By Pierpaolo Cautela
Originally Posted Saturday, January 1, 2000
ndr le foto verranno inserite quando ci arriveranno, per adesso buona lettura ..
“Fatigué?…”
Amedhani si volta nuovamente verso di noi, sballottati sui sedili posteriori del vecchio fuoristrada giapponese, rivolgendoci ancora una volta la sua premurosa domanda, in una delle rare parole francesi del suo vocabolario. Subito un sorriso ingenuo gli illumina lo scuro viso da tuareg, che il sole ha reso più vecchio dei trentacinque anni che sostiene di avere; viso dall’espressione aperta e cordiale, coronato da un importante paio di baffoni spioventi, che, sembrando usciti direttamente da un vecchio libro illustrato sulla corte asburgica, spiazzano il povero turista, abituato ad una ben diversa iconografia sahariana.
“Fatigué?…”, ripete voltandosi, subito proseguendo con un “ah…ah!…” burlesco, che lo rende maliziosamente simpatico, mentre riprende la sua guida, attenta ma…sportiva, sulla sconfinata pietraia che stiamo attraversando da almeno un’ora.
La nostra “voiture carcasse” – definizione azzeccatissima con cui Beloufi, il cuoco, ha riassunto brevemente lo stato della 4 per 4 – continua nella sua corsa rettilinea nel nulla dipinto di giallo che ci circonda, con solo qualche piccolo scarto per evitare i massi più grandi, mentre un sole infuocato scende veloce alle nostre spalle. Passati a tutta velocità – quella che consente la pista…naturalmente – attraverso il Reg Taita, ci siamo ormai lasciati alle spalle il massiccio dell’Acacous e, con lui, giorni di sabbia rosata, di cieli blu, di pietra nera; giorni passati negli ouadi prodotti dalla roccia che giorno dopo giorno, millimetro dopo millimetro si sfalda e si sgretola, trasformandosi in sabbia.
L’orizzonte piatto che ci circonda ormai a 360 gradi non riempie gli occhi se non di una noia meravigliata, sciogliendo la mente, che, così, può ripercorrere libera le mille immagini ancora impresse nella memoria incredula…
Sebha l’abbiamo lasciata di sera, nel buio d’una notte senza luna, avendo a stento la possibilità di vedere il vecchio forte italiano, che, arroccato sull’unica altura visibile, ne domina le luci giallastre, in prossimità dell’aeroporto.
La strada che ci ha condotto verso Ghat farebbe invidia a parecchie delle nostre; un piatto nastro d’asfalto che, lasciato alle spalle il verde delle palme, fila via liscio tra un mare di dune gialle sulla destra – l’Erg di Ubari – ed un’alta hammada – di Murzuq – che ci sovrasta, scura e tetra, sulla sinistra.
Mentre quasi sfioriamo una gigantesca antenna per telecomunicazioni, dall’altro lato della strada scorre via un gregge di capre, piccoli punti neri nella luminosità accecante della sabbia; punti neri perduti nel nulla, che sembrano dirigersi verso il nulla. La sensazione è strana, inconsueta, diversa dal mio unico precedente sahariano, dalla desolazione e dall’isolamento tangibile del Gran mare di sabbia egiziano. La strada asfaltata, dalla perfezione geometrica, le antenne, il fumo lontano dei pozzi petroliferi, i dromedari, le greggi di capre; tutto in questo nulla, così incredibilmente, assurdamente pullulante di vita.
Ci inoltriamo verso la nostra meta, in una traiettoria est-ovest che segue quasi perfettamente la linea dei paralleli, mentre sempre meno visibili si fanno i segni dell’uomo: la perenne linea elettrica, che segue diligentemente l’asfalto, ancora il fumo di qualche pozzo di petrolio all’orizzonte e…sperduti cartelli che – alternandosi con le pietre miliari – di tanto in tanto indicano un divieto di sosta, nel bel mezzo di questo nulla che si va facendo via via più totale.
Un nulla diviso in due dalla stretta striscia nera che corre sotto le nostre ruote, a sua volta divisa in due dal tratteggio inverosimile della bianca linea di mezzeria, perfetta, precisa, che scompare solo quando la sabbia, spinta dal vento, ricopre il manto stradale, costringendo i nostri fuoristrada a brusche decelerazioni.
Dopo una breve sosta a Serdelès, improvvisamente il paesaggio cambia. La strada comincia a salire e, sempre più spesso, lascia spazio alla sabbia color albicocca, che ne insidia la perfetta, geometrica sinuosità. Inizia anche una lenta curva verso sud, mentre entriamo nelle scure spaccature dell’Acacous.
Non è facile descrivere con le parole quello che segue; è come una passeggiata in macchina su Marte. Bastioni di roccia nera, dalle cui fenditure sembra sgorgare una sabbia dalle mille sfumature; dal beige all’arancio, dal marrone al rosa più puro.
La pista – che, superata Ghat, prende il posto della strada – segue un erg di dune gigantesche, che sembra gareggiare con la roccia per la conquista dell’orizzonte, mentre cumuli di sabbia alti come edifici di venti piani accolgono i nostri campi, in un abbraccio rassicurante di luci e di ombre, accoglienti nel tepore della sabbia di fine giornata.
Il primo, di campo, lo abbiamo messo proprio di fronte ad Idinen, la “montagna del diavolo” dei tuareg – ma ho il sospetto che la cosa sia solo…come dire…una trovata turistica – lassù in alto, su una duna rossa che sembrava toccare il cielo; davanti alle tende, ad oriente la vallata enorme e, poi, l’Acacous, nera, inquietante falesia che satura l’orizzonte, sfumando nell’arancio della sabbia al tramonto.
Mi sembra ancora di sentire il contatto col suolo caldo sotto la pianta dei piedi – finalmente liberi dalle scarpe infuocate – mentre il battito del cuore nelle orecchie si fa sempre più rapido nella corsa senza fiato verso il culmine di questa duna immensa, che sembra non finire mai. E quando, ormai sulla cima, mi volto indietro, una strana sensazione mi prende mentre, stravolto, mi butto in terra.
Osservo le mie orme, sempre più confuse man mano che, avvicinandomi alla cima, la sabbia si è andata facendo meno compatta e più molle, e mi sento quasi in colpa; per aver infranto la purezza di quella duna – che, a pensarci bene, basterà un alito di vento a restaurare – per averne alterato la perfetta curvatura da frattale, per averla calpestata. Mi sento un intruso, un po’ volgare nell’andatura affaticata e pesante di cui l’incerto zig zag delle orme sulla salita sabbiosa è chiara testimonianza; mentre vorrei avere la delicatezza e la dolcezza di questa leggera brezza serale, che sembra accarezzare la sabbia, modellandola a proprio piacimento, dandole la bellezza armonica delle pure linee geometriche. La stessa sottile brezza da cui nasce questa colonna sonora, che nemmeno il rumore lontano dell’ultimo fuoristrada in arrivo riesce a coprire e che è ancora qui, nelle orecchie, sottile, sussurrante vocìo di milioni di microscopici granelli di sabbia in cammino.
Abbiamo navigato per tre giorni su fiumi di sabbia albicocca, ci siamo inoltrati lungo questa ragnatela di fiordi di silicio che solcano, squarciandolo, il massiccio – antico come il mondo – dell’Acacous, un massiccio di roccia scura che sembra trasformarsi, sgretolarsi davanti ai nostri occhi stupiti, fino a sciogliersi in questi fiumi dal colore assurdo di un tramonto nitido come una cartolina. Fiumi su cui procediamo, accompagnati dalla nostra meraviglia.
Meraviglia per l’incontro con un’acacia che improvvisamente appare nel bel mezzo del nulla, contorta e rinsecchita ma viva, piccola macchia di un verde polveroso in un luogo dal quale altrimenti il verde sarebbe bandito.
Meraviglia per quell’arco di roccia cui le foto non riescono a rendere ragione. Immenso, prepotente, ti si para di fronte come all’improvviso, ridimensionando qualsiasi cosa dello stesso tipo abbia mai pensato di edificare l’uomo. L’occhio sembra quasi volergli negare le sue dimensioni reali ed è solo la presenza delle persone – piccoli punti chiari sotto la sua volta… – che ci da la certezza che – sì – quella cosa immensa non è un abbaglio…
Meraviglia per l’incontro con una mandria di dromedari che, nella calura del primo pomeriggio, cerca riparo all’ombra delle uniche due piante della spianata. Animale sopra animale, attorno a quello che appare come poco più che uno stecco e che proietta una misera ombra sui dorsi irsuti di lana.
Dromedari, che ci hanno regalato lo spettacolo – per noi inconsueto – della mungitura, che ci hanno dissetato con il loro latte, ancora caldo e schiumoso, leggero e delicato come non mi aspettavo; ce li siamo lasciati alle spalle, con i due pastori, ognuno con la sua coperta, la sua bisaccia per l’acqua e la minuscola teiera. Lì, sdraiati all’ombra. Nel bel mezzo del nulla.
Ho chiuso per un attimo gli occhi, lasciandomi cullare dal ritmo del motore che va a pieni giri sulla piatta distesa marrone. Quando li riapro è già mattina e stiamo continuando a filare a tutta velocità, questa volta su una spianata gialla di una fina sabbia polverosa.
L’hammada di Murzuq corre veloce sotto le nostre ruote, mentre alla nostra destra enormi dune rosa ci sovrastano, sorvegliando la pianura sconfinata.
Di tanto in tanto la pista è segnata. Un bidone arrugginito, un cumulo di pietre, un copertone. Già…un copertone…
Ci impieghi un bel po’ di tempo prima di rendertene conto. Te ne sfila uno davanti, come per caso e quasi non lo noti. Diventa subito una macchiolina nera sulla sabbia color mattone, che corre via alla velocità della macchina. Ancora quella macchiolina non è scomparsa all’orizzonte – potresti voltarti per vederla, laggiù, che rimpicciolisce nella calura nebulosa – che ne passa velocemente un altro. Poi, un altro ancora, a formare, pian piano, una lunga sequela che sembra non aver fine.
Se lungo le vie consolari gli antichi romani seppellivano e rendevano onore alle ceneri dei propri defunti, qui, lungo questa allucinante striscia d’asfalto che, quasi senza mai curvare, collega Sebha a Ghat c’è sicuramente il più lungo, maestoso ed imponente mausoleo dedicato al pneumatico che io abbia mai avuto modo di vedere.
Pneumatici di tutti i tipi e “ceti” sociali.
Pneumatici di auto, di camion, di fuoristrada.
Pneumatici ormai ridotti a minuscolo, patetico brandello di battistrada e quelli che, invece, sembrano ancora impegnati in un testardo tentativo di affermazione della propria identità e della propria funzione.
Pneumatici semicoperti dalla sabbia, che ne sfuma i contorni e le linee, ed altri che, invece, la mano fantasiosa dell’uomo ha quasi trasformato in assurde statue postmoderne, issati in equilibrio precario su una pietra miliare o raggruppati come in una improbabile natura morta, a sfidare il vento ed il tempo.
Pneumatici isolati, tristi nel loro lento ed inevitabile disciogliersi al sole, e pneumatici che, invece, in gruppo, sembrano voler sfidare l’uomo e la natura, nell’orgogliosa certezza della propria chimica immortalità.
Il tutto si conclude – perché tutto deve avere una conclusione…o no?! – poco prima di Serdelès dove, accanto al posto di polizia che bisogna oltrepassare per entrare nell’abitato, la mano di un ignoto poliziotto ha disposto, in buon ordine, una lunga sequenza di copertoni, conficcati in terra sul bordo dell’asfalto a formare degli archi, che sembrano voler sancire un definitivo trionfo.
A proposito, mentre ero intento in queste considerazioni – che, chissà, forse sono il frutto del caldo – una delle macchine ha forato. Mah…
Il fuoristrada prosegue veloce nella polvere, che un vento leggero sembra distribuire con perizia nell’atmosfera; a stento si intravedono le macchine che ci precedono, avvolte come sono in una nube color sabbia.
Sempre più visibile e marcata si fa la presenza dell’uomo, man mano che ci avviciniamo all’Ouadi Ajal; la pista è diventata un’enorme striscia composta di tracce di pneumatici che, a destra ed a sinistra, puntano nette verso nord, mentre – addirittura – veniamo superati da alcuni camion provenienti dalle zone petrolifere.
L’effetto – come ad ogni “ritorno alla civiltà” dopo un periodo in cui se ne è fatto volentieri a meno – è strano, ci si sente fuori posto, si vorrebbe essere legati ad un gigantesco elastico, per essere nuovamente catapultati indietro.
Ma non è possibile, le macchine ormai puntano decise verso la striscia d’asfalto che, lasciata ormai già da parecchi giorni, sembra attenderci con pazienza per condurci a Sebha e, da lì, nuovamente in Italia.
Atterriamo all’aeroporto di Tripoli che è ormai buio da tempo, il volo di ritorno da Sebha fortunatamente non ha avuto gli “inconvenienti” di quello d’andata e tutto è filato per il verso giusto; persino il recupero dei bagagli non ha avuto intoppi, anche se ho il vago sospetto che il fatto che il nostro sia l’unico aereo ad illuminare le piste della capitale abbia inciso sull’efficienza dei servizi aeroportuali.
L’atmosfera è identica a quella che ci aveva accolti all’andata: silenziosa, ovattata.
Nella grande sala d’attesa le poche, isolate persone sembrano quasi perdersi, mentre la luminosità del neon rischiara d’una luce lattiginosa questa specie di enorme cattedrale abbandonata, con le sue forme di foggia orientale e la lunga sequela di negozi, non più aperti ormai da anni.
L’effetto dell’embargo, qui più che altrove, è tangibile; si ha realmente la sensazione dell’isolamento internazionale del paese, passando per le sale vuote, salendo su scale mobili ormai ferme da un pezzo, guardando gli slogan sbiaditi del regime, che campeggiano sui muri, tradotti dall’arabo in un inglese ed un francese improbabili.
Chissà come sarebbe questo paese senza l’embargo, con i negozi pieni di beni di consumo occidentali al posto degli ubiqui prodotti degli Emirati arabi, con le Volvo e le Mercedes – che pure ci sono, segno tangibile del denaro che, comunque, gira attorno al petrolio ed al regime – moltiplicate per dieci, su questi viali di una Tripoli moderna, che resta a metà strada tra i sogni di sviluppo, che le immense ricchezze del paese consentirebbero, e la realtà di capitale di uno stato maghrebino.
E chissà come sarebbe quest’immenso paese spopolato – che, a quanto dicono, galleggia letteralmente su un mare di petrolio – se non ci fosse Gheddafi. Con la sua curiosa ossessione per il verde, colore che ti entra subito negli occhi, presente ovunque, che domina ed avvolge tutto il paese. Con i suoi ritratti ad ogni angolo di strada. Ma anche con l’attenzione – che non si può fare a meno di notare – per il proprio popolo, cui ovunque non manca il necessario per una vita dignitosa: elettricità, acqua, infrastrutture di buon livello, scuole, case. In un paese in cui tutte queste cose sono sottratte, a prezzo di sforzi immani, al deserto ed a condizioni climatiche ed atmosferiche avverse.
Un bambino sta piangendo da qualche parte ed i suoi lamenti lontani ci accompagnano mentre ci dirigiamo verso l’uscita; mi volto indietro e, guardando i riflessi della luce biancastra sul pavimento di marmo nero, in me c’è solo tristezza. Per questa desolazione; per come è e per come potrebbe e dovrebbe essere…