RICORDI DI VIAGGIO
(ZAMBIA e BOTSWANA 2016)
KONRAD LORENZ e L’ELEFANTE
Zambia, maggio 2016
Eravamo alla fine di una lunga giornata africana.
Una giornata non particolarmente entusiasmante, nella parte Nord del Parco Nazionale Kafue, pochi animali e paesaggio non molto attraente, non foresta e non savana.
Stiamo raggiungendo il Kafwala Rapids Camp, ai margini delle belle rapide del fiume Kafue dove sosteremo per la notte. La pista si snoda tra grandi alberi, siamo rilassati pensando all’ormai imminente riposo.
Qualche antilope non basta a suscitare il nostro entusiasmo.
Sbuchiamo in una piccola radura quando, all’improvviso, ci troviamo ad una trentina di metri da un magnifico esemplare di elefante che ci fronteggia. Si capisce perfettamente che si tratta di un esemplare adulto ma giovane. Il corpo possente e perfetto, due zanne non esagerate simmetriche ed impeccabilmente tornite, l’aspetto e l’atteggiamento arrogante, da bullo di periferia.
Probabilmente un maschio isolato, nel periodo degli amori, in cerca di avventure galanti.
Ci fermiamo.
Non vogliamo perdere l’occasione di scattare qualche immagine, la giornata è stata piuttosto avara in fatto di opportunità fotografiche.
Ma il bullo non gradisce, spalancate le sue enormi orecchie, dopo avere sbuffato nel terreno sabbioso sollevando con la sua proboscide una nuvola di polvere, ci fa chiaramente capire che dobbiamo sloggiare.
Ci fronteggia baldanzoso e non esita a…..partire all’attacco !
Ho il motore acceso e la prima innestata ma l’angolo che c’è tra noi ed il pachiderma non ci consente via di fuga.
Fare un rapida marcia indietro nella stretta , tortuosa e sconnessa pista, impensabile.
Che fare? la sproporzione tra la sua forza distruttrice e le nostre possibilità di difesa abissale.
Potrebbe ridurci in polpette con facilità irrisoria.
L’unica nostra possibilità di scampo era che l’elefante fosse abbastanza “evoluto” da avere studiato e soprattutto assimilato le lezioni di Konrad Lorenz.
Il famoso etologo austriaco, premio Nobel nel 1973, ha teorizzato, studiando il comportamento degli animali, l’esistenza di una “ distanza di fuga” che è quella distanza che l’animale reputa sufficiente per poter fuggire dal potenziale nemico e di una “distanza critica” che è quella ove l’animale, sentendosi in trappola, attacca per sopravvivere (fighting like a cornered rat).
Konrad Lorenz però si è limitato a dire che in teoria esiste, per ogni animale, questa distanza critica ma non ci dice, nel caso pratico dell’elefante, quanto misuri questa distanza.
E poi rimane sempre il dubbio: Lorenz ha elaborato, le sue teorie osservando il comportamento dei suoi cani con altri cani “avversari”, il tutto in terra d’Austria ma avrà studiato il comportamento degli elefanti in terra d’ Africa?
E ancora e sopratutto, conoscerà il nostro elefante queste teorie?
Dato che sono qui a raccontarlo posso affermare che il nostro pachiderma conosceva le teorie del premio Nobel e che si è trattato di un falso attacco (detto di avvertimento) poiché la distanza critica non era stata superata.
Posso in ogni caso assicurare che in quel momento l’adrenalina si è fatta sentire, eccome!
Ma al Kafwala Rapids Camp a sciogliere ogni residuo di adrenalina ci pensa un più che mai gradito gin and tonic ghiacciato, gentilmente offerto dagli amici inglesi James ed Hellen che hanno un ricco frigo nel loro fuoristrada.
MOSI – OA – TUNYA (IL TUONO CHE FUMA)
Così erano anticamente chiamate dalle popolazioni locali le cascate Vittoria prima che il famoso dottore-esploratore David Livingstone le scoprisse nel novembre del 1855 dedicandole, come si usava allora, alla regina di Inghilterra.
Nel corso dei nostri viaggi africani eravamo passati da queste parti già due volte, ammirando le cascate sia dal lato dello Zambia che da quello dello Zimbabwe. Sempre però in periodi di massima portata dello Zambesi, il che vuol dire, paradossalmente, non vedere quasi niente. Siamo portati a pensare, giustamente, che una cascata vada osservata ponendovisi di fronte e che possa essere pienamente apprezzata soprattutto quando il fiume è in piena.
Questo vale per tutte le cascate del mondo tranne che per le Vittoria perché l’acqua tonante piomba in una gola strettissima e quando la portata dello Zambesi è massima l’acqua precipitando nella stretta gola rocciosa forma in una nuvola di vapore che sale verso l’alto avvolgendo ogni cosa, impedendo così di ammirare in pieno la grandiosità della cascata.
Quando è così se ne possono ammirare, negli istanti di tregua tra un tergersi gli occhi e l’altro, solo dei tratti relativamente piccoli, qualche decina di metri, niente se paragonati al fronte della cascata che è di circa un chilometro e mezzo.
Certo, in queste occasioni il tuono delle cascate è impressionante e da solo costituisce uno spettacolo ed un ammonimento circa la potenza immane ed inarrestabile della massa d’acqua che accelera in prossimità della caduta e poi precipita nella gola.
Anche stavolta, siamo a fine maggio e la stagione delle piogge è da poco terminata, e lo Zambesi è quasi al massimo della sua portata.
Evitiamo lo scontato inzuppamento (anche con l’impermeabile fornito – a pagamento – è quasi impossibile esserne indenni) ed il petulante suk all’ingresso delle cascate e decidiamo di concederci il lusso di ammirarle da una posizione privilegiata: dall’elicottero.
Oltre al puro piacere del volo (volare è fantastico qualsiasi cosa si sorvoli ed io non volavo in elicottero da 48 anni, volo in viaggio di nozze sulla Statua della Libertà, New York) questa volta, finalmente, posso dire di aver visto le cascate Vittoria! Certo non si sente il tuono possente, ma solo, attutito dalle cuffie, il rumore del rotore ma si vede molto bene l’intero fronte della cascata ed “il fumo” che sale verso l’alto.
Non avremo avuto il fascino della scoperta di Livingstone ma l’eccitazione del sorvolo è stata grande e poi abbiamo visto una cosa molto interessante che non credo l’esploratore inglese (medico) abbia avuto la possibilità di osservare.
Nel corso dei millenni il fronte della cascata è avanzato verso monte (potremmo dire che ha risalito la corrente). Il pilota dell’elicottero mi ha fatto vedere (e le foto che ho fatto lo confermano) che a valle dell’odierna cascata esistono diverse fenditure quasi parallele che erano il fronte della cascata nei millenni passati.
Anche attualmente lo Zambesi sta iniziando a formare una nuova cascata (pronta fra qualche millennio!) che sarà a monte dell’attuale (lo si può constatare osservando la parte sinistra della cascata nella foto qui sopra). E’ qualcosa di simile al gutta scavat lapidem dei vecchi latini ma qui elevato all’ennesima potenza.
Finita l’era coloniale con le scontate dediche ai regnanti del tempo, potremmo dare un nuovo nome alle Vittoria : “la cascate che camminano (all’indietro !!)”
MAKGADIKGADI NATIONAL PARK e NTWETWE PAN
Botswana, giugno 2016
Nomi impronunciabili (anche perché andrebbero detti nella lingua, tutta schiocchi e aspirate, degli antichi abitatori di queste terre, i san – i boscimani) per indicare posti dal fascino primordiale. Siamo nel cuore del Botswana lontani dai più noti e battuti parchi del Chobe, del Moremi o del famosissimo delta dell’Okavango. La stagione delle piogge è da poco terminata, i grandi laghi (che qui si chiamano pan) si stanno prosciugando, le erbe che crescono sugli isolotti hanno ormai l’aspetto dorato della stagione secca, il piatto e basso fondale assume l’aspetto di una abbacinante distesa bianca.
I pan si prosciugano in fretta perché il sole (anche se ora qui è inverno) fa evaporare velocemente l’acqua, profonda pochi decimetri.
L’aspetto è quello di enormi saline in mezzo alle quali emergono isolotti erbosi.
La pista, dopo aver costeggiato il fiume Boteti, ricco di animali, entra in vaste pianure erbose da cui emergono di tanto in tanto delle collinette. Il percorso che vogliamo seguire è chiaramente segnato sulla nostra mappa cartacea ed in quella digitale ma la pista deve essere molti mesi che non vede una macchina, se va bene gli ultimi ad essere passati da queste parti devono averlo fatto mesi fa prima della stagione delle piogge. Seguire la pista è sempre più difficile.
Ad un certo punto scompare anche la più flebile traccia, devo far ricorso all’istinto ed a tutta l’esperienza del vecchio sahariano.
Navighiamo con il Gps, usato alla vecchia maniera cioè come indicatore di una direzione e con la bussola che per sicurezza avevamo portato immaginando situazioni come quella che stiamo vivendo. Siamo ormai lontani dal grande pan che, se asciutto, permette una facile navigazione come se fossimo nel mare seguendo una data rotta.
Siamo su collinette non molto alte ma dal fondo a volte molto sconnesso e anche seguire un certo grado di bussola non è semplice. Siamo incerti se tornare sui nostri passi (il che voleva dire tornare indietro per molti kilometri e fare un lunghissimo giro per arrivare a Gweta, la cittadina nostra meta) o proseguire in queste incerte condizioni.
Proseguiamo e siamo premiati perché dopo circa un’ora e mezza di navigazione “strumentale” ritroviamo la traccia man mano più marcata ed evidente.
Come premio per essere stati bravi, a Gweta ci concediamo un bel lodge con rigenerante doccia bella calda e poi una buona cena preceduta dal rituale gin and tonic che in questo viaggio ci siamo concessi spesso e volentieri, soprattutto dopo aver saputo che gli inglesi consideravano il gin un buon anti-malarico. Di zanzare neanche l’ombra, sulla fondatezza scientifica di questa strana ma simpatica teoria non abbiamo evidenze ma non vogliamo correre rischi e allora…..ci beviamo su.
Domani abbiamo in programma di attraversare il Ntwetwe Pan ed il giovane bianco proprietario del lodge (simpatico ma un pò sbruffone, che si autodefinisce guida esperta dei luoghi) ci ammonisce circa i pericoli nell’affrontare il pan, non ancora ben asciutto a quanto gli risulta. In effetti ho letto che il fondo melmoso di questi pan ha creato grossissimi problemi, addirittura qualcuno è rimasto bloccato per giorni senza possibilità di soccorsi. Partiamo dunque, non del tutto tranquilli.
Prima di arrivare al grande pan (siamo ancora nella savana) andiamo a vedere due storici baobab che in passato furono importanti punti di riferimento per la antiche carovane: il Green’s Baobab che porta ancora inciso sul suo tronco il ricordo della spedizione del 1858 degli esploratori avventurieri Green e Van Zyl, ed il Chapman’s Baobab.
Quest’ultimo, dalla smisurata circonferenza di ben 25 mt., non solo costituiva un essenziale punto di riferimento geografico ma addirittura venne utilizzato come “ufficio postale” dagli avventurieri cacciatori-esploratori-commercianti della seconda metà dell’Ottocento che in mancanza di telefonini ed Internet davano e ricevevano notizie lasciando messaggi scritti nelle cavità dell’enorme tronco. Il Chapman’s Baobab però è collassato il 7 gennaio 2016 per ragioni sconosciute. Azzardo un’ipotesi: è crollato sotto il peso della sua veneranda età di secoli.
Vedere questo gigante a terra è impressionante ma forse, paradossalmente, in questa posizione, se ne comprende meglio l’immensità.
Sembra una creatura fantastica, precipitata sulla terra da lontane galassie.
Lasciamo la savana ed i suoi storici baobab e ci inoltriamo nel grande Ntwetwe Pan. Abbacinante spettacolo, il fondo è perfettamente asciutto, difficoltà di orientamento e di guida pari a zero.
Ci godiamo l’immensità senza ansie.
Ma lo spettacolo continua.
Finita la traversata si approda, letteralmente, ad un’isola, Kubu Island, il cui fascino solo una fervida fantasia può immaginare.
Enormi massi di granito e tra loro grandi baobab di tutte le forme e grandezze.
I baobab sono indubbiamente creature primordiali e nella magica luce del tramonto riviviamo il giorno della creazione.
Ma le sensazioni magiche non sono finite.
Una serata limpidissima e senza luna ci regala una incredibile stellata dominata dalla Croce del Sud e da una Via Lattea spettacolosa come forse non ho visto neanche nelle lontane notti sahariane.
CENTRAL KALAHARI (ma non chiamatelo deserto)
Il Kalahari (il deserto del), per noi amanti e sopratutto nostalgici del deserto sahariano, era pensato come il momento saliente del nostro viaggio.
Secondo le aspettative e stando ai racconti di chi ci era già stato doveva essere il clou (o clous come dicevamo noi scherzando) del nostro viaggio.
“Non ti devi aspettare un deserto come il Sahara, è qualcosa di diverso ma ugualmente spettacolare, non ci sono molti animali ma il paesaggio è molto bello, spazi immensi e solitudine assoluta”, così mi era stato presentato.
Forse se non avessi provato ad immaginare come doveva essere, cioè se fossi partito senza un’idea preconcetta, probabilmente (ma non credo) il mio giudizio sarebbe stato diverso.
Mi ero immaginato un paesaggio desertico, senza dune ma comunque sabbioso, inframmezzato da rocce e baobab, brulle montagne e valli impervie. Mi ero immaginato di incontrare gli antichi originari abitanti di queste terre, i san (meglio conosciuti col nome di boscimani cioè bush man) piccoli e magrissimi, unici umani adattati a vivere in condizioni-limite, grandissimi e coraggiosi cacciatori con piccoli archi e frecce avvelenate. Non so dire perché ma questo mi ero immaginato e naturalmente speravo di trovare.
Sbagliavo, soprattutto perché dopo tanti viaggi africani avrei dovuto imparare a non crearmi aspettative, la realtà è sempre diversa, spesso e per fortuna, in senso positivo.
Meno ci si aspetta e più si apprezza.
Ma il Kalahari è stato una delusione, diciamolo.
Molti più animali di quanto mi aspettassi, orici sopratutto, ma anche tante gazzelle springbok, più rare giraffe, sciacalli dalla gualdrappa, otocioni, addirittura un raro (a vedersi) leopardo ed una leonessa e molti uccelli.
Di san neanche l’ombra, tutti estromessi da questo loro immenso territorio e confinati altrove in villaggi dal sapore di “presepi viventi”.
Di sabbioso solo alcuni tratti della pista e poi un paesaggio piuttosto brullo, erbe ora rinsecchite e sparsi alberi non particolarmente attraenti.
I pan sono piuttosto piccoli, sopratutto se paragonati a quelli che abbiamo visto e attraversato nei giorni scorsi e di cui ho detto prima.
In mancanza di san qualche umano (turista) l’abbiamo incontrato, una decina di macchine di turisti sopratutto sudafricani.
A parte la immensità del territorio (al suo interno abbiamo fatto più di 700 km ) e qualche bella distesa erbosa esaltata dalle luci radenti dell’alba o del tramonto niente di eclatante. Ambiente naturale senz’altro interessante ma, per favore, non chiamatelo deserto.