucina a gas, uno scooter e due biciclette; tutto sulla bagagliera sul tetto. All’interno era piena di balle confezionate con il nylon dal contenuto inimmaginabile. Quindi dentro una station wagon c’era il carico di un TIR! Questo carico ovviamente pesava e, tale peso, la schiacciava a terra inesorabilmente riducendo la distanza dal suolo a qualche centimetro. L’ideale dunque per una pista in pietre che aveva delle irregolarita’ di circa venti centimetri di dislivello.
Risolti i problemi di questa coppia da “Attenti a quei due”, continuiamo la pista per Atar che oramai dista pochi km da noi, tanto da far s’ che la raggiungessimo alle nove di sera.
Atar sembrava morta, ma c’era una serie di alberghi (stile africano) che permetteva una vasta scelta di scomodita’. Alla fine tra scarafaggi, letti sfondati ed immondizie varie abbiamo optato per il piu’ bell’hotel di Atar, senza badare a spese. A parte il conto del giorno dopo (pensavo di essere finito in un hotel in Costa Azzurra), il bagno perdeva ed ha allagato la stanza con i bagagli ed i nostri vestiti annessi: danni e beffe. La cena perlomeno e’ stata gradevole a base di mosche e carne di cammello.
Oggi il R.R. e’ stato veramente massacrato. Speriamo possa arrivare al fondo senza troppi problemi.
MARTEDI’ 29/12/1998. MAURITANIA’S LIFE.
A conti fatti questa Mauritania tra bustarelle, ruberie e tasse ci sta costando veramente un sacco di soldi e speriamo che ora ci bastino per terminare il martirio, pardon il viaggio, anche perche’ le nostre carte di credito non sempre sono riconosciute come metodo di pagamento. Probabilmente analizzando un rapporto Mauritania/Italia, in fatto di dover pagare, i due paesi si equivarrebbero. Cosi’, per certi aspetti ci sentiamo un po’ come a casa nostra.
Scarichiamo i medicinali, che, abitualmente, durante i miei viaggi procuro a qualche missione che incontro sul percorso, presso una farmacia di Atar perche’ le piste sono, da ora in poi molto dure ed il R.R. sara’ parecchio provato: in questo modo alleggeriamo il carico. Ma attenzione, il destino e’ sempre in agguato, il bastardo.
La meta primaria e’ ora Chinguetti, mitica citta’ dell’Islam che, per l’avanzata del deserto, sta per essere sepolta dalla sabbia. La pista e’ molto larga all’inizio e ci sono anche dei lavori in corso per migliorarla ulteriormente anche se per il momento sembra una pista da trial.
Incrociamo a pochi km da Atar due motociclisti di Roma, Aldo e Roberto, con due Suzuky. Il loro primo problema era quello che lo zainetto di Aldo si era rovesciato sulla marmitta e si erano bruciati tutti i vestiti, per cui lui sarebbe rientrato a Roma in costume da motocross. Il loro secondo problema era il carico veramente non indifferente tra taniche e borse. Avendo accettato di proseguire il viaggio con noi, ora il problema era tutto nostro, a compensazione e trabocco dei medicinali appena scaricati. Il loro terzo problema era quello che, avendo ingaggiato una guida per raggiungere Tidjikja e poi essendosi uniti a noi, dovevano disfarsene. Fino a qui la situazione ci appare chiara, per cui ci si accorda che:
1 noi vogliamo vedere Chinguetti prima di dirigerci verso Tidjikja
2 l’appuntamento e’ sotto la torre dell’acquedotto di Chinguetti dopo un’ora e mezza forse due.
La pista per Chinguetti adesso e’ veramente fantastica: ventidue km. di gole in alta montagna, su rocce che fanno impazzire le nostre gia’ distrutte gomme, seguiti da sessanta km. di t”le ondule’e (tutte quelle ondine sulla pista che creano un vibromassaggio tonificante per il neurologo del pilota che si rincretinisce totalmente e stimolante per il meccanico che praticamente ti deve poi riassemblare il mezzo) che tagliano in due un altopiano di circa 1000 metri di altezza.
La citta’ e’ impressionante per la quantita’ di sabbia che c’e’ ovunque: ad esempio, la sabbia che c’e’ sulla strada e’ cosi’ alta che noi, con il R.R., viaggiamo piu’ alti dei davanzali delle finestre. Oltrepassiamo la torre dell’acquedotto per raggiungere il deserto piu’ deserto che abbiamo mai visto, di un colore cosi’ aranciato che, anche con gli occhiali supertecnologici, polarizzati in orizzontale (ma cosa vorra’ mai dire?? Fatevelo spiegare da Igor), da “Desert Storm”, non si vede piu’ nulla, non si distinguono piu’ le dune. Si vede solo una fascia blu di cielo ed una fascia rossa di sabbia, tanto che devo restare per qualche secondo girato dando le spalle al sole per poter riavere le piene facolta’ visive. Qui ti senti un vero navigatore, da solo contro la potenza infinita del nulla e sfilando fra le dune sembra quasi che tu riesca a sfuggirgli, sembra che il nulla, dall’alto, ti veda e cerchi di arrestare la tua corsa, creando altri ostacoli di dune di sabbia, in modo che tu non possa procedere. Riesci veramente a dominare l’infinita potenza del nulla. Fino a quando non ti insabbi e scavi come una talpa sotto la macchina per liberare le ruote e muovere cosi’ il mezzo verso terreni piu’ duri e sicuri.
L’appuntamento viene rispettato ma solo da uno dei motociclisti, Aldo, che proseguira’ il viaggio con noi. Qui si presenta il loro quarto problema: l’altro motociclista, non essendo granche’ esperto di guida, si e’ lasciato prendere dall’euforia di aver trovato una macchina di appoggio e di poter guidare tranquillamente con tutte le sue tecniche piu’ conosciute. Infatti sulla prima onda di t”le, all’uscita dalle gole, si e’ piroettato con successivo schianto contro le rocce latistanti la pista, facendosi molto male e rovinando la moto, tanto da essere caricato su un pick up a guisa di nettezza urbana e terminare la sua vacanza a Nouakchott, nei club per soli bianchi con prostitute di colore e margarita (noto cocktail), fino al ritorno del suo amico.
Per noi non rappresenta un cruccio e, a quanto pare, nemmeno per Aldo che freme per poter iniziare la pista per Tidjikja. Questa pista e’ da tutti sconsigliata senza l’aiuto di una guida perche’ ha moltissime diramazioni ed e’ difficile trovare la direzione giusta. Il rischio maggiore e’ quello di finire su un tratto poco battuto e di rimanere senza benzina, in modo che non ti possa trovare piu’ nessuno, tu muoia di fame e di sete e gli avvoltoi si nutrano della tua carne per un paio di giorni.
Sprezzanti del pericolo e fiduciosi in Igor, “omo de fero” oppure “GPS man”, decidiamo di proseguire. Tanto per cominciare dopo pochi km buchiamo una gomma, in fondo era gia’ qualche giorno che il fatto era nell’aria, doveva capitare, e poi dopo venti km si fa buio e capiamo da soli che e’ meglio fare campo e cercare di perderci domani con il chiaro.
Troviamo la solita dunina che e’ circondata da un sacco di vegetazione e da un sacco di tende di pastori, dislocate a “random” nella brousse. La vegetazione, nel deserto ha molti significati e valori ma per noi ne aveva solo due: legna da ardere e riparo da occhi indiscreti durante l’espletamento delle nostre funzioni fisiologiche piu’ importanti. I pastori, invece, sono subito arrivati a curiosare ed ad autoinvitarsi a cena. Oramai la cena era decisa: pasta alle vongole e per tre persone. La cena davanti al fuoco aveva un sapore western, in piu’ i belati delle greggi davano quel tocco di completamento al tutto. Mollemente svaccati sulla sabbia, dopo una giornata di quelle “che non ti sbagli”, con la pancia piena, ci siamo raccontati due sensazioni (e un sacco di altre cazzate) sotto gli occhi vigili, incuriositi e di chi non capisce assolutamente nulla di quello che stai dicendo dei pastori e poi tutti a nanna con una luna che sembrava una torta margherita vista dall’alto con tutto lo zucchero a velo sopra. A nanna senza dolce con la torta margherita nei miei sogni da girone dei golosi.
MERCOLEDI 30/12/1998. VERY HARD LIFE.
Euforici per la nuova esperienza che ci sta aspettando smontiamo il campo, dopo una colazione a base dell’immancabile pane e miele (non ne avevamo ancora parlato, ma in Marocco, Igor ha comprato del miele locale che sembrava essere la sacra cenere del Vibuti di Sai Baba: piu’ ne mangiavi e piu’ ce n’era, cosi’ abbiamo fatto colazione praticamente per tutto il viaggio) con l’aggiunta del caffe’ di cui a me, notoriamente, non me ne poteva fregare di meno.
Aldo inforca la moto, il R.R. parte come tutte le mattine senza il minimo indugio e via , a macinare altri km di avventura.
La pista e’ molto dura ma e’ ben tracciata. Ci sono tratti alterni di pietroni, rocce, sabbia, terra, vegetazione e devo continuamente adattami alle nuove difficolta’ di guida, senza contare che e’ sempre una continua chicane per cui non puoi lasciare andare il motore a regimi piu’ tranquilli con marce lunghe ma devi sempre scalare per cambiare continuamente direzione. A tutto questo, inoltre, bisognava fare una premessa. Alla partenza, il pastore errante della sera prima, cercava di farci capire di seguire le tracce del “grande camion”. Le tracce di questa divinita’, “il grande camion”, erano effettivamente molto chiare anche perche’ aveva una carreggiata infinita e radeva al suolo tutti gli arbusti al lato della strada creando una pista molto larga. Il problema grave, che ha poi colpito anche noi, di cui ci siamo accorti solo a meta’ della giornata, e’ che anche “il grande camion” non conosceva la strada e navigava a GPS. Per cui noi seguivamo le impronte per km e km e poi come Pollicino tornavamo sulle nostre tracce fino al bivio precedente. Abbiamo attraversato scenari favolosi, cordigliere di dune di sabbia, letti di fiumi in secca lunghi decine di km, pietraie da paesaggio lunare, colline verdissime con le greggi e i pastori ed anche le pastorelle che per poco non violentano Aldo e gli rubano la moto sotto i nostri sguardi, ovviamente divertiti e per nulla preoccupati.
Altra nota di merito nei rapporti con la popolazione locale: nei momenti di necessita’ di direzione, ovvero quando praticamente ti sei perso, c’e’ sempre qualcuno, indigeno, che e’ l’ che pascola le sue capre (cioe’ non fa nulla). E’ la tua salvezza! Ora c’e’ qualcuno a cui puoi chiedere la direzione! Lui non parla la tua lingua? Non e’ un problema, tanto gli devi solo dire la citta’ o il villaggio che devi raggiungere e lui ti fara’ segno con il ditino ed il gioco e’ fatto! Questa e’ la teoria. In pratica tu raggiungi il/la pastorello/a e con fare gentile, magari con l’ausilio di un “cadeau” (se non sapete cos’e’, andate laggiu’ e lo capirete), gli chiedete la direzione ponendo un accento interrogativo al nome della localita’ che intendete raggiungere: “Atar?” E lui per tutta risposta vi ripetera’ il nome della localita’ che avete appena pronunciato, con occhi attoniti e sguardo vitreo, come se avesse appena visto Satana. Allora, per incoraggiarlo e per aiutarlo nella comprensione, al nome della localita’, mimate con il vostro ditino la direzione eventualmente da voi ipotizzata, tanto se e’ sbagliata lui/lei vi correggera’ indicandone un’altra: “Atar? (+ ditino)”. Esattamente come se foste davanti ad uno specchio, la vostra salvezza, ora ripetera’ non solo il nome da voi pronunciato , ma anche il gesto. E se voi riprovate ancora lui vi imitera’ ancora, proprio come quello che vi assomiglia tanto e che fa gli stessi vostri gesti in bagno, al mattino, quando vi fate la barba o vi pettinate, dall’altra parte dello specchio. A questo punto lo mandate a cagare e proseguite su una rotta a caso tanto poi qualcosa succedera’.
Questo susseguirsi di paesaggi comportavano dei passaggi talvolta molto impegnativi, tipo veri e propri muri di roccia da percorrere con tecniche trialistiche assolutamente con la prima ridotta; sempre presenti ovunque, le tracce del “grande camion”, anche in luoghi dove il R.R., molto a suo agio su questi tipi di percorsi, aveva qualche difficolta’. Il sospetto che fosse veramente una divinita’ cominciava a farsi sempre piu’ strada nei nostri pensieri.
Intanto Igor, persa ormai la verginita’ ad un viaggio africano, voleva, su invito di Aldo, cimentarsi con la moto. Aldo gli ha prestato stivaloni, giacca e casco (come se io, con le mie misure, notoriamente XXL, usassi le scarpe, la giacca ed il cappello di Don Lurio per andare a ballare: capito la proporzione?) nonche’ anche la moto. E’ stata una scena veramente atipica quella della moto prestata, in quanto, senza valutare a priori o a posteriori il rischio di cadute di uno che in fuoristrada ha guidato poche volte, e di conseguenza anche il rischio di rompere il mezzo; solitamente i motociclisti sono molto “gelosi” del proprio “dueruote”. E’ stato comunque un bel gesto, perche’ Igor, quando e’ sceso dalla moto, era veramente raggiante.
Naturalmente sbagliando strada per ottocentosettanta volte, abbiamo accumulato un po’ di ritardo sulla tabella di marcia e ci riproponiamo a guidare di notte, cosa assolutamente sconsigliata da chiunque, anche perche’ in Africa, la notte e’ veramente notte, buia, non essendoci praticamente inquinamento luminoso di citta’ od agglomerati urbani. Rapido consulto tra noi e ci accordiamo di guidare fino a che uno dei tre non muore di sonno. La pista, dopo pochi km di fondo duro, diventa dapprima sabbiosa e poi assolutamente dune. Dune altissime oppure lunghe, ripidissime o da tagliare in contropendenza; ovviamente tutto al buio. Era bellissimo: il R.R. si arrampicava percorrendo il fianco della duna parallelamente alla traiettoria di Aldo fino a raggiungere il crinale che doveva essere superato staccando leggermente le ruote anteriori da terra, tipo “saltino”, altrimenti ci si poteva “appoggiare” sulla “pancia” del R.R. e rimanere bloccati. I fari del R.R., salendo, puntavano in alto fino a che, in prossimita’ del crinale erano indirizzati verso il vuoto assoluto del cielo nerissimo puntinato di stelle, per cui quando si arrivava al crinale non si poteva sapere cosa c’era dall’altra parte; ci si poteva immaginare di tutto: la tangenziale est di Milano all’altezza di Viale Forlanini alle otto del mattino di luned’ o alle sei di sera di venerd’, la bocca di un altoforno, una scogliera a picco sul mare. Ma poi alla fine c’era sempre e solo sabbia.
Aldo ha cominciato a cadere verso le nove di sera ed alle undici ci siamo detti “e se ci fermassimo qui per la notte?”. Anche perche’ i fari del R.R. hanno dato forfait e sono rimasto praticamente al buio. Igor si propone immediatamente, in qualita’ della sua professione e dei suoi studi, di riparare il mezzo e comincia ad armeggiare, smontando praticamente al buio, nella sabbia tutto l’impianto elettrico per poi rimontarlo con gli stessi problemi di prima: le luci non si accendono. Fortunatamente i “flash” funzionano e decidiamo di continuare il viaggio con un pezzo di cartone che incastrasse la leva, in modo da avere per lo meno gli anabbaglianti. Ma perche’ continuare il viaggio di notte, in quelle condizioni? Perche’ dalla sommita’ delle dune si vedono delle luci, che possono anche essere di un piccolo villaggio. Puntiamo sicuri di noi verso quelle luci non tenendo conto del fatto che le distanze sono un po’ falsate dal buio e invece di impiegarci dieci minuti, per raggiungere quelle luci ce ne impieghiamo sessanta o settanta. Nell’avvicinarci all’obbiettivo quelle luci prendono delle forme un po’ particolari. Sara’ la stanchezza, sara’ il buio ma non riusciamo a definire cosa siamo quelle luci. Abbiamo pensato agli U.F.O.; Aldo ha pensato al circo, considerato le luci disposte a festone decorativo; Igor dice “Ma come facciamo ad andare in discoteca, che non facciamo la doccia da quattro giorni?”; io mi sono detto ” Ora arriviamo al Presepe e stanotte finalmente dormiamo al caldo, nella mangiatoia con Gesu’ Bambino, scaldati dal bue e dall’asinello”. La follia era oramai padrona delle nostre menti mentre continuavano a dirigerci verso le “luci”. Ma le luci altri non erano che il “grande camion” o meglio il suo convoglio. Infatti il “grande camion” era un Man a otto ruote motrici unito a un Unimog doppia cabina, entrambi con cucina da campo su carrello al traino, un Bremach, cinque pick up ed una moto. Il tutto coordinato da trentacinque olandesi che si definivano “un gruppo di amici ben organizzati”. Talmente ben organizzati che avevano pavimentato con un telo l’area cosiddetta living, avevano creato un’area officina, esterna al living con tanto di saldatori, frese, trapani, ecc., c’era la zona cucine, avevano un computer con telefono satellitare per connettersi a internet. Insomma erano un gruppo di amici ben organizzati, che avranno speso un miliardo per fare un viaggio.
Abbiamo poi montato le tende dietro la carovana di camion ed abbiamo trascorso una freddissima notte sahariana, distrutti dai km ma pienamente appagati nel nostro avventuroso spirito.
GIOVEDI’ 31/12/1998. CAPODANNO CON RICCHI PREMI E COTILLONS
Provo a svegliarmi, a muovermi, ma il freddo polare della notte mi ha completamente paralizzato. Per caso, ieri notte, non e’ che abbiamo sbagliato direzione e siamo finiti a Vladivostock? Potrebbero esserci dei dubbi.
I nostri amici “ben organizzati” intanto stanno smontando il campo ed i rumori sembrano provenire da una fucina del secolo scorso, con tanto di fabbro che batte il ferro caldo. Mi sarebbe piaciuto restare ancora un po’ l’, con il sole che cominciava a farsi sentire, bello caldo, ma sempre i nostri amici ora hanno messo in moto il Man che scaricava nell’aria una densissima coltre di fumo nera. Non avevamo nessuna intenzione di fare la fine dei deportati nei lager nazisti, considerando che alla fine delle marmitte del camion c’erano le nostre tende. In men che non si dica siamo fuori dai sacchi a pelo, baldanzosi e ben svegli. Anche un po’ incriccati, forse. Caffe’ pagato dagli olandesi al bar “da campo” e via per percorrere i 110 km di pista che ci dividono da Tidjikja. Il tratto tra noi e Tidjikja e’ praticamente solo sabbia ed e’ una cosa veramente bella. Affrontiamo dune immense, che lasciano il posto ad altre dune in un susseguirsi di sabbia senza fine. Appena partiti, ci siamo congedati dai nostri amici olandesi ed abbiamo proseguito da soli e, per non perdere l’abitudine, ci siamo persi ancora una volta, ad una cinquantina di km da Tidjikja. C’erano pero’ dei problemi di cartine che segnavano delle piste ormai modificate e quando “GPS man” se n’e’ accorto ci ha indicato una direzione che ci ha portati in un batter d’occhio e due forature sulla pista giusta.
Okay, oggi e’ l’ultimo dell’anno ed io voglio fare una cena come si deve e dormire in un hotel un po’ decente. Era un po’ il proposito di tutti, dichiarato o semplicemente sognato. Arrivati a Tidjikja, la prima domanda che abbiamo fatto ai poliziotti del controllo, dopo i “€a va? et la famille? el le travail? et les enfants? e tua sorella?” di rito, e’ stata:”C’e’ un hotel, qui a Tidjikja?”; “Certo, sara’ finito ed operativo per l’anno prossimo!” “Ma vaff”. Il destino a volte e’ beffardo e cosi’ ci ha lasciati in “braghe di tela” (gli stessi oramai da giorni) anche per la notte di Capodanno. Ma non ci diamo per vinti: un giro per Tidjikja, qualche acquisto di carattere alimentare (se c’era qualcosa in paese) e poi via verso la “ruote de l’Espoir”, mitico nastro asfaltato, che se lo lasciavano sterrato era meglio, che collega la Mauritania con i paesi ad est: senz’altro sull’asfalto ci sara’ tutt’altra vita.
Veniamo letteralmente assaliti dalla popolazione di Tidjikja nel tentativo di ricerca di qualcosa di commestibile tanto che per qualche minuto io ed Igor rimaniamo barricati nel R.R. con una temperatura di qualche decina di gradi ed Aldo, in moto, era costretto a “sgasare” continuamente per far s’ che il bordello della sua moto mettesse in fuga i bastardelli. Troviamo uno spaccio che vendeva di tutto, dai chiodi al burro (ovviamente senza frigorifero, cosi’ e’ piu’ spalmabile), proprio come i nostri grandi centri commerciali, le citta’ mercato, con l’unica differenza che era grande come il bagno di casa mia. Ci riforniamo di acqua, biscotti (gusto Big Babol alla marmellata di more e fichi), marmellata e latte condensato.
Ad un tratto tra la folla ho avuto una visione celestiale. Era molto bella, dai lineamenti dolcissimi, grandissimi occhi (“occhi grandi come la fame” Litfiba), snella e longilinea, avvolta in un velo fiorato dai colori sgargianti. Sorrideva e, a tratti si copriva il volto con il velo, lasciandolo poi cadere scoprendosi i lineamenti delicati. Ormai ero innamorato. Non c’era piu’ la calca di pezzentoni che ci chiedeva “cadeau, cadeau”, non c’era piu’ quello stordito, che avrebbe anche potuto essere il figlio di Lello Arena a causa dello strabismo disorientante, che continuava a ripeterci “Messieur, bon voyage de Boubacar”, ma c’era solo lei, che con voce angelica mi chiedeva in maniera estremamente gentile qualche regalino. Ed i regalini sono stati tutti solo per lei (solo i miei ovviamente: se Igor ci avesse provato gli avrei tagliato la mano, ero gelosissimo). Sono anche riuscito a toccarle un polpastrello dell’indice della mano destra, era proprio bella. Ma l’idillio ha avuto la sua fine: noi dovevamo ripartire e non l’avrei mai piu’ rivista. Inoltre, alla nostra partenza, nel salutarci si e’ infilata proprio l’indice che le ho toccato io, tutto nella narice sinistra, fino alla nocca, mentre con la mano sinistra ci faceva ciao, ciao. E’ morta la poesia, qui a Tidjikja. Qui a Tidjikja non c’e’ posto per i veri romantici.
Ora pero’ il viaggio riprende con la speranza che le piste cedano il passo all’asfalto, non tanto per un calo di spirito d’avventura nostro, quanto per un temuto calo di spirito d’avventura del R.R., che fino a qui di mazzate se ne era prese fin troppe per una macchina di quasi vent’anni. Ci allontaniamo cosi’ da Tidjikja di qualche km. per una pausa pranzo per essere lasciati in pace dai ragazzini malefici, ma nonostante la distanza ci raggiungono in tre. Ovviamente la loro costanza doveva esser premiata e cosi’ si sono beccati qualche biro e qualche quaderno a testa e, raggianti di felicita’, si sono levati dalle scatole lasciandoci mangiare in pace.
Prima pero’ di raggiungere l’asfalto ci sono circa cento km di pista bella poi bellissima, velocissima ma molto pericolosa. Inoltre il tramonto ci sbatte il sole in faccia impedendoci di vedere la strada, tanto da dover rallentare di parecchio la marcia. Ci ritroviamo, cosi’ come d’abitudine, a viaggiare di notte. Raggiungiamo finalmente l’asfalto e ci dirigiamo verso Magta Lajar, dove dovrebbe esserci almeno un alberghetto: era Capodanno, eh! I villaggi che attraversiamo prima di Magta ci azzerano le speranze in quanto la condizione della strada era di degrado assoluto, tanto che abbiamo rischiato piu’ sull’asfalto che non sulle piste, e poi nei villaggi attraversati non c’era corrente elettrica e nemmeno elettrodotto. Magta Lajar pero’ ha tre lampioni ed elettrici pure. C’e’ anche il distributore, che ci indica l'”hotel”: il capolinea dei taxi-brousse. La “salle a manger” era una tettoia di lamiera recintata, con una tappeto a terra. La camera era composta da quattro mura con un altro tappeto a terra. La distinzione tra camera da letto e salle a manger erano i tre cuscini che c’erano solo nella camera.
Un bisogno impellente mi costringe a chiedere al “concierge” (ma te lo immagini??) dov’era la toilette. Il cesso o la concimaia, poca distinzione tra le cose, era un basso fabbricato, anzi bassissimo, totalmente al buio. Centro la porta, alta non piu’ di un metro e mezzo, e mi immagino, al buio, di fare la pip’ in un classico cessetto di un metro per uno con il classico buco in mezzo. Mi sento pero’ un’incombenza sul capo, ricordando subconsciamente di avere aperto una porta alta un metro e mezzo. E cosi’ faccio la pip’ praticamente piegato in due, in avanti, come se mi avessero dato un pugno nello stomaco. In questo modo non avevo nessun modo di sfuggire agli afrori stallatici provenienti dal foro ed inoltre continuavo a non vedere assolutamente nulla: nero totale. Funzione fisiologica espletata e ritorno ai bagordi (sai che roba!!). Il mattino seguente mi reco nuovamente nella toilette (vabbe’ nel cesso) e sorpresa. La costruzione non aveva il tetto. Era alta un metro e mezzo ma era a cielo aperto. Io mi sono rotto la schiena stanotte per fare pip’ e poi sulla testa non avevo nulla. Un altro squarcio di vita africana.
Lascio a voi immaginare il veglione, con danze sfrenate fino a tarda notte, ed il cenone a base di capretto appena ucciso, pandoro con latte condensato e whisky (lo spumante me lo sono dimenticato nella cassa dei medicinali che ho consegnato ad Atar). Sono stato l’unico a fare il count-down a mezzanotte, e nessuno m’ha filato, manco “de pezza”. Un capodanno alternativo, semplice, rilassante, tranquillo, tristissimo.
VENERDI’ 1 /01/1999. SIAMO QUASI FUORI DALLA MAURITANIA.
Abbiamo dormito benissimo e soprattutto al caldo. Al risveglio l’unica colazione era uno sfilatino di pane appena sfornato che il panettiere ci ha portato (e ci ha venduto) condito da urla e divertimento dei maledetti ragazzini che aumentano di numero di minuto in minuto.
Oggi e’ una giornata un po’ triste: ci si deve dividere. Aldo prosegue per Nouakchott per recuperare Roberto e noi ci dirigiamo in Mali. Prima di fare cio’ pero’ occorre riassettare i mezzi per dividerci i carichi (mezza marmellata a me, tre biscotti per uno, la cioccolata fatta con la creta si e’ sciolta: la buttiamo) e per riparare i danni delle piste dei giorni scorsi. Il R.R. ha l’ammortizzatore sbullonato ed ha l’impianto luci morto: a fine lavori l’impianto luci continua ad essere morto e ci siamo dimenticati di imbullonare l’ammortizzatore. Ma oramai va bene cosi’, gia’ dalla partenza eravamo cosi’ e non ce ne siamo preoccupati: figuriamoci all’arrivo!
Dopo i malinconici saluti, le promesse “oh, mi raccomando, eh”, i “ci si rivedra’ in Africa” alla John Wayne, ognuno per la sua strada. Non so quella di Aldo, ma la nostra e’ durata poco: al primo buco, l’ammortizzatore si e’ girato contro il cerchio piegandosi come un serpente e si e’ incastrato tra il cerchio ed il ponte. E poi, per non dimenticarci come si fa, abbiamo bucato ancora. Cambiare la ruota oramai era la mia specialita’, se non fosse stato per quella maledetta erba con i semini fatti a trottolina pieni di spine che ti si attaccano persino al lavoro del tuo dentista. Subito non li senti, poi quando ti siedi, cominci a grattare come se avessi la rogna.
L’asfalto scorre piu’ o meno, considerando che c’e’ un po’ di asfalto tra i buchi e la mia guida e’ oramai solo uno slalom per evitare i crateri o le altre macchine, che, per evitare i crateri mi vengono in contromano.
Sul percorso inoltre abbiamo trovato un R.R. buttato l’ in un cortile (definizione un po’ azzardata). Aveva tutti e quattro gli ammortizzatori! Peccato pero’ che nonostante fosse diroccato come un vecchio castello non ci hanno voluto vendere il ricambio per il R.R. forse anche perche’ non capivano quello che dicevamo? Eh si, in quanto non solo i mauri sono molto islamici, con tutte le conseguenze che ne derivano, ma sono anche un po’ ingnorantelli. Ma era quasi finita: il R.R. poteva farcela anche cosi’, anche se non sapevano ancora cosa ci riservava l’ultimo migliaio di km di pista.
La “route de l’espoir” (espoir = speranza, di non rompere niente che se rimani a piedi sei finito) attraversa una miriade di villaggi che, al tramonto, arricchiti da una luna di dimensioni veramente enormi, sono ancora piu’ belli.
Fra mille peripezie, arriviamo ad Ayoun el Atrouss, dove c’e’ un bell’hotel in cui, prima di fare la doccia, abbiamo dovuto ripassare un po’ come si faceva perche’ era ormai troppo tempo (sei giorni) che non la facevamo. L’acqua rigorosamente fredda, non l’abbiamo nemmeno sentita, ma in compenso abbiamo sentito i nostri corpi ( o perlomeno io ho sentito il mio, di corpo) schiudersi, uscire dalla crisalide di polvere, sabbia e sudore che si era formata in sei giorni di assoluta mancanza di igiene personale.
La cena e’ stata un po’ scarsa perche’, come al solito, era tutto chiuso ed abbiamo comprato due ammennicoli commestibili (qui in Africa). ‰Sta Mauritania con il suo islamismo profondo e radicato ci sta un po’ stufando, nessuno che ride, fanno tutti la fame, quando non fanno la fame fanno Ramadan e non mangiano, non sono capaci di fare nulla e costano un casino di soldi. Adesso basta , ce ne andiamo.
SABATO 2/01/1999. ARRIVIAMO IN MALI. SI’ MA CHE MAZZO!!!!
Ottimo risveglio, ma la citta’ alle nove del mattino dorme ancora. Non possiamo ripartire se non cambiamo ancora un po’ di ouguiya, siamo proprio rimasti senza. Nel passeggiare in citta’ nell’attesa che la banca ci aprisse, incontriamo una comitiva di italiani di AVVENTURE nel MONDO che hanno fatto un bel giro di deserto con i pick up. Ma io sono sempre convinto del mio modo di viaggiare.
Intanto scopriamo che la banca oggi non apre, non si sa ancora perche’. Le avventure di Fede cominciano: cerca il banchiere (o bancario), che abita nella banca, fallo decidere ad aprirti (intanto e’ gia’ passata una bella oretta), cerca di fargli capire che vuoi cambiare pochi soldi perche’ adesso te ne vai da l’, e intanto lui si e’ inventato che deve fare un po’ di contabilita’ e non ti serve subito. Ma se non lo chiamavo, nemmeno si ricordava di lavorare in banca!!! Dopo un’ora e mezza, qualche ouguiya per uscire da l’, ce l’avevamo in tasca.
Ripariamo alla veloce l’ammortizzatore e proseguiamo ad est verso Nema. L’asfalto ora e’ molto piu’ bello di prima. Ad un posto di controllo ci suggeriscono di uscire dalla Mauritania alla frontiera di Timbedra, circa cento km. prima di Nema. Valutando il fatto che oramai la Mauritania ci ha proprio massacrato i cosiddetti, decidiamo che e’ una bella idea.
Formalita’ di uscita, tasse, balzelli ecc. ecc., maledizioni ecc. ecc. e fuori, verso il Mali. Ancora la pista, di circa 250 km, di sabbia mista ad erba. Molto strana e molto facile piantarsi nella finissima sabbia in cui cresce l’erba. Infatti con le gomme belle dure da asfalto, appena sulla sabbia, abbiamo sbadilato una bella mezz’oretta per riuscire a continuare. Anche qui GPS man ha perso un po’ di colpi e ha tentato di portarmi in Burkina Faso ma non ci e’ riuscito. Per riprendere la rotta giusta abbiamo dovuto fare un sacco di km. fuori pista, in mezzo alla brousse. Abbiamo attraversato un certo numero di classici villaggi africani di capanne di fango. In uno di questi villaggi, chiediamo, per conferma, informazioni sulla rotta. Sbuca da una capanna un tizio in “Bou Bou”, il tipico vestito mauro, e ci spiega che e’ un coordinatore per lo sviluppo agricolo della zona. Alla nostra richiesta di informazioni, inforca la sua moto e con tutto il villaggio che lo spingeva, e’ riuscito a farla partire e ci ha accompagnato fino alla pista.
Per movimentare un po’ la giornata, infine, quel maledetto ammortizzatore, non solo e’ uscito dalla sede, ma ha anche tranciato il condotto dei freni, facendoci perdere tutto l’olio e, soprattutto, lasciandoci senza freni. Ora siamo senza ammortizzatore, senza freni e senza impianto elettrico. Ma siamo quasi arrivati, mancano quasi 700 km. Arriviamo a Nara che e’ ovviamente notte (e quando mai) ma l’aria che si respira e’ diversa. Qui e’ piu’ Africa. Non sento piu’ quella tensione che sentivo a pelle, prima, in Mauritania. La gente e’ diversa (adesso, di notte, non li vedo, sono troppo neri, vedo solo i denti e gli occhi, ma li senti come parlano, come si comportano, ora sono piu’ affabili). Parcheggiamo il R.R. nel cortile della dogana e andiamo a dormire in campeggio, dopo una splendida cena a base di spiedini ed insalata in mezzo alla strada, nel senso che il ristorantino, era al centro della carreggiata. Abbiamo bevuto anche della Coca Cola, solo perche’ la birra l’avevano finita la notte di Capodanno (notare che sono musulmani).
DOMENICA 3/01/1999. MALI’S LIFE.
Avremmo dormito ancora un pochino se qualche imbecille alle 5,30 del mattino non avesse sparato a palla una radio con musica tipica maliana. Con due imprecazioni ad altissima voce, il volume della radio si e’ miracolosamente abbassato, ma tanto il sonno perso non e’ piu’ tornato. Cominciamo a fare le formalita’ di dogana e poi esploriamo un pochino Nara. C’e’ un bellissimo sole e il villaggio e’ molto colorato: adesso s’ che siamo in Africa. Finite le formalita’, il R.R., per non smentire le sue qualita’ di auto sorprendente, ci fa trovare, oltre a tutti i danni sopra elencati anche una gomma bucata. Allora cominciamo con le riparazioni e con un casino di curiosi che hanno tutti i rimedi per tutti i danni possibili per tutte le auto del mondo, ma quando chiedi loro qualcosa, ti rispondono “non so”. Freni quasi riparati, gomme a posto, pieno fatto di benzina super (in Mauritania era solo normale), non ci resta che partire. Mi informo presso il doganiere per l’ufficio assicurazioni: mi risponde con un cenno ed un bofonchio, come dire “stai tranquillo”,”non preoccuparti”. Preso in parola, non mi sono minimamente preoccupato di fare l’assicurazione e parto per la pista di Bamako senza assicurazione. E qui comincia l’odissea.
Alla partenza per Bamako chiedo al poliziotto se la pista e’ molto sabbiosa e lui, preciso, mi ha risposto di no. Si sarebbe anche potuto dilungare un po’ e dirmelo che la pista era per 420 km di t”le ondule’e, proprio come quella che abbiamo gia’ visto sulla pista per Chinguetti. Queste due parole francesi stanno ad indicare un tipo di fondo, proprio delle strade sterrate, che, per azione di erosione ed allo stesso tempo di compattamento dei pneumatici dei veicoli, associato all’azione del vento e delle piogge, crea una ondulazione che puo’ anche essere alta alcune decine di cm. Questa ondulazione, percorsa con velocita’ comprese tra i 30 ed i 90 km/h, crea una vibrazione veramente distruttiva per il veicolo. Durante quei percorsi si sono staccati lo specchietto interno, le maniglie delle porte e si e’ aperto il cofano. Oltre i 90 km/h la vibrazione praticamente non fa danni e non e’ nemmeno cosi’ fastidiosa. Pero’ puo’ essere fastidioso non riuscire a fermarsi ai 90 km/h in quelle condizioni.
Iniziamo la pista, un massacro, una vera botta di grazia per il R.R.. Paesaggi surreali, carovane di locali con tutto a dorso di mulo, mandrie di zebu’ che attraversano la strada, buchi in mezzo alla strada capaci di contenere il R.R., polvere, polvere sempre polvere, l’incrocio con altri mezzi che crea una assenza di visibilita’ (grazie alla polvere) per qualche km. Cosi’ fino al posto di blocco di Mourdiah, un ridente paesino immerso nel verde della foresta.
I due simpaticissimi poliziotti ci chiedono la nazionalita’, da dove veniamo, e si ride e si scherza. Poi mi chiedono i documenti e l’assicurazione, ridendo e scherzando. L’assicurazione?????? Annaspavo, non sapevo come fare, l’assicurazione non c’era, ma ridevo e scherzavo anch’io. E loro ridevano ed io con loro, anche se mi hanno chiesto 100.000 Fcfa di multa, cosi’, ridendo e scherzando. E abbiamo continuato a ridere con la multa, anche perche’ forse di Fcfa ne avevo 5000, s’ e no. Poi mi offrono di contrattare la multa, gia’ loro scendono a 50.000, sempre ridendo. Ed io rifiuto e rido. Finalmente arrivano alla conclusione del “cadeau” (due portafoglio, gadget di una banca) che io, pronto, mi prodigo per far avere loro, in modo da chiudere questo primo disastro. Gia’, non era che l’inizio.
Nella fretta di lasciare i due simpatici bastardi, ho dimenticato la carta di circolazione del R.R., cosi’ ora era senza ammortizzatore, quasi senza freni, senza luci, senza assicurazione e senza libretto.
La pista attraversa Didjeni, dove mangiamo un’anguria buonissima, e dove incontriamo camion italiani che lavorano alla strada in rifacimento. Nei villaggi successivi abbiamo fatto altri gradevoli incontri con poliziotti e personaggi vari.
La temperatura era di circa 30 gradi e, ad un posto di blocco, conosciamo due poliziotti; immaginatevi Stanlio e Ollio, ma neri. Uno grandissimo, con il pancione, faccia simpatica, molto estroverso e l’altro, minutino, piu’ riservato. Li abbiamo trovati entrambi rannicchiati sulle sedie rattoppate con nastro adesivo e cordini, come se avessero freddo. Noi ovviamente a dorso nudo, nonostante la mia epa prominente e, nei buchi, anche traballante. Scendiamo a salutare e a portare loro i documenti per il controllo di rito e notiamo che avevano, entrambi, due paia di pantaloni e due paia di calze di lana!! Per loro era inverno o meglio “hivernage”, cioe’ un lieve calo della temperatura dovuto al cambio di stagione che qui, per motivi di latitudine si sente molto meno. Il fatto di avere 30 gradi anziche’ 40 non credo possa giustificare la doppia dotazione di abbigliamento. Io, se fossi stato vestito cosi’, a quelle temperature, avrei avuto dei problemi di natura casearia, se mi e’ concesso, sotto le ascelle e soprattutto nei piedi. Cric e Croc, nella piu’ scontata delle attivita’ delle popolazioni africane nei confronti dei turisti, cominciano a chiedere da dove veniamo, ecc. ecc. Ovviamente alla parola “Italia” e’ tutto piu’ facile, gli “amici italiani”, i “fratelli”, i “cugini” Ma questo signore aveva una curiosita’ impellente. Non aveva mai visto la neve e voleva avere delle foto con la neve. Ci ha anche chiesto se la prossima volta che saremmo tornati l’ gliene avessimo portata un po’, e questo ci ha fatto capire che, non solo non l’aveva mai vista ma nemmeno sapeva cosi’era. E ci ha pagato le arachidi, le arance, ci ha dato l’indirizzo, ha preteso il nostro. Io guardo a queste cose sempre con un po’ di diffidenza, conoscendo i tipi, al contrario di Igor che, nella piu’ completa fiducia, asseriva che era un tipo veramente disponibile e simpatico. Niente in contrario ma volevo vedere dove sarebbe andato a parare in futuro, con i nostri indirizzi in mano. Potresti anche trovarteli con tutta la famiglia davanti a casa, una domenica mattina, ad esempio. E non sono cose belle. Si riparte dunque, senza preoccupazione alcuna per quanto sarebbe potuto succedere dopo.
Il problema della carta di circolazione, ovviamente, non e’ venuto fuori subito, ma quando siamo arrivati al “barrage” (posto di controllo tipo dogana) di Bamako. Il funzionario mi chiede passaporti, assicurazione, documenti del mezzo e patente, che notoriamente, per quanto riguarda l’internazionale, io utilizzo scaduta. Bene, di quattro documenti ne avevo uno, ma con un po’ di fantasia (in Africa e’ quella che ti tira fuori) e di pena (che facevo al poliziotto), siamo riusciti ad entrare in Bamako. Ovviamente il certificato di proprieta’, con il suo bel bollino prismatico, e’ diventata la carta di circolazione e la patente, opportunamente presentata, e’ passata. Per l’assicurazione mi ha ordinato di provvedere il mattino dopo, in citta’.
Siamo entrati a Bamako. Subito il caos si e’ fatto notare, il traffico e’ la vera piaga di questo posto. C’e’ una caligine perenne che avvolge tutto, tutti vanno in giro con la mascherina (l’hanno capito persino loro che sono africani che lo smog fa male), le auto corrono sempre e dovunque, dopo di loro moto e motorini. C’e’ sempre gente ovunque che va da tutte le parti; ogni angolo della citta’ e’ un mercato che vende di tutto: dall’abbigliamento di Carlo Klein (il famoso marchio CK) oppure Giovanni Armani (rigorosamente made in Forcella, provincia di Napoli) alle teste di scimmia da utilizzarsi come feticci nei riti religiosi locali. Questa e’ una vera citta’ africana, smog a parte. Il traffico e’ tentacolare, il dito medio alzato e i vaff si sprecano perche’ guidano proprio da cani. Cercavamo l’hotel Bamboo, non so nemmeno perche’ quell’hotel, e invece troviamo l’hotel Naboun, anche perche’ il Bamboo alla fine non esisteva, gestito da un ragazzo che e’ interessato al nostro R.R. Domani trattiamo la vendita e, se va bene, ritorniamo a casa.
LUNEDI 4/01/1999. LIVING IN BAMAKO and back home.
Finalmente dormiamo un po’ di piu’ e soprattutto in un letto vero. Fa molto caldo, ma non possiamo usare il condizionatore perche’ abbiamo pattuito il prezzo senza il fresco, cioe’ la camera ardente costa di meno. Dopo colazione l’albergatore, un ragazzo di colore veramente degno di fare l’attore, con un portamento da star, un bel ragazzo nero insomma, ci convoca per contrattare la vendita del R.R. che gli e’ subito piaciuto, cosi’, di primo impatto. Io sparo una bordata che ha fatto tremare l’albergo, gia’ precario in quanto struttura africana, e lui con un fair play pari ad un lord inglese prossimo alla sua caccia alla volpe,me lo abbassa di un poco ed io con una faccia di tolla incredibile gli spiego che lo faccio per lui, che mi e’ simpatico, e decido di accettare l’offerta. Stretta di mano a coronare l’atto di compravendita, dieci minuti di relax (e non e’ stato facile tutto l’ambaradan di vendita) e poi si va in banca a prendere i soldi. E’ fatta!!!! Siamo liberi dall’incubo del R.R. e si ritorna a casa. Nella pausa relax decido di smontare le targhe, al fine di evitare di dimenticarle a Bamako ed accorgemene quando sono al P.R.A., mentre sto facendo la demolizione: in totale il R.R. adesso e’ senza freni, luci, libretto, assicurazione ed anche targa. Boh, c’est l’Afrique.
Scadono i dieci minuti di relax e ci avviamo verso la banca, in centro a Bamako con il R.R. nelle condizioni di cui sopra. Il traffico tentacolare, lo smog, tutto quello che volete, anche un idiota completamente assente (per non dire altro) che si e’ messo, in pieno incrocio, a carambolare tra le auto in coda, probabilmente convinto di essere alla guida di uno Stealth, per terminare la sua corsa idiota (tra l’altro con un Renault 14 di trent’anni almeno) contro la porta del R.R. Essendo conscio della situazione “documenti”, mi sono visto, in un attimo, nelle patrie galere maliane a pane ed acqua, ed alla merce’ del mio possibile compagno di cella, alto due metri con una dotazione attributiva maschile degna di un estintore, ed infatti le premesse erano quelle: poliziotto nel giro qualche secondo (ma dov’era, sotto il R.R.?) e diecimila spaccaballe che opinavano e testimoniavano in bambara (lingua locale) dicendo a me, sempre in bambara (con l’accento sull’ultima “a”), cosa dovevo fare. L’albergatore si era visto sfumare un affare (sai che affare) e cercava di tamponare la situazione interloquendo tra me e le seimila controparti. L’idiota, convinto di essere alla scuola di guida veloce di Carlo Rossi, che prima di centrarmi la portiera aveva cilindrato anche un minibus, diceva che era colpa nostra, che se noi non eravamo in mezzo lui passava e che voleva “le constat” dell’assicurazione, praticamente il nostro CID. In poche parole il suo discorso non faceva una grinza esattamente come non fa una grinza il fatto che se non piove, fa una bella giornata. Il poliziotto sequestra tutti i documenti, il R.R. e’ stato spostato sul marciapiede fra bancarelle di schifezze e storpi elemosinanti, l’idiota mi tiene il muso e non mi parla piu’ (tanto il bambara non lo capisco), Igor forse comincia a capire l’accaduto, il conducente del minibus parla solo bambara e balbetta come un mitra (MA A CHI SE NON A ME?) ed io , con la situazione in pugno, decido di abbandonare tutto per ragionare un po’.
Dovevo dedicarmi all’affare della vendita, che ora dovra’ essere leggermente ritoccato: “mi tolga ancora qualcosa” e avrei potuto togliergli la portiera ammaccata. Partiamo io, Igor e l’albergatore con un ostaggio: il conducente del minibus (ma perche’?) in direzione della banca o meglio delle banche perche’ qui comincia la seconda parte dell’apocalisse. Le banche in Africa sono qualcosa di particolare, la burocrazia italiana in confronto e’ la cosa piu’ semplice e veloce del mondo. Il marasma agli sportelli poi, ricordava molto il traffico tentacolare che ci eravamo lasciati fuori. Alla prima banca non si poteva fare nulla perche’ l’albergatore sul conto non aveva tutti i soldi, allora passiamo ad una seconda dove pero’ non aveva nemmeno il conto, in modo da dirigerci verso una terza dove manco l’avevano mai visto, per ritornare cosi’ sulla prima e cosi’ via. Capito l’andazzo gli ho chiesto se c’era qualche problema e lui con un sorriso enorme mi ha detto ” no stai tranquillo, al massimo me li manda mia sorella dalla Svizzera!!” “Che bello” ho detto io ” ma quando tutto cio’?” ” Verso la fine di febbraio!!” Lo avrei ammazzato, cosi’ a mani nude! ‰Sto coglione non solo non aveva i soldi, ma mi ha illuso e mi ha fatto andare in giro senza documenti, senza niente, con tutto quello che mancava al R.R. insomma! “se ti fidi, io poi te li mando in Italia se devi rientrare” un bel va a C..E e il gioco e’ fatto!
Adesso la situazione si stava leggermente rendendo un pelino critica: il rientro doveva essere imminente ed il R.R. era gia’ da troppo tempo che girava in citta’, oramai avevano capito che nessuno lo voleva e gli acquirenti sparavano cifre ridicole ed era anche incidentato. Il problema incidente si e’ risolto con un niente totale cioe’: di fronte alle due parti (da seimila si erano snellite a due) che con una bella stretta di mano avevano concordato il danno, il poliziotto ci ha ridato i documenti e siamo andati dal carrozziere che con –ATTENZIONE– ben 2500 Fcfa, pari a circa 7500 lire italiane (diconsi liresettemilacinquecento) ci ha raddrizzato la porta del R.R. senza verniciatura. C’est l’Afrique. Ma il problema R.R. si faceva sempre piu’ pesante e minava la nostra partenza.
Mentre eravamo alla deriva, in pieno centro a Bamako, incontriamo due semidelinquenti, di quelli che ti risolvono tutti i problemi in cambio, solo, del tuo sangue. Naturalmente ce li accolliamo e partiamo alla ricerca di potenziali (retaggio del linguaggio professionale) acquirenti, anzi di sicuri acquirenti, a giudicare dalla spavalderia dei due pirla. La frase piu’ ricorrente era “e’ gia’ venduta”, “stasera prendi l’aereo per l’Italia.” S’, s’ tre giorni dopo pero’. Abbiamo girato in lungo ed in largo tutta la citta’, dai bassifondi ai quartieri alti (uguali ai bassifondi) abbiamo conosciuto ogni tipo di personaggio, siamo entrati in tutte le case, abbiamo mangiato con tutti (e abbiamo pagato sempre noi, ovviamente), persino al ristorante cinese (a Bamako!!!), siamo stati fermati dalla polizia ovviamente senza motivo e, sempre senza motivo, per poco non ci sequestrano il mezzo ed il mio passaporto. Ma ad un certo punto incontriamo dei francesi, titolari di un panificio e di una societa’ d’informatica che, non so come e non so perche’, decidono di comprare il R.R.
Adesso le nostre avventure sono proprio finite o quasi. Infatti Igor, facendo un gesto con le dita delle mani disposte a “cinque” leggermente piegate verso l’interno ed appoggiando questa figura ottenuta su una superficie vetrata (cercare di arrampicarsi sui vetri, ragno, insomma, un po’ rabbinotto), ha girato tutte le agenzie di viaggio per cercare un biglietto aereo a basso prezzo e dal 1.200.000 lire proposto dall’AIR AFRIQUE, mia compagnia preferita, siamo riusciti a comprare dei biglietti a 600.000 di AIR ALGERIE, un nome una garanzia, sulla stessa tratta di volo. Convenevoli di rito con l’albergatore, peccato sia gia’ finita ritorneremo di sicuro bastardo mi volevi ciulare ecc. ecc., l’albergatore ci accompagna con i nostri bagagli battenti bandiera panamense ( a giudicare dal tonnellaggio potevano essere scambiati per navi), all’aeroporto di Bamako, probabilmente uscito dal recupero urbanistico di una discarica, tenendo conto dello schifo che faceva, perche’ alle 23,30 avremmo avuto il check-in. ” Puntuali eh, mi raccomando” ci disse la babbiona dell’agenzia. L’aeroporto era un po’ come la fiera Carolingia di Asti, perlomeno con la stessa quantita’ di gente. Tutti che partivano, con un po’ tutte le compagnie disponibili, e verso le 22,30 anche noi cominciamo l’attesa. ” Sai e’ meglio arrivare un po’ prima ci fossero mai dei problemi” Ogni tanto, dopo una gracchiata dall’altoparlante, che vomitava sulla sala d’attesa suoni metallici da carpenteria in ferro, una fiumana di gente si dirigeva verso il terminal indicato per una qualche destinazione e, a poco a poco, la sala d’attesa, prima gremita di ogni tipo di turista o uomo d’affari, si stava lentamente svuotando. Ma noi no. Ligi, al nostro dovere di sfigati, restavamo l’ ad aspettare che la smerigliatrice ci chiamasse.
Adesso sono le 23,30, dovrebbero aprire l’imbarco per Bamako Algeri Parigi con volo Air Algerie! Vai si torna a casa!
Adesso e’ mezzanotte sono un po’ in ritardo, s’ ma vedrai che tutto si aggiustera’!
Adesso e’ l’una maledetti, devo morire in Mali? Chiediamo a qualcuno: ” non sapevo nemmeno ci fosse l’imbarco” mi risponde uno degli addetti a non so cosa, interpellato sul caso Air Algerie.
Alle tre del mattino arriva uno che sembrava usciva da un camion della nettezza, tutto stropicciato, e sudato come se avesse fatto la sauna vestito, e ci dice che i problemi al volo per Algeri e Parigi sono risolti. Peccato pero’ che l’aereo e’ ancora ad Algeri ma sta per arrivare. Effettivamente quei 5000 km di distanza non sono quella gran cosa. In poche parole ci siamo rotolati sul pavimento della sala d’attesa, in cinque o sei, per tutta la notte cercando di dormire almeno un po’, fino alle sette e mezza del mattino successivo, quando uno, anche con un po’ di premura, ci ha chiesto di sbrigarci a fare l’imbarco. Ogni commento e’ puramente superfluo, ora, ma in quel momento c’era il mio angelo custode, se era ancora con me, che piangeva dalla disperazione a sentire quello che ho detto al tizio. Il decollo poi e’ avvenuto alle nove per cui un ritardo totale di nove ore e mezza per un volo di cinque ore e mezza. A voi i commenti.
Le mie minuziose elaborazioni mentali avevano calcolato tutti i trasferimenti, con tutti i cambi di mezzo, treno, aereo, peraltro gia’ sperimentati l’anno prima da Dakar, fino a Torino. Una volta arrivati a Parigi con nove ore di ritardo era tutto andato a farsi benedire. Non c’erano treni che ci avrebbero portato fino a Torino diretti, ma solo fino a Lione e poi domani saremmo arrivati finalmente a casa. A questo punto, forse.
Una volta a Lione eravamo praticamente sicuri di arrivare a casa e dare un taglio a questo viaggio che, per sfigato possa essere stato, sara’ sempre una pietra miliare, voluta da noi, della nostra vita, per vedere, viaggiare, vivere, addentrarci, in uno dei paesi piu’ affascinanti del mondo, l’Africa. Senz’altro sara’ da raccontare ai nipotini, se mai ne avremo.
Se mi pagassero per fare questa vita, credo non avrei prezzo. Ma l’Africa ti da’ talmente tanto che lo farei gratis, purtroppo, pero’, nemmeno tutte le volte che voglio. Quando dal finestrino dell’aereo vedevo la terra che si allontanava mi ha assalito la tristezza. Potrebbe, per mille motivi, essere stata l’ultima volta per me in Africa. Spero comunque sempre che “mama africa” mi voglia ancora con se’ tante altre volte e se e’ vero che ne sento il richiamo periodicamente, proprio come il vero malato d’Africa, allora sono sicuro che lei e’ l’ che mi aspetta. Io, come un bravo figliol prodigo tornero’ senz’altro da lei a farmi cullare tra le braccia della brezza del deserto o a farmi raccontare delle fiabe fatte di rumori impercettibili e di silenzi infinti o a gustare i mille sapori del deserto, della foresta, del mare della savana.
Per sempre.
FEDERICO GAMBA.
P.S.: Vi ricordate il poliziotto incontrato prima di Bamako, quello che somigliava a Ollio? Bene, circa un mese fa, mi e’ arrivata una lettera in cui lui mi salutava e augurava tutto il bene possibile a tutti quelli che mi circondano ed altre smancerie (per non dire altro), dilungandosi per altro parecchio, anche melensamente. Alla fine, l’ultimo periodo della lettera era, come mi aspettavo, una piccola richiesta, da lui definita “una cosa che io senz’altro potevo fare, senza problemi ( per lui forse)” Mi chiedeva in regalo (naturale no?) solo una telecamera, bella pero’, per filmare le feste tipiche della sua gente e poi lui mi avrebbe inviato i filmati. Cosa da poco no? Una robetta anche solo da un paio di milioni, mica di piu’.
MA A CHI SE NON A ME?
a chi ha avuto la pieta’, la costanza, la gentilezza di leggere, rileggere masochisticamente questa accozzaglia di stupidaggini.