Sahara.it

Sahara.it

il sito dedicato al sahara, alle sue genti ed ai suoi viaggiatori

Mali 1997

– Posted in: Africa, Nord Africa, Resoconti di viaggio

By P.Cautela
Originally Posted Sunday, July 11, 2004

 

MALI 1997

26 ottobre, ore 6,15:in albergo a Bamako.

L’atterraggio a Bamako, ieri sera, é stato…particolare. L’aereo ha cominciato a scendere, poi ha tirato fuori il carrello, mentre io cercavo di vedere qualcosa dal finestrino. Ma…niente!

Solo il buio denso e totale di una notte senza luna, interrotto qua e là da qualche lampadina isolata. Solo quando, da quei lumicini sparuti, abbiamo capito che appena poche centinaia di metri ci dividevano dal suolo, ci é venuta incontro la città, fatta di strisce di luce gialla e lattiginosa. Ma la sensazione – mentale e fisica – di stare atterrando, finalmente, in “Africa nera” mi é rimasta addosso, metafora da due soldi che descrive la distanza tra “noi”, turisti innamorati di un continente che ci riporta lontani nel tempo e nello spazio, e “loro”, gli abitanti, che – chissà? – forse di quella lontananza farebbero
volentieri a meno. Pur di avere i vantaggi ed i comodi difetti del “progresso”.

Quest’ultima considerazione sembra fatta apposta per quello cui assisto poco tempo dopo. Corriamo, con le nostre 4×4, sulla strada che ci porta all’Hotel de l’amitie´, la nostra residenza a Bamako. Scorrono velocemente misere casupole di terra, cemento, lamiera, legno. Nella penombra si scorgono gruppi di persone raggruppate davanti alle case. Gruppi di due, tre, cinque, dieci; chi seduto su una sedia, chi in terra, chi appoggiato ai muri.

Tutti illuminati solo dal pallido biancore che viene dai televisori…
Verso mezzanotte, sceso nella hall dell’albergo per procurarmi dell’acqua e per protestare per il mancato arrivo del bagaglio, ritornando in camera mi sono dovuto sottrarre al delicato ma insistito tentativo di sottopormi ad un “massaggio” da parte di una delle ragazze che bazzicano, più o meno con continuità, nella hall dell’albergo. Fatima – o così ha detto di chiamarsi – si é infilata dietro di me nell’ascensore, mentre le porte si stavano chiudendo, per poi seguirmi fino alla porta della stanza, tentando di convincermi con due bellissimi occhi neri ed il sorriso ammiccante sul volto. Ma lo ha fatto senza mai esagerare, quasi in punta di piedi, rimanendo sempre un passo dietro di me.

Ho sentito l’amarezza di provenire dallo stesso mondo di quelli che qui sono sempre venuti solo per depredare, per rubare a questa terra i  suoi frutti migliori, per usarla senza dare nulla in cambio; o nulla di diverso dal misero prezzo pagato per la sua prostituzione. Mi sono svegliato presto, stamattina.

Il Niger, immenso, scorre tranquillo sotto le finestre dell’albergo.
C’é pace in questa strana luce malata dell’alba di Bamako. Ho aperto la finestra per fare qualche foto. Il caldo afoso, denso mi ha colpito a tradimento. Non so perché, ma non me lo aspettavo….
27 ottobre, ore 21,30: al campo vicino a Nando.
E’ curioso. Sono qui che scrivo, alla luce della torcia elettrica, con, nelle orecchie, il rumore di una leggera pioggerellina sulla tenda. Guardo fuori, attraverso la zanzariera, e vedo il cielo terso, pieno di stelle, di una serata magnifica. Insetti, una vera pioggia, attratti dalla luce.
Ma io sono chiuso in tenda, nonostante il caldo, “al sicuro”.

Comunque, venendo al succo della questione: che giornate! In due giorni abbiamo lasciato Bamako e le sue casupole sparse sulle rive del Niger, e, attraverso, prima, una fitta boscaglia e, poi, una savana via via più brulla, siamo arrivati a Djenné e, quindi, nei pressi della falesia.

La sorpresa e l’eccitazione di ieri per il mercato di Konobougou e per la moschea di San, oggi sono esplosi a Djenné.

Attraversare il Bani in “traghetto”, accalcati insieme a cento volti diversi, arrivare nella città di fango…alla sua moschea, grande ed imponente. Al mercato. Il “mitico” mercato del lunedì di cui avevo letto. Beh, varrebbe la pena di venire sin qui solo per questo.
Per i mille colori, per i mille odori, per il caos che attornia i minareti della moschea, per il brusio che diventa boato. E’ un’emozione fortissima; é come la Djema-el-fna moltiplicata al cubo. Oggi si, oggi siamo “altrove”, oggi siamo in un altro tempo…

29 ottobre, ore 17,45: al campo a sud della falesia.

Dogon! Se le impressioni di Djenné riportavano ad un altro tempo, la falesia riporta all’alba dell’uomo. Villaggi di pietra e di fango lungo i dirupi. Vita fatta di sofferenza, in continua lotta contro una natura nemica, una natura che non da nulla di più di ciò che basta per vivere…e, forse, talvolta nemmeno quello. L'”effetto zoo” é spietato.

Tu che arrivi con i tuoi gadgets del ventesimo secolo, con l’orologio al quarzo, la Nikon e le scarpe da trekking ultimo modello. Tu che qui sei come un marziano, come un viaggiatore del tempo. Tieni in mano con pudore, e qualche volta – perché non dirselo… – con malcelata ripugnanza,
la manina di un bambino lurido, con addosso i segni dei parassiti e delle malattie. Si, non é facile digerire quegli occhi sorridenti, che ti chiedono solo un “cadeau”; quegli occhi che non dovrebbero lasciarti dormire. Ma tu dormi lo stesso, con solo quel piccolo fantasma smagrito a farti compagnia. In fondo, sei solo un turista.

Un po’ cinico, ma senza saperlo. Un po’ cinico, ma senza il coraggio di dirtelo. L'”effetto zoo” é spietato. Ma se riesci a superarlo, se sei abbastanza duro o, magari, solo un po’ distratto l’emozione é una freccia che ti si conficca nel cuore. Scendere a piedi la falesia, fra rocce di milioni di anni che si aprono come ferite nella carne viva, ti fa viaggiare nel tempo. E davanti ai tuoi occhi si schiudono scenari da fiaba; villaggi disegnati dalla mano incerta di un bambino, volti di un tempo che sembra non scorrere, campi coltivati, strappati al deserto che avanza. E l’emozione ti prende alla gola; così forte che vorresti urlarla, così dolce che vorresti tenerla solo per te, così struggente da toglierti il fiato…

E allora ti chiudi in tenda, con gli occhi ancora pieni di luce e di colore, e ti chiedi, ancora una volta, come  sia possibile – se sia possibile – essere innamorato di un continente.

31 ottobre, ore 6: al campo sulla duna..

Siamo nel buco del culo del mondo, non saprei, ormai, come altro definirlo.
Un buco pieno zeppo di miglio e di sorgo, di case di pietra e di fango, di sabbia e di terra, di sorrisi e di lamenti. Ieri pomeriggio, a Bamba, abbiamo visto il paradiso terrestre, apparire dal nulla, inatteso e sorprendente.
Un paradiso di natura lussureggiante ai piedi della falesia, pieno d’acqua, di ninfee, di campi di miglio dorato. Abbiamo visto il paradiso, ma un paradiso che non é affatto come ce l’hanno descritto. Un paradiso che assurdamente, terribilmente ricorda l’inferno. L’inferno che vedi negli occhi, pure dolci e sorridenti, di un bambino, che vedi nelle piaghe sul viso di una madre, che vedi nella pelle, che sembra di cuoio, di un vecchio. A sera abbiamo messo il campo sulla duna che si staglia netta, rossa di sabbia, davanti alla falesia.

Mandrie di buoi, pecore e capre al ritorno dal pascolo di giornata; pastori peul a cavallo, personaggi da fiaba nelle loro tuniche cobalto; donne con l’acqua dei pozzi. Tutto attorno a noi, tutto in mezzo a noi; qui, nel buco del culo del mondo. E tu non vorresti andartene più via…
1 novembre, ore 14,45:sulla pinasse, appena partiti da Mopti.
Niger: é iniziata la seconda parte del viaggio. Sulla pinasse, decisamente comoda, ci avviamo verso Tombouctou – sarebbe a dire Timbuctù.
L’acqua ha preso il posto della terra rossa e del miglio. Mentre ci rilassiamo, stesi – o dovrei dire buttati – sui cuscini delle panche, ci scorrono attorno le barche dei pescatori bozo, i villaggi di fango, con le donne chine sulle rive del fiume a lavare i panni ed i bambini con i visi illuminati per le risa, gli uccelli – tanti uccelli – e l’acqua. E’ iniziata la seconda parte del viaggio.

3 novembre, ore 8,15: sulla pinasse.

Ieri sera abbiamo messo il campo in una zona, grazie a Dio, libera da
zanzare. Il timore suscitato dalla sera precedente, in cui siamo stati letteralmente divorati dagli insetti, ci ha fatto mangiare al buio, alla sola pallida luce delle stelle e d’un fuoco di legna acceso a qualche metro dal tavolo.
Pian piano il sonno si é impadronito di tutti, che, uno ad uno, si sono allontanati dal tavolo, dirigendosi verso le tende. Siamo rimasti solo in cinque: Stefania e Graziella, Laura, Gianni ed io.

Sono le dieci passate e la conversazione va a scatti, seguendo il flusso del torpore, che ci prende e ci lascia, come un pescatore che da lenza alla preda prima di farla sua. Alle ragazze sembra di udire voci e risa provenire dal villaggio poco distante. In breve tempo si decide che “sicuramente” si tratta di una festa, cui decidiamo di invitarci, accompagnati da Oumar, il cuoco che parla bambara, dogon, bozo e francese e che, con pazienza, asseconda il nostro desiderio. Dopo dieci minuti di cammino nei campi bui, a stento illuminati dalle nostre torce tascabili, arriviamo al villaggio.
Buio, silenzioso. Udiamo solo qualche bisbiglio, che proviene da chissà dove.

Ci inoltriamo nei vicoli bui, trasudanti sporcizia e, in breve tempo, siamo circondati dalla gente. Ragazzi e ragazze, bambini, dai sorrisi aperti e dagli occhi divertiti. Beh, per venti minuti una specie di festa c’é stata davvero; in cerchio, illuminati dalla luce stentata di una sola torcia, timidamente, quasi con incredulità per la stranezza e, forse, stupidità della cosa, ci si é guardati, ci si é sorriso, si sono battute le mani, si é…ballato. Poi, noi si é ripresa la nostra strada; alla spicciolata, gli abitanti del villaggio sono rientrati nei cortili bui. Ed é calato il silenzio.

3 novembre, ore 14: sulla pinasse.

Proseguiamo verso nord, su un fiume che sembra un mare. Alla nostra destra, a pochi metri, scorre una riva che sembra, anche lei, sfuggire ai nostri luoghi comuni. E’ un alternarsi di terreno secco e sabbioso, cosparso di stenti cespugli ed alberelli, e di acquitrino, fitto di erba, che spesso si distende a perdita d’occhio. L’altra riva é lontana, troppo lontana; é una piccola striscia beige punteggiata di verde, là, all’orizzonte.
Proseguiamo verso nord, Tombouctou é ancora a quasi due giorni di viaggio e, man mano che ci avviciniamo al Sahara, il cielo si fa più grigio, l’aria più rovente e le coste più brulle.

6 novembre, ore 9,15: in aeroporto, a Tombouctou.

Ci siamo arrivati. Finalmente abbiamo raggiunto uno dei toponimi classici dell’Occidente che viaggia.

Ma Tombouctou da molto tempo non é più la città immaginata; chissà, forse non lo é mai stata. Forse é stata solo una proiezione della mente, forse un sogno; un po’ come la mitica età dell’oro. Città nascosta, misteriosa, ricca ed opulenta.
Città irraggiungibile, difesa come era, da un lato, dal deserto e, dall’altro, da una natura e da popoli ostili. Forse non é mai esistita veramente, se non come nome su una carta geografica.

Oggi Tombouctou é una città morta, al di fuori di tutto, cadente, immersa in una fitta sabbia gialla, che ti entra dappertutto; persino nel pane, che scricchiola sotto i denti e che fai quasi fatica a deglutire.
Oggi Tombouctou é una città morta, con le sue moschee imponenti e malridotte, con la miseria che ti avvolge come la sabbia del deserto, con le vie larghe e la pianta cittadina geometrica e regolare, che rimandano ad un passato di pianificazioni urbanistiche ed architetture ricche ed imponenti.

Un passato immerso nel giallo della terra e nel bianco abbacinante del cielo. Oggi Tombouctou é una città morta. Questo, e solo questo, il suo fascino. Che va al di là del nome e, forse, anche dei sogni.

0 comments… add one

Leave a Comment