Originally Posted Friday, July 23, 2004
VIAGGIO IN LIBIA 2003
Viaggio effettuato dal 10 Gennaio al 4 Marzo
A cura di Francesco Desideri
Il progetto di un viaggio in Libia con il camper incontra inizialmente diverse difficoltà reali ed immaginarie, da quelle burocratiche per il visto per il passaggio della frontiera con l’accompagnamento obbligatorio da parte di guardie e guide turistiche,a quelle psicologiche ed emotive connesse col clima politico internazionale, in continua ebollizione, che tiene sulla corda chi si appresta ad affrontare le grandi distanze dei deserti e la singolarità della nazione libica, apertasi da non molto al turismo di massa.
L’ACTI Camperally Club di Reggio ha curato l’espletamento di tutte le pratiche per il suo Camperally Libia 2003, svoltosi dal 10 Gennaio al 4 Marzo, al quale abbiamo partecipato formando un gruppo di 13 camper.
Luigi e Norma Zaccheo, che avevano approntato l’itinerario sulla base di precedenti esperienze, ne sono stati i pazienti ed esperti organizzatori e conduttori.
L’Africa si estende al centro del globo e il vasto continente albergò e vide svilupparsi in evoluzione le più varie forme di vita; il suo paesaggio assunse ed assume tuttora gli aspetti più diversi, molteplici ed opposti.
La Libia, secondo Mu’ammar Gheddafi, il suo capo indiscusso da decenni, è il cuore dell’Africa e se ne proclama polo d’aggregazione morale e politica per la formazione di una grande comunità economica e sociale africana.
Per noi la Libia è quell’immenso “scatolone di sabbia” dalle cui viscere sgorga il petrolio, il tesoro dei nostri tempi e nelle quali, in tempi più recenti, sono stati scoperti incalcolabili, ma non illimitati depositi di acqua fossile, riportata in superficie e distribuita dal sud verso il lontano nord dal Grande Fiume Costruito dall’Uomo per far fiorire il deserto e sfruttarlo a fini agricoli e produttivi.
Il vero oro della Libia, però, non è solo il petrolio, ma la sabbia, come dice Ibrahim, la guardia turistica assegnataci dall’agenzia libica per tutto il viaggio. Sentiamo che ha ragione, perché è il deserto che esercita il massimo fascino ed attrazione e stimola la voglia di viaggio degli occidentali malati d’Africa.
Distanziati da quattro o cinque tipi di deserto, i non numerosi centri abitati del vasto paese sono poli di vita nei quali si assiste ad un animarsi improvviso di gente, armenti e mezzi motorizzati che trovano spazio tra il verde delle palme, delle acacie, degli eucalipti e di appezzamenti coltivati. Fa impressione a chi percorre un itinerario, come all’improvviso l’animazione di questi centri finisca e ricominci monotono l’alternarsi nei vari aspetti dello spazio desertico.
Percorri centinaia di chilometri incrociando solo qualche camion o vedendoti superare da rare vetture a velocità sostenuta sul rettifilo dell’asfalto; sola compagnia è la condotta elettrica non distante, la fascia violetta di dune lontane o il profilo ininterrotto di falesie brunastre, che arretrando si aprono in anse di sabbia e pietra o avanzando si chiudono in monumentali promontori rocciosi. Niente verde, niente alberi, solo mille sfumature di giallo e rari arbusti riarsi.
Un aspetto assolutamente diverso è quello delle zone costiere mediterranee con la capitale Tripoli e gli altri centri non lontani delle celebri città romane.
Il nostro viaggio, dopo la rapida traversata della Tunisia e lo stressante passaggio di frontiera a Ras Ajdir durato, tra una pratica e l’altra, più di sei ore, comincia a Bu Kammash. La strada decisamente punta a sud. Il primo impatto è con un ambiente dove regnano incontrastati vento e sabbia. Ci aspettavamo il sole, invece ben presto un cielo grigio e chiuso manda giù tra la nebbia una pioggerellina sferzante. I dromedari vagano nei pressi della condotta elettrica che ci affianca quasi sempre fino a Nalut, la strada di tanto in tanto è ingombra di sabbia, la cui consistenza va dal ruvido dei granelli all’impalpabile del talco. A Nalut, sul ciglio di un vasto altopiano, il Jabel Nafusa, si apre un bel panorama verso oriente.
Enormi posters di Gheddafi sono agli incroci più importanti della cittadina, il rais ha l’aria del custode e della guida illuminata; nei centri abitati, salvo nel profondo sud, non ci abbandoneranno mai, come del resto i controlli ed i blocchi stradali di polizia, a nostro vedere scombinati e senza senso, poiché non c’è modo di nascondersi nel deserto e alla fine è anche irritante vedersi chiedere per l’ennesima volta l’elenco del gruppo in viaggio.
Lo straordinario qasr di Nalut è diverso da quelli tunisini, raggiunge anche i sei piani e in molti vani si vedono ancora ornamenti e suppellettili; è tra i più antichi ed è stato abitato sino agli anni ottanta.
Si prosegue per Gadamès, trecento chilometri più a sud, paesaggio ancora variamente desertico, pochi o niente cespugli, rare baracche, nessun animale al pascolo, qualche cane randagio e un volo di corvi. Ad un villaggio dove facciamo sosta ci offrono del pane.
A Gadamès arriviamo nel pomeriggio, avendo attraversato ancora un vasto tratto con dune a vista lontane.
La città è antica, molto interessante e suggestiva, è un intreccio labirintico di stradine, vicoli e cunicoli, sui quali si sviluppano le abitazioni su due, tre piani. Ne visitiamo una restaurata ad uso turistico, per il resto la città vecchia è quasi completamente disabitata; il restauro è pittoresco, con armadi, suppellettili e decorazioni ti dà l’idea della floridezza della città che, costruita parzialmente di pietra, fango e legno di palma, fu raccordo di carovaniere e mercato di schiavi strappati dal ventre nero dell’Africa.
Da Gadamès per andare al sud con la carrozzabile bisogna attraversare verso est un altro deserto prima di ripiegare verso Germa. Qui il deserto ha la sua costante nella solitudine, nella monotonia e nella luce, poiché finalmente c’è il sole, anche se continua il freddo: nella notte si scende a zero gradi e di giorno, al riparo del vento, non si superano i dieci.
Nel tragitto verso il sud tocchiamo Brak e approdiamo a Fjeai, nel bel mezzo di una lunghissima valle chiamata “Valle della vita” per la presenza di acqua e quindi del verde, dell’agricoltura per la produzione di ortaggi e legumi; da un villaggio all’altro di questa valle c’è animazione e un discreto movimento di mezzi.
Da Fjeai partiamo con i fuoristrada per l’escursione ai laghi Mandara.
Al limitare del villaggio si erge alta, sino a due, trecento metri, la diga immensa delle dune di sabbia del deserto di Ubari, a destra e a sinistra non se ne vede la fine.
Preso di petto e con grande abilità dagli autisti tuareg, in pochi minuti ci ritroviamo nel mondo della sabbia senza limiti, se non il cielo e l’orizzonte, sempre variante, sempre lo stesso; siamo imbarcati tra saliscendi e montagne russe, creste, colline, inghiottitoi, piane; ci facciamo pian piano l’abitudine, ma nelle soste la sorpresa è grande nel vedere orme di vario tipo e cadenza, di animali e uccelli ignoti sulla sabbia intatta.
Poi, all’improvviso, appaiono le palme in questo mondo giallo e riarso e vedi l’acqua: siamo ai laghi Mandara, emersi da chissà quali profondità. Vicino alla riva pochi tuareg si riciclano per il turismo e vendono i loro monili artigianali i cui segni, belli e misteriosi, raccontano forse la loro storia.
La tappa successiva non è lontana, è Germa, la misteriosa città che in queste lande di frontiera fu alleata e rivale di Roma 2000 anni fa. Ricca di traffici e di conquiste, forte ed aggressiva, ora è ridotta ad un malinconico complesso quasi informe di muri impastati di fango, paglia ed assi di legno duri e resistenti come la calce; anche queste rovine furono riscoperte e valorizzate da archeologi italiani.
L’ultima località toccata a sud è Ghat, da cui si parte con i fuoristrada e muniti di tenda, per l’escursione di tre giorni nel massiccio dell’Acacus, un territorio ampio come le Marche, che racchiude e conserva nelle sue remote coste e valli in mezzo ad un mare di sabbia le incisioni e le pitture rupestri databili, a partire da 12000 anni fa, fino all’epoca romana; l’Acacus custodisce anche le bellezze incomparabili di una natura defraudata del suo verde e ridotta a deserto di rocce e sabbia dalle trasformazioni millenarie del clima.
Siamo nel profondo sud, non distanti dall’Algeria e dal tropico del Cancro, l’aria, non più fredda, rimane però fresca e molto stimolante. Prima della escursione c’era stato il tempo di visitare la città vecchia di Ghat, che ricorda, su scala minore, la più famosa Gadamès. Non si può banalizzare il racconto di quel che si prova nell’Acacus alla visione continua e sorprendente di cime, creste, archi, valli e profili che prendono il nome da ogni possibile immaginazione; questa deve essere stata una terra d’elezione, qui scorrevano fiumi e ruscelli e le piane di sabbia ospitavano uomini ed animali, piante, erbe e fiori, profumi e colori che dovevano avere il carattere dell’unicità.
Noi oggi, a scena mutata, sulle stesse pareti, leggiamo la storia di quell’uomo antico che qui lungamente soggiornò, leggiamo il suo e il nostro antico cuore di animale inquieto condannato a correre dietro i sogni, a concepire l’inconcepibile, a sfiorare con lo spirito chi ci turba e ci sfugge, ci chiama e si nasconde.
La risalita verso il nord, a piccole e lunghe tappe, avviene attraverso spazi deserti: si ritorna a Germa, si ripassa per Sebha, animata e caotica città in bilico tra nord e sud, si incontra per diverse ore nel deserto bianco della Sirte una tempesta di vento e sabbia di discreta forza che ci lascia impolverati e smerigliati e si approda a Sirte, sulla riva mediterranea, dopo aver attraversato un ultimo e consistente tratto di deserto nero e sassoso.
Sirte, ex villaggio costiero dove è nato Gheddafi, ha subito per volontà del capo un notevole sviluppo architettonico, è diventata moderna città monumentale con ampie vie, larghe piazze e imponenti palazzi, destinata a diventare, nei progetti del rais, la capitale dell’unione africana, per il momento un sogno. Qui si moltiplicano e si modernizzano le gigantografie di Gheddafi. E’ evidente che l’insistente rapporto del territorio con l’immagine del capo diventa segno distintivo di un regime autoritario dove i concetti di libertà e democrazia sono ignorati. Il “libro verde”, di cui Gheddafi è autore, contiene una somma di riflessioni critiche sul nostro mondo esposte con una logica che ci è estranea; partono tutte da un attacco contro l’occidente, la sua cultura e le sue istituzioni e si concludono con proposte e soluzioni formalmente simili a quelle dei modelli occidentali.
La magnifica Leptis Magna non è lontana da Sirte; in essa, nelle sue rovine sontuose e molto ben conservate dalla sabbia, rivivono lo splendore e la potenza dell’impero romano.
Come Leptis, ma su scala un po’ più piccola, appare la vicina Sabratha: ambedue furono riscoperte a partire dagli anni trenta dall’archeologia italiana, che ne cura tuttora il restauro.
Tripoli, la capitale, è città molto bella, moderna, ma piena di contrasti: imponente, larga e avveniristica nella parte più recente; malinconica e in lento abbandono nella medina; ricca nella zona coloniale, trasandata e degradata nei quartieri “africani”, abitati da immigrati neri regolari e clandestini, ai quali sembrano riservati i lavori più umili e faticosi.
Ci stupisce nella medina il groviglio incredibile dei fili elettrici con i loro allacci allo scoperto, come indice di una funzionale precarietà. Il cielo di Tripoli è luminoso e pittorico, specie nei tramonti, quando l’oro dei raggi sfuma nel rosa e nel grigio fra strisce di turchese. Pezzo forte della città turistica è il museo storico archeologico, bello, ricco ed interessante. La guida, che ci ha condotti alla scoperta di statue e mosaici di Leptis e Sabratha ivi conservati, ci ha anche esposto alcuni elementi della vita del paese, nel quale il 90% dell’etnia libica in età di lavoro è impiegata dello Stato, mentre ai livelli sociali più bassi dell’intera popolazione è assicurato, con distribuzione mensile a prezzi irrilevanti, quanto basta per vivere.
Ad ovest della città, al margine della medina, i due opposti si toccano: accanto ai palazzi, agli alberghi e ai grattacieli, appena al di là delle mura della città vecchia , si svolge giornalmente, in un caos indescrivibile, il mercato “africano” dove si compra e si vende l’incredibile.
A Tripoli il viaggio può dirsi terminato. In conclusione il rally 2003 è stato stimolante e autenticamente culturale; ha appagato le esigenze naturalistiche, estetiche ed artistiche e ha reso disponibili per una valutazione critica aspetti vari e contrastanti di una nuova e vecchia realtà che emergono, per non essere retorici e devianti, dal confronto tra quello che si vede e quello che ciascun viaggiatore porta con sé del suo mondo di provenienza.
Francesco Desideri