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Jayapura By Paola Datta

– Posted in: Asia, Resoconti di viaggio

By Paola Datta
Originally Posted Sunday, July 18, 2004

 

Forse sabbia qui non ce ne é molta,…ma può darsi che qualche “sahariano”possa cambiare parere sulle future destinazioni.

L’avventura inizia il 24 luglio 1997, all’aeroporto di Roma Fiumicino,volo Garuda Indonesia per Denpasar.

Finalmente, almeno per un mese lascio alle spalle le scartoffie e ilpensiero di un ex fidanzato testone. Non mi preoccupo delle difficoltàdel viaggio che ho davanti anche se non so bene cosa potermi aspettare:sono fisicamente e mentalmente preparata, lo zaino pesa relativamente poco(cosa molto importante quando sussiste la prospettiva di doverlo teneresulle spalle per un mese), la mamma ha promesso che si sarebbe ricordatadi innaffiarmi le piante, Masai (il mio cavallo) è sistemato in trasfertae, sicuramente, sta meglio di me. Quindi, anche se il viaggio si prospettacome una completa incognita, sia come tempistica, sia come itinerario, partoentusiasta e senza la minima preoccupazione..

 

JAYAPURA
LA VALLE DEL BALIEM
IL VILLAGGIO DANI
PARTIAMO!
YALI
ANGGURUK
LA CERIMONIA DEL PAGAMENTO DEI PORTATORI
IL SUD
CAPITAN UNCINO
LA MALARIA
AGATS
ATSI
UOVA DI ATSI
OYEMU
VERSO YANIRUMA
YANIRUMA 16
“THERE IS NO WATER IN THE RIVER”
RUMAH TINGI – OVVERO CASE SUGLI ALBERI.
DAIO
IL MAGO DI OZ
TORNIAMO VERSO CASA
IL BARONE ROSSO
22 AGOSTO 1997 25

 

 

JAYAPURA

E’ il primo nostro scalo in Irian Jaya.

E’ la città principale sulla costa nord: qui atterrano tutti gliaerei provenienti dal Sulawesi e dalle grandi isole indonesiane. Per noiessa non rappresenta altro che il punto di riferimento nel quale bisognasempre tornare per potersi spostare all’interno e all’esterno dell’IrianJaya.

Il lago Sentani sembra di per sé un mare e le sue sponde sonopuntinate di palafitte e piccoli villaggi. Il clima è soffocante:molto umido, molto caldo, molto malarico. Non si riesce a respirare e siamosempre contenti di potercene andare in fretta.

 

LA VALLE DEL BALIEM

Dopo oltre quaranta ore di viaggio, da Bali a Djakarta, a Ujung Pandang,Biak e Jayapura arriviamo, finalmente, a Wamena (e con nostro estremo piacerel’aria è fresca e fina, si respira bene e non si suda).

Mentre aspettiamo che vengano scaricati gli zaini, noto un Dani intentoad osservarci dietro ai vetri della sala d’aspetto del piccolo aeroporto:indossa solamente l’astuccio penico, ha con se’ arco e frecce. Faccio scorrerelo sguardo e vedo vicino a lui un ragazzotto locale, vestito in jeans emaglietta, intento ad ascoltare il gracchiare di una radiolina. Bisognariconoscere che il contrasto è indubbiamente notevole.

Andiamo subito all’albergo vicino all’aeroporto e cerchiamo invano JohnWolof, che è ritenuto quasi un mito, un pioniere di quelle zone.Contiamo proprio su di lui per avere le informazioni e gli aiuti necessarial fine di organizzare il giro, ma, purtroppo, dopo qualche tempo scopriamoche John Wolof è l’uomo che si aggira con fare assolutamente assentenel salone dell’hotel, colpito da malaria cerebrale.

Comunque lì troviamo anche Frangkie, il personaggio che saràil nostro angelo custode (nel bene e nel male) durante tutto il nostro carambolare,da nord a sud, da est a ovest dell’Irian Jaya. Frangkie si incarica di trovarei portatori, ragazzi a cui dobbiamo veramente la vita, di organizzare leprovviste ed abbozzare un itinerario. Si decide di affrontare un trekkingpiù lungo del previsto, che ci porterà, dopo 8 giorni di marcia,sino ad Angguruk, sperduto paesino nel mezzo della Valle del Baliem. E’un itinerario nuovo, ci spiega Frangkie, mai affrontato prima da un gruppo.Cerchiamo di informarci, di sapere se è veramente difficile, quantosarà duro. Purtroppo, Frangkie non è in grado di fornire alcunainformazione precisa: scopriremo infatti che non è in grado di quantificareil percorso né in Km, né in ore (passeranno sicuramente allastoria i 200 Km che secondo lui avremmo potuto percorrere a piedi, in ungiorno, sulle montagne dell’Irian Jaya).

 

IL VILLAGGIO DANI

Il giorno dopo il nostro arrivo, mentre Frangkie si incarica di farei preparativi per il trekking, ci rechiamo a visitare un villaggio Danipoco lontano da Wamena. Il villaggio è circondato da una piccolapalizzata in legno che impedisce l’accesso ai maiali e, per entrare, saliamouna scaletta contorta che la scavalca e ci immette direttamente nel nucleodi capanne. Il terreno è coperto da uno strato di erba essiccata:non vi sono odori sgradevoli, tutto è molto pulito ed ordinato. Ibambini ci guardano incuriositi, ma nessuno si avvicina per chiedere regalio soldi. Proseguiamo sino a quella che si potrebbe definire la “piazzetta”principale: alcuni uomini sono seduti a terra intenti a preparare gli astuccipenici da vendere al mercato, altri siedono sulle panche ai lati dello spiazzo,fumano e parlottano fra loro. Indossano solamente l’astuccio penico trattenutoin vita da una cordicella: uno di loro ha un osso ricurvo che gli trapassale narici ed una lunga piuma fissata alla testa. Attorno agli occhi si èdipinto di bianco e rosso, il che gli conferisce un’aria tenebrosa e pocorassicurante. Le donne rimangono vicino alle capanne e sono occupate adintrecciare le sacche che appendono alla testa ed usano per trasportarequalsiasi cosa: radici e bacche raccolte in foresta, maialini, cani, i proprifigli. Unico loro capo di abbigliamento è il gonnellino di pagliache portano abbassato all’altezza dei fianchi, sui quali si notano i profondisegni (talvolta degenerati in vere e proprie ferite) causati dalla cordache li cinge. Le più giovani portano al collo collane di perlinemulticolori.

Ci viene permesso di fotografare, sebbene dietro compenso in denaro daversare al capo-villaggio. Mentre gironzoliamo fra le capanne, notiamo chela maggior parte delle donne ha le dita delle mani mutilate. Alcune frale più anziane sono completamente prive di falangi mentre altre,più giovani, non hanno più le falangi superiori. Ci vienespiegato che ogni qualvolta un componente del nucleo famigliare muore, ladonna Dani (e anche Yali) si taglia una falange a testimonianza del doloreper la dipartita del congiunto. L’operazione viene eseguita utilizzandoun scheggia di pietra molto affilata, con la quale la donna taglia di nettoil moncone.

Nel caso in cui fossimo interessati, ci dicono che i coltelli taglia-ditasi possono trovare al mercato di Wamena.

Il nostro accompagnatore, un Dani che, ad incontrarlo di notte, avrebbefatto scappare a gambe levate anche Frankenstein, ci conduce quindi neipressi di una capanna piuttosto isolata rispetto alle altre: qui si custodiscela mummia del villaggio. Il cadavere rinsecchito e affumicato che ci vienemostrato, rannicchiato su se’ stesso con la bocca spalancata e distortada una smorfia di dolore, è quello di un valoroso guerriero uccisoin battaglia anni or sono (lo testimoniano i buchi delle frecce nella schiena).Scatto alcune fotografie, ma ancor oggi non so se sia più bruttala mummia o il Dani che ci faceva da guida.

 

 

PARTIAMO!

Lasciamo Wamena il giorno dopo.

Frangkie ha reclutato portatori che, di primo acchito, ci sembrano tuttiuguali e dei quali non sappiamo se potremo fidarci (in seguito tra noi eloro si creerà un rapporto d’amicizia, fiducia e aiuto reciprocotale da causare non poca commozione al momento del ritorno). In fuoristradaarriviamo sino alla fine del percorso asfaltato, all’incirca 6 Km. fuoriWamena. Scaricati zaini, vettovaglie e tende, Frangkie assegna a ciascunportatore il proprio bagaglio in base a peso, corporatura, agilitàed età. Abbiamo ben due cuochi, uno dei quali ci abbandoneràdopo il primo giorno per tornare in paese. Buona parte dei portatori torneràa Wamena cammin facendo, mano a mano che il cibo (e quindi il bagaglio daportare) diminuisce. Al termine dell’assegnazione del bagaglio, Frangkiedispone i suoi uomini in assetto di marcia e partiamo.

Il paesaggio non è entusiasmante, il cammino è faticoso,ma sopportabile. Non ci sono le temute zanzare, non fa’ caldo, il climaè ideale; inoltre, tutti siamo ben provvisti di acqua e thèe ci permettiamo di “scialare” (non sapendo che avremmo ben prestoimparato a non sciupare nemmeno una goccia d’acqua).

Ad un certo punto ci accorgiamo che Simonetta ha abbandonato il gruppo:senza avvisare nessuno ha deciso di rinunciare alle prime avvisaglie difatica ed è tornata indietro con uno dei portatori più anziani(saggia decisione in quanto non avrebbe mai potuto superare le difficoltàche, a nostra insaputa, avevamo di fronte).

Noi proseguiamo e camminiamo 8 (interminabili) ore su sentiero, arrivandoquasi col buio al primo villaggio. Mi fanno un po’ male i piedi (le miescarpe da trekking sono nuove, maledizione!) e per scongiurare le vescichedecido di fasciarli. Siamo sudati, stanchi, fa’ freddo: ci sistemiamo all’internodella capanna che hanno messo a nostra disposizione e decidiamo comunquedi montare le zanzariere. Una cena abbondante e un caffè caldo cirimettono in sesto: il gruppo sembra buono, si scherza, si ride, c’èarmonia. Alle sei è già buio pesto e per le nove siamo giàtutti a letto.

La mattina dopo partiamo all’alba, addentrandoci sempre più nellaValle del Baliem e lasciandoci pian piano alle spalle la civiltà.

 

Dal secondo giorno in avanti le ore di marcia giornaliere sono in media10. Camminiamo in fila indiana, parliamo poco per risparmiare il fiato:ognuno ha il suo passo e ci aspettiamo strada facendo. Bisogna fare attenzioneperché si deve camminare principalmente sui tronchi degli alberiabbattuti dagli indigeni, per non sprofondare nel fango. All’inizio facciofatica, mi manca l’equilibrio. In seguito diventa un sistema di marcia abitualee riesco a procedere al passo del mio portatore (che non è poco!).

In foresta mi guardo intorno e mi sembra di essere nella Terra dei Dinosauri:la nebbia aleggia e avvolge tutto. Sono circondata da alberi giganteschi,felci enormi e piante sconosciute grondanti di umidità. Di tantoin tanto incontriamo un Dani che procede a passo spedito. Non sappiamo dadove arrivi, abbiamo forse un’idea di dove stia andando. Lui ci guarda,cerca di comunicare con i portatori per sapere quanto abbiamo impiegatoper arrivare sino a lì: misura lo scorrere del tempo usando il proprioavambraccio, una spanna partendo dal polso per il primo tratto, un’altraspanna, sino al gomito, per il secondo tratto. Poi via, ognuno per la propriastrada, in competizione con l’arrivo del buio.

Ben presto scompaiono i sentieri, i villaggi sono sempre più rari.Procediamo in equilibrio sui tronchi, sprofondiamo nel fango, affrontiamosalite che diventano vere e proprie scalate. Risaliamo il corso dei fiumiquasi in secca, scavalcando i tronchi di enormi alberi caduti e massi staccatisidalla montagna, precipitati.

La Natura si mostra a noi in tutta la sua potenza, ci inghiotte nellasua più straordinaria bellezza. La Fatica ci sommerge, ci schiaccia.Il dolore ai muscoli e il freddo non mi fanno dormire: allora ascolto irumori della notte, il respiro dei portatori, le voci ed i canti sconosciutiche si spostano nella foresta. “Sta arrivando l’Uomo Nero che ti mangia…”mi raccontava una volta la nonna.

Dormiamo in tre in tenda, ma non riesco a scaldarmi, non riesco a girarmi,non riesco a muovermi. I piedi sono un pezzo di ghiaccio, l’umiditàha ormai fatto comunella con le mie ossa e con i miei vestiti. Ricordo inparticolar modo una notte piovosa passata in tre (io, Giovanni e Gianni)nella mia tenda montata male, con i teli che si toccano ed io che non dormoper tenere sotto controllo le gocce d’acqua che, piano piano, filtrano inesorabilmenteall’interno e inzuppano il mio sacco a pelo senza ch’io vi possa porre alcunrimedio. La mattina seguente, mentre mi sto fasciando i piedi, noto un rossoreminaccioso e decido di usare gli assorbenti come ulteriore imbottitura:voglio e devo assolutamente evitare le vesciche.

L’umidità e il sudore sono tali che i jeans mi tingono le gambedi blu (mi sorprendo a pensare che, forse, tutto quel blu sulle gambe potrebbefar male alla pelle!); col passare del tempo affino la tecnica di camminatae mi accorgo di fare meno fatica se evito di alzare gli occhi per vederedove finisce la salita (quindi non mi spavento): sicuramente è solouna questione “di testa” , ma l’espediente funziona, riesco adaumentare la velocità di risalita e ogni volta che raggiungo la cimadico a me stessa “siamo già arrivati?”.

 

Comunque, tecnica o non tecnica, Angguruk ci appare ora come la TerraPromessa. Di fronte a noi non ci sono altro che cielo, montagne, fiumi ecascate. Ogni giorno chiediamo a Frangkie come sarà il giorno dopoperché ci sembra impossibile che il cammino possa andare continuamentepeggiorando. Lui non fa’ altro che risponderci “up” “up”,vale a dire “su”, “su”. Talvolta non gli crediamo, scherziamosul suo Inglese stentato, speriamo dentro di noi che si sia espresso male.Ma Frangkie ha sempre avuto ragione e, un giorno, cammina cammina, siamoarrivati in mezzo alle nuvole…..

A quota 3200 mt. l’altopiano si stende sotto di noi, immensa distesaerbosa e ventosa. Ci indicano la direzione da seguire che, stranamente,lo taglia in linea retta e finisce sul bordo della montagna. Lì dovrebbeesserci il “sentiero difficile” che ci permetterà di ridiscenderea valle.

Mi guardo attorno, e vedo l’Immenso: nuvole enormi arrivano rotolandosospinte dal vento e sbattono contro il costone della montagna, risalgonoverso l’alto e si rovesciano sull’altopiano come una cascata di ovatta.La luce del sole è accecante, l’aria che respiro pungente, mi bucail cervello. Il paesaggio è lunare.

I portatori fanno una breve pausa, si canta e si prepara alla sveltaqualcosa da mangiare. Il vento forte ruba le loro voci, porta lontano lanenia, la inghiotte nel suo rombo.

Constato a malincuore che la mia macchina fotografica è semprebloccata a causa dell’umidità e cerco di riempirmi gli occhi e lamente. Non voglio e non potrò mai dimenticare.

 

Approfittiamo della breve pausa per fare asciugare le tende fradice.Papà Frangkie ci sgrida, ha paura che gli faremo perdere tempo, masiamo diventati degli esperti. Mangiamo alla velocità della luce,ripieghiamo le tende e siamo pronti in un battibaleno. Giovanni ed io ciincamminiamo per primi con Latius (il mio portatore) a passo sostenuto eci rendiamo conto che il pianoro è intriso d’acqua, ben nascostasotto lo strato erboso: bisogna fare attenzione, aggirare gli acquitrini,saltare di pozzanghera in pozzanghera. La pioggia ci avrebbe sicuramentereso impossibile la traversata.

Arriviamo dopo circa mezz’ora sul bordo del precipizio. Cerchiamo diindividuare il sentiero, ma le nuvole limitano la visibilità (“èlì sicuramente” ci diciamo “ma non si vede a causa dellenuvole”): mentre aspettiamo gli altri e riprendiamo fiato, Latius mifa capire che dobbiamo calarci giù, che non c’è sentiero.

Indietro non si può tornare, fermi non si può stare, quindibisogna scendere. Aspettiamo tutti e partiamo.

Latius è sotto di me, mi indica dove appoggiare i piedi, doveaggrapparmi. Non ho paura, non sento più la fatica, gambe e bracciatengono bene. Durante la prima parte della discesa (che, in totale, dureràall’incirca 5-6 ore) ci caliamo da tronchi appoggiati dagli indigeni a mo’di scala sulla parete della montagna. Ci caliamo uno alla volta, per evitaredi trascinare giù i compagni nel caso in cui si perda la presa. Ioprocedo abbastanza bene, non alzo mai la testa, non devo distrarmi. Latiuscontinua ad assistermi, ad indicarmi il percorso migliore. Ad un certo puntoci troviamo di fronte una parete completamente liscia, senza il minimo spuntonedi roccia, senza il minimo appiglio. Giovanni tentenna, perde l’equilibrio,ha paura. Fortunatamente uno dei ragazzi è sotto di lui, se lo caricapraticamente sulle spalle e scende. Un’altra volta, Latius mi prende alvolo quando sto per scivolare giù. Devo a lui la vita, devo a luise ora sono qui a scrivere…

Scendiamo, scendiamo, scendiamo. Sempre più giù, senzamai vedere la fine.

Ad un certo punto la discesa si fa più dolce e alla roccia sisostituisce un sentiero di tronchi marci e sdrucciolevoli, sistemati ditraverso uno accanto all’altro. La foresta fittissima inghiotte il sentiero,e noi con lui

Io e Latius abbiamo staccato gli altri: non vedo più nessuno,non sento più le loro voci, non so dove siano. Le mie gambe vannoormai avanti per inerzia: il buio è vicino e dobbiamo assolutamentetoglierci dalla foresta. Acceleriamo il passo, ma troppo tardi ci accorgiamoche abbiamo sbagliato, siamo andati troppo avanti rispetto al punto sceltoper montare il campo. Le voci degli altri portatori ci raggiungono e dobbiamotornare indietro.

Raggiungiamo Heidi, Stefano, Giovanni, Gianni e gli altri portatori.Alfredo e Federica sono ancora in foresta, insieme a Frangkie, l’angelocustode, e ad un altro portatore. Uno dei ragazzi torna indietro, deve assolutamenteportare loro una torcia, altrimenti sono bloccati.

 

YALI !

Nel mezzo dello spiazzo c’è una capanna ed un fuoco che giàarde: ci affrettiamo a fare il campo mentre i ragazzi iniziano a preparareda mangiare. Il buio incombe e noi non abbiamo assolutamente tempo di guardarciattorno: siamo stanchissimi, sudati, affamati. Non c’è un solo muscoloche non faccia male. Facciamo fatica a trovare un pezzo di terreno relativamenteasciutto dove montare le tende: io, Giovanni e Gianni sistemiamo la miatenda, in discesa, vicino alla capanna, mentre usiamo la tendina di Giovanniper sistemare gli zaini e cercare di ripararli un po’ dall’umiditàe dalla pioggia. Heidi e Stefano si sistemano sull’altro lato della capannae poi, insieme, montiamo la tenda di Alfredo e Federica nella speranza divederli arrivare prima del buio.

Solo dopo aver sistemato tende, zaini e sacchi a pelo troviamo il tempodi alzare gli occhi, solo allora li vediamo….

Ci guardano, in silenzio. Noi li guardiamo, in silenzio. Gli Yali, icannibali, sono lì, attorno a noi, con noi. Mi avvicino a loro, accovacciandomivicino al fuoco. Ci sono uomini adulti (impossibile indovinarne l’età)e bambini: nudi, con l’astuccio penico, le asce di pietra, l’arco e le frecce.Vedo il volto del guerriero Yali dietro al fuoco, vedo le rughe, i dentibianchi, gli occhi che mi scrutano. In un attimo torniamo indietro nel tempo,ci troviamo catapultati all’Età della Pietra. Attorno a noi èsolo foresta, cielo, luna piena e stelle. Si sentono altre voci, altri cantiche vanno e vengono per poi perdersi nel folto degli enormi alberi. Nessunodi noi parla, sarebbe comunque superfluo. Ci sediamo tutti attorno al fuococon loro e non facciamo altro che guardarci, osservarci, sorriderci a vicenda.

Poi, ad un certo punto, gli uomini della foresta decidono che èora di andare: ci salutano con un cenno della mano e spariscono nel buio.

 

Ricordo quella notte come il momento di maggiore emozione, di maggiorfascino. Finalmente incontro gli Yali, coloro che, nonostante le ripetutepressioni da parte dei missionari protestanti, non hanno mai abbandonatoi loro usi e tradizioni, rifiutando di indossare abiti “civili”che a nulla sarebbero serviti se non a farli sembrare degli straccioni.Alcuni anni prima, questi stessi uomini avevano ucciso e mangiato un missionario,reo di aver bruciato tutti i loro idoli nell’ostinata convinzione che lareligione dell’uomo bianco fosse al di sopra di tutte le altre.

Gli Yali, isolati e protetti dalle loro montagne, rappresentano l’Antico,sono il mistero, la paura, la magia, la leggenda.

Gli Yali sono i cannibali…

 

La notte è lunga e fredda: non riesco a dormire, i muscoli mifanno troppo male ed ho sempre i piedi gelati nonostante due paia di calze.I portatori alternano il russare alle chiacchiere, le ore sono interminabili.Il vento continua a portarmi i canti ed i richiami incomprensibili di esseriumani invisibili. La mattina dopo ripartiamo all’alba.

Loro, gli Yali, sono tornati – silenziosi così come erano arrivatila sera prima – per assistere ai preparativi. Uno di loro sposta il mioguanto di cuoio dal fuoco (cercavo di farlo asciugare, ma si stava bruciando):lo ringrazio, lui mi sorride.

 

Quel giorno cado cinque volte e rischio di rompermi un braccio. Le gambetremano e non riesco a stare in equilibrio sulla passerella di tronchi marciche attraversa la foresta. Latius è mortificato perché, secondolui, non sta facendo bene il suo lavoro, non riesce ad impedirmi di cadere.La sera, quando tolgo i pantaloni, le gambe sono coperte di lividi neri,ma sono ancora intera ed in grado di camminare.

Siamo vicini ad Angguruk, ma questo non vuole dire essere arrivati. Continuiamoad arrampicarci, a scendere, a risalire il corso dei fiumi. Capita anchedi dover abbattere degli alberi per poter attraversare i fiumi. Incontriamogruppi di Yali, uomini, donne e bambini: gli uomini vanno a caccia, mentrele donne e i bambini raccolgono bacche e radici. Talvolta ci seguono, ridonodi noi, parlottano fra loro. Nessuno, mai, cercherà di toccarci,di rubare o di farci del male.

 

Il fango fa’ ormai parte di noi, tanto che non cerchiamo nemmeno piùdi evitarlo. I miei jeans sono coperti di fango sino al ginocchio, pesanoalmeno il doppio del normale. Scopro del fango che mi cola giù perla schiena e non so’ come abbia fatto ad arrivare sino a lì. Le miescarpe non sono altro che un pezzo di fango mobile. Fango nei capelli, sottoalle unghie, nel sacco a pelo, nelle calze. …. Fa’ comunque parte delgioco …..

Ed Angguruk ci sembra sempre più lontana.

 

Dopo sette giorni vediamo, in lontananza, una striscia di terreno disboscato:è la pista di atterraggio per i Cessna. Attorno alla pista si intravedonoalcune case di legno: è Angguruk. Siamo emozionati: in un certo sensoci si sente come il naufrago che vede in lontananza la terra ferma, o comel’assetato che arriva all’oasi in mezzo al deserto. Come per incanto, lafatica sparisce e lascia il posto all’euforia.

 

Ci vuole comunque ancora un giorno di cammino per raggiungere Angguruk:su e giù, giù e su. Prima di entrare in paese ci fermiamopresso un villaggio Yali poco lontano e ne approfittiamo per lavare noied i nostri abiti al fiume. Giovanni sta male, ha la febbre alta, speriamotutti che non sia malaria, che sia soltanto un effetto della fatica. Versosera, mentre inizia a gocciolare, entriamo in Angguruk quasi di corsa esiamo ospitati dall’insegnante del posto. Appena mettiamo piede in casa,il cielo apre i rubinetti ed è il Diluvio Universale.

 

 

 

ANGGURUK

Angguruk è uno sperduto paesino della Valle del Baliem. La pistadi atterraggio non è altro che una striscia di terra che terminasul precipizio: quando non si prevedono aerei (vale a dire praticamentequasi sempre), sulla pista razzolano galline e maialetti. Non ci sono probabilmentepiù di 8 casette in legno: c’è un piccolo ospedale, la stazioneradio, non ci sono negozi (i viveri “moderni” arrivano con i Cessna),non c’è energia elettrica, eccezione fatta per la casa del dottoreindonesiano addetto alle vaccinazioni, che è provvista di generatore.L’acqua si attinge al fiume che scorre poco più in basso. Ci sonoperò 3 mucche (probabilmente le uniche di tutta la valle), portatelì con un Cessna quando erano ancora piccole. Una volta a settimanac’è il mercato, grande avvenimento, in quanto raccoglie gente datutti i villaggi circostanti (la gente si mette in cammino anche due o tregiorni prima): al mercato si vendono patate (di tutti i tipi, forme e colori),qualche pacchetto di biscotti, qualche banana iper verde che ti incollai denti al primo morso, enormi semi o frutti rossi di cui non conosciamoil nome – ma dai quali si ricava un sugo rosso alquanto indigesto dove siintingono le patate bollite – olio, astucci penici, frecce, insomma di tuttoun po’. E’ comunque un mercato molto povero.

 

L’arrivo di un aereo e la partita di pallone sono due avvenimenti seguitissimie molto attesi.

Ogni giorno, verso le 3 del pomeriggio, la squadra locale si confrontacon la squadra in trasferta in una vera e propria partita con tanto di guardalinee,arbitro provvisto di fischietto e ombrellino per proteggersi dal sole etifosi scalmanati. Ogni tanto una famigliola di galline e pulcini attraversail campo o si ferma a razzolare davanti alla porta, assolutamente incurantidi quanto succede.

La squadra locale è senz’altro favorita in quanto gli avversariabitano di norma a un giorno o due di marcia da Angguruk. Durante i 3 giornidi permanenza forzata ad Angguruk, in attesa del Cessna che riporteràa Wamena, la partita di pallone diventa un avvenimento da non perdere: igiocatori sono scalzi ed indossano la maglietta con i colori della propriasquadra. Una volta si è aggregato anche uno Yali che giocava completamentenudo, se non fosse stato per l’astuccio penico. Quel giorno si va’ ai rigori,e la partita è seguita con molto interesse dai due pappagalli Kakadudel villaggio, che imitano il vociare e seguono il pubblico (che ha ormaiinvaso il campo), schiamazzando e appollaiandosi prima su una porta e poisull’altra. Ad un certo punto un giocatore si fa’ male, ed ecco che unatorma di bambini (il servizio di Croce Rossa) lo solleva di peso e lo trasportaal limite del campo dove le donne provvedono ad accudirlo.

 

Il rombo del motore di un Cessna è il segnale di chiamata a raccoltadi tutta la gente di Angguruk e degli abitanti dei villaggi vicini. I bambiniarrivano di corsa seguiti dalle mamme. Arrivano cani, maialini, pappagallied il Responsabile Aeroportuale ha il suo da fare per far sloggiare dallapista la solita famigliola di galline, pulcini & Co.. Puntualmente,la moglie del dottore arriva con una tazza di caffè per il pilota.Dopo i saluti di rito, il cessnino risale la collinetta, prende la rincorsae si lancia nel vuoto per poi riprendere quota e virare bruscamente a destra(“Non vi preoccupate” ci dice il pilota che è venuto aprenderci “lo faccio sempre”).

 

Durante la nostra permanenza ad Angguruk veniamo ospitati nella casadell’insegnante. Non capiamo cosa questo insegnante insegni, perchéuna scuola proprio non esiste. Notiamo però che questo signore paffutelloe alquanto panciuto si cambia d’abito almeno 2 o 3 volte al giorno, perandare dove e fare cosa non si sa. Purtroppo non possiamo dialogare conlui, e, la maggior parte delle volte preferisce eclissarsi. La sera scendea farci compagnia il capo del villaggio Yali che si trova nelle vicinanzedi Angguruk. Veramente non ci accorgiamo subito della sua presenza: la stanzaè buia, le candele illuminano a malapena i piatti, tutti siamo troppooccupati a mangiare.

Ad un certo punto lo vediamo, inginocchiato in silenzio in un angolodella stanza, intento a guardarci. Frangkie lo conosce, ed è l’unicoin grado di capire la sua lingua. Il capo racconta di quando era bambinoed i suoi genitori uccidevano e tagliavano a pezzi i prigionieri di guerra.La carne veniva poi immersa nell’acqua delle cascate per alcuni giorni,in modo da risultare più tenera: si mangiava tutto, dice, ad eccezionedegli intestini. Il sapore della carne umana? “Niente di che”,dice lui, “è abbastanza insipida ed ha lo stesso sapore dell’uccellocasuario”.

 

Durante una delle nostre passeggiate (che finivano sempre per esseresemi-scalate) nei dintorni di Angurruk incrociamo un vecchio Yali la cuigentilezza mi lascia senza parole. Accortosi della nostra difficoltànel bere il filo d’acqua che filtra dalla roccia, il vecchio raccoglie lostelo di un’erba, lo curva e lo inserisce nella fessura formando un canalettodal quale l’acqua purissima sgorga a mo’ di fontanella. Lui è feliceper averci aiutato, io mi rendo conto di quanto si possa imparare da questepersone.

 

 

LA CERIMONIA DEL PAGAMENTO DEI PORTATORI

Approfittando della pausa, armato del suo quadernetto dove ha sempredettagliatamente appuntato spese e prestazioni di ciascuno, Frangkie chiamaa raccolta i portatori e ci fa’ partecipare alla cerimonia del pagamento.

Ci riuniamo tutti nella stanzetta che, prima del nostro arrivo, era il”salottino” dell’insegnante mentre ora è adibita a dormitorio,mensa, sala riunioni.

Noi sediamo uno di fianco all’altro su un lato della stanza, l’ufficialepagatore (Frangkie) in testa, i ragazzi siedono di fronte a noi, sull’altrolato.

Il momento è solenne: nessuno parla, mentre Frangkie da’ un’ultimacontrollata ai suoi appunti. I ragazzi abbassano gli occhi quando incontranoi nostri sguardi, c’è emozione da parte nostra, imbarazzo da parteloro. Quindi, una volta accertata la correttezza dei conti, iniziamo.

Frangkie li chiama uno ad uno: a turno si alzano, riscuotono il denaroda Frangkie, stringono la mano e ringraziano ogn’uno di noi. Probabilmentenon si aspettano di essere pagati così bene e di ricevere oltrepiùuna così congrua mancia: vediamo infatti il loro volto illuminarsiogni qualvolta terminano di contare le loro spettanze.

Poi, armati di estremo coraggio (l’unione fà la forza), ci chiedonodi dar loro i nostri indirizzi e, a nostra volta, noi chiediamo loro unrecapito dove poter spedire le fotografie.

La sera torniamo a riunirci nel salottino dell’insegnante. Illuminatisolamente dalla fioca luce di una candela, i ragazzi cantano per noi perl’ultima volta. Sono le nenie che ci hanno accompagnati durante tutto ilviaggio, storie di amori non corrisposti, storie di vita. E’ un momentoaffascinante, bellissimo. Noi siamo letteralmente incantati, rimpiangiamodi non poter registrare quelle voci che tante volte erano rimbalzate daun costone all’altro delle montagne che avevamo attraversato.

Poi, terminati i canti, veniamo sopraffatti da una commozione generale.Ci abbracciamo a vicenda, ci stringiamo e ristringiamo la mano, Saul piangecome una fontana e si asciuga le lacrime sulle tende della finestra, Federicalo abbraccia e lo tiene stretto. Milus piange e ride, Ies regala ad unaHeidi piangente il suo copricapo piumato, Latius e Alfonse mi regalano unbraccialetto intrecciato da loro. Ogn’uno cerca di lasciare all’altro unproprio ricordo e sembra che nessuno se ne voglia andare.

Accidenti, mi dispiace veramente lasciarli. Questi ragazzi hanno vegliatosu di noi per tutto il tempo, ci hanno aiutati, presi per mano, assistitiin tutto e per tutto. Abbiamo vissuto con loro giorno e notte, superatomontagne, attraversato fiumi in bilico sui tronchi degli alberi: abbiamocercato (mio Dio!!) di cantare con loro, abbiamo riso con loro anche quandonon ci si capiva niente, con loro abbiamo diviso cibo e acqua.

Mi torna alla mente la volta in cui, prima di arrivare ad un villaggio,mi ero fermata al fiume per togliere un po’ di fango dalle scarpe: Latiusmi vede, torna indietro e si china per aiutarmi a pulirle. Non mi sarebbemai passato per la testa chiedergli di farlo e rifiuto il suo aiuto: nonvoglio, lui non deve, non ce n’è bisogno. Lo ringrazio prendendoglila mano e facendolo rialzare. Anche se lui non mi capisce, gli dico chelui è il mio portatore, non il mio servo. Poi, superato il mio momentod’imbarazzo, gli faccio cenno che possiamo andare e lui mi porge la manoper aiutarmi a risalire la china scivolosa. Proseguiamo in silenzio, luidavanti, io dietro.

 

Il terzo giorno la MAF si ricorda di noi ed arrivano i Cessna. Il “Responsabileaeroportuale” viene ad informarci che dobbiamo essere pronti per ilpeso alle prime luci dell’alba: subito non crediamo possibile che l’aereopossa arrivare così presto (è buio), ma il rombo del motoreci contraddice. Prepariamo velocissimi “armi e bagagli”, salutiamoi nostri portatori che torneranno a Wamena a piedi, salutiamo il Teacherpaffutello e andiamo. Papà Frangkie viene con noi.

Vista dal finestrino del Cessna la Valle del Baliem è ancora piùaffascinante: un infinito oceano verde.

 

A Wamena torniamo a far base all’Hotel di John Wolof, dove comunque ciaspettano Simonetta e l’anziano portatore che l’aveva praticamente adottata(nella speranza di una congrua ricompensa).

Non pare vero di poter fare colazione con pane, burro e marmellata! Nonpare vero di poter camminare nuovamente sull’asfalto, senza fare fatica.Dopo un tempo che pare un’eternità mi pettino di fronte ad uno specchioe constato che, a parte il viso un po’ scavato e qualche chilo in meno,tutto il resto sembra a posto. Naturalmente non devo fare paragoni con igruppetti di turisti che sono appena arrivati, puliti e ben nutriti, altrimenti…….

 

 

IL SUD

A questo punto il viaggio dovrebbe proseguire con uno spostamento a sud,nel territorio degli Asmat, dei Kombai e Korowai, il popolo degli alberi.Non abbiamo prenotazione aerea, anche perché, inizialmente, sembravache l’aeroporto di Timika fosse chiuso. Non sappiamo nemmeno se si potràarrivare sino ad Agats, non sappiamo nulla di nulla.

Riusciamo a farci una velocissima doccia (con il mandi, ma comunque una”doccia”), riesco anche a lavare qualche calzino prima di ripartireinaspettatamente subito per Timika.

L’aereo della Trigana Airways è tutto un rattoppo e, in cabina,i pezzi sono legati con il filo di ferro: comunque decolla, non cade, eriesce anche ad atterrare intatto. Inoltre, cosa importantissima, ci dannoanche da mangiare (che meraviglia!)

 

CAPITAN UNCINO

A Timika rimaniamo per circa un giorno e mezzo e ne approfittiamo percomprare pane ripieno di cioccolato. L’unica possibilità che abbiamoper arrivare ad Agats è per via d’acqua, risalendo i grandi fiumied affrontando un tratto in mare aperto. Troviamo una barca a motore e partiamo:dopo circa mezz’ora di navigazione lungo il fiume siamo già arenatiin mezzo alle erbe perché si è rotto il cavo di trasmissionedei due motori. Il caldo è insopportabile, l’umidità èalle stelle. Senza scomporsi, il nostro Capitano e il suo aiutante riparanoil guasto con un pezzo di corda che, stranamente, terrà sino allafine.

Siamo convinti di arrivare a destinazione prima del buio, ma la nostraconvinzione diventa ben presto una mera illusione. Quando il grande fiumesfocia nel Mare degli Arafura è ormai quasi buio e, di Agats, nonc’è traccia. Alle 6 del pomeriggio è già buio pestoed il nostro Capitano, che continua fumare più di un turco, si orientacon le stelle e la luna. Non abbiamo luci ed ogni tanto ci areniamo a tuttavelocità sulle secche. Quando questo succede, Frangkie affonda leunghie nella mia gamba, i motori si ribaltano, le eliche girano a vuotoe tutto si spegne: più volte l’aiutante di Capitan Uncino deve smontarele candele, soffiarle e rimontarle. Poi, ogni qualvolta ci areniamo, ilnostro mozzo (che ha un ascesso grande come un pompelmo) scende e spinge.Branchi di pesci enormi (tonni?) sbattono contro la barca ed uno colpisceaddirittura Frangkie nella schiena – le scaglie di pesce probabilmente appiccicateancora adesso alla camicia di Frangkie ci convincono che il pesce era veramentegrosso. Cerchiamo di dormire, ma lo spazio è ridotto ed il rumoredei motori buca i timpani. Heidi ha paura, decide di gonfiare il materassinoin caso di naufragio. Alla fine, usiamo il materassino come cuscino e alcunidi noi riescono anche a dormire. Io penso che se naufraghiamo saràprobabilmente possibile rimanere in piedi su una secca, ma poi mi vienein mente che il mare degli Arafura è molto frequentato dagli squalie che, comunque, dopo la bassa marea viene l’alta marea… Guardo l’aiutantedel Capitano: è tranquillo, quindi non c’è motivo di preoccuparsi.Gli chiedo quando arriveremo ad Agats e lui mi indica la mezzanotte (aiuto!Sono appena le 9!). Beh, penso fra me, al limite, se il Capitano sbagliarotta approdiamo a Darwin….

Come da pronostico, dopo ulteriori arenamenti e colpi di tonno, a mezzanottein punto attracchiamo al piccolo molo della casa di Capitan Uncino. Quelloche segue sembra tratto da un film a rallentatore. Tutto traballa e ondeggia,noi compresi. Il Capitano ci precede e noi lo seguiamo, inebetiti, stanchie praticamente sordi. Dal molo si accede direttamente a quella che deveessere la cucina: una grande griglia al centro del locale, pile di piattisporchi, roba da mangiare non ben identificabile appesa al soffitto, odoredi fritto e rancido. Più che una cucina assomiglia ad una sala delletorture medievale. Dal Medioevo passiamo all’era moderna, con tanto di televisorestereo, poster di pin-up appese alle pareti, moquette e divani: siamo insalotto. Continuiamo a seguire Capitan Uncino e ci ritroviamo fuori : difronte a noi una passerella di legno che passa attraverso le file di casecostruite su palafitte. Scopriremo infatti il giorno dopo che Agats ècostruita interamente su palafitte.

Arriviamo traballando di fronte al posto dove avremo passato la notte,arriviamo all’Asmat Inn. La locanda (che sembra la casa di Frankenstein)è illuminata all’interno da qualche candela, e la luce tremula efioca rende l’atmosfera ancora più tetra: evidentemente ci stavanoaspettando, dato che il nostro Capitano ne è il proprietario.

La stanza è un forno e per entrare in bagno (se così sipuò chiamare) serve la maschera antigas. Passo la notte completamentesigillata nel sacco a pelo per evitare i morsi delle zanzare che frequentanoassiduamente la nostra camera, anche se il tutto funziona da sauna.

Quella notte dormo pochissimo, dico a me stessa che ben presto saràl’alba.

 

 

LA MALARIA

Se il pericolo di prendere la malaria era un pensiero quasi inesistentedurante il trekking nella Valle del Baliem, la nostra permanenza nel suddell’Irian Jaya ci ha portato nel bel mezzo di zone ad altissimo rischiomalarico. Agats in particolare, città umida, calda, acquitrinosae molto sporca, era il tipico caso di “sito malarico”.

Lo spettro della malaria aggrediva ed influenzava in modo diverso i comportamentidi ciascuno di noi.

Il povero Frangkie, uomo forte e sicuro sulle sue montagne, ma veramentepesce fuor d’acqua al Sud (soprattutto dopo l’esperienza con il tonno),era letteralmente terrorizzato. Avevamo voluto trascinarlo con noi in quelloche probabilmente per lui era un incubo e, sfidando un caldo da bagno turco,Frangkie affrontava le zanzare ben protetto da una spessa giacca a vento,chiusa fin sotto al mento e possibilmente ancor più su. Il tuttointegrato da una buona dose di Autan + zampironi multipli sparsi per lastanza.

Gianni aveva deciso di mangiare pane e Autan e, secondo me, si lavavacon l’Autan. Ricordo che quando si incontravano i mercatini, l’interessegenerale si concentrava sui vari tipi di Autan e simili ed ognuno dicevala sua: questo è più protettivo, meno protettivo, quello nonserve a niente, te l’avevo detto io di non comprarlo e così via.Oltre ad iniziare a spalmarsi di Autan la mattina appena sveglio (persinosulla punta delle orecchie), Gianni non mancava di accendere almeno duezampironi in stanza, incurante del rischio di intossicare il povero Giovanni,perennemente febbricitante, che con lui divideva la stanza. Quando poi abbiamoabbandonato la civiltà per addentrarci in foresta, il campo era cosparsodi zampironi (mi ci sono seduta persino sopra!) e lo zampirone di frontealla tenda era d’obbligo.

Altra patita dello zampirone è Simonetta, che però preferivatenerlo vicino al suo letto. Alfredo sfidava le zanzarone malariche in pantalonicorti. Alla fine sembrava avesse la varicella (in barba alle spruzzate diOff), ma sembra che non fosse stata la sua ora. Inoltre, era lui che esaminavale zanzare catturate con tanto di lente d’ingrandimento e decretava “malariasì, malaria no”.

Federica e Giovanni la mettevano molto sulla non-chalance: in manichecorte, del tipo “le zanzare ci sono, ci spruzziamo e speriamo.”

Heidi e Stefano erano sincronizzati: si spalma lui, si spalma lei. Simette la camicia lui, se la mette lei. Ricordo che, mentre eravamo in forestadiretti a Yaniruma, lo zaino di Stefano era risultato molto attraente perle zanzare, visto che lo seguivano a decine. Erano come una nuvoletta chesi abbassava quando lui si chinava, che girava a destra quando lui giravaa destra o che girava a sinistra quando lui girava a sinistra. Insomma,erano proprio la sua ombra.

Per quanto mi riguarda, al Sud ho veramente avuto paura della malaria.A Timika, dove Simonetta aveva optato per chiusura sigillata del sacco apelo e fumenti a base di zampirone, io ho smontato mezza stanza (letto compreso)per poter montare la zanzariera della tenda. In foresta avevo sempre lacamicia con le maniche lunghe ed il collo ben coperto dalla bandana. Badavopiù a coprirmi che non a spruzzarmi, anche perché nel girodi qualche minuto il sudore si sarebbe portato via tutto.

In foresta le zanzare ti svolazzavano davanti al naso, grosse, nere e…dall’aspetto terribilmente malarico. La sera, appena faceva buio, ci sichiudeva in tenda (è capitato di andare a dormire alle 6 del pomeriggio)e allora si sentivano decine di zzzzz…zzzzz…..zzzzz che, talvolta, avevanola fortuna di trovare un polpaccio (nella fattispecie quello di Giovanni)appoggiato contro la zanzariera della tenda. Il giorno dopo detto polpacciorisultava “mitragliato”.

Altro incubo era costituito dalla zanzara “in tenda”. Per imalcapitati occupanti era un’ossessione battente che sfociava quasi in disperazione:potrà sembrare impossibile, ma scovare una zanzara in una tenda diun metro e 70 x 1 metro e 40 è più facile a dirsi che a farsi.

La malaria è stata nostra compagna di viaggio per tutto il periodopassato nella zona degli Asmat. Purtroppo, ho saputo di recente che Heidiè stata la prima (e speriamo unica) vittima, anche se non si trattadi una forma grave.

 

AGATS

La mattina dopo il nostro arrivo via mare facciamo un breve giro perrenderci conto di dove siamo, mentre Frangkie si occupa dei viveri e vengonopresi gli ultimi accordi per il prezzo della canoa che ci permetteràdi risalire i grandi fiumi.

Gli Asmat sono famosi per la loro abilità nell’intagliare il legnoed i ricchi americani si recano ad Agats per comprare i totem che troneggianoall’interno delle Long Houses. Si dice anche che siano stati gli Asmat aduccidere e mangiare il figlio di Rockfeller che, a seguito del rovesciamentodella canoa, aveva nuotato verso riva anziché rimanere con i propricompagni: c’è un villaggio nel quale si dice sia conservato il suoteschio, ma dove, ovviamente, non si può andare…

 

La viabilità ad Agats è completamente basata sulle passerelledi legno: non esistono strade, né in cemento, né in terrabattuta. Ci sono parecchi negozietti e non è difficile trovare generialimentari di cui ci eravamo quasi dimenticati, come cioccolata e biscotti,ma soprattutto acqua in bottiglia.

Tutte le case sono palafitte, sotto alle quali si accumulano rifiutidi tutti i tipi.

Qui visitiamo velocemente anche il museo Asmat, che aprono apposta pernoi, e che custodisce favolose sculture ed una raccolta di teschi: siamotentati di comprare le sculture, ma il peso ed il prezzo ci dissuadono.

 

Deve essere piò o meno mezzogiorno quando terminiamo di caricarela grande canoa e partiamo. Abbiamo dovuto limitare di molto la scorta diacqua per via dello spazio ristretto e del peso: speriamo (invano) di poterlatrovare strada facendo.

Per imbarcarci attraversiamo un bar che ricorda quelli frequentati daisoldati americani durante la guerra del Vietnam: caldissimo, sgangherato,una luce fioca che illumina un tavolo da biliardo, una nuvola di fumo disigaretta che aleggia su personaggi dalla faccia tutt’altro che rassicurante.Comunque, se dentro non si respira fuori si cuoce, con un sole allo zenited un cielo che non offre la benché minima nuvola.

 

Nel lungo tratto da Agats a Senggo risaliamo il fiume Siretsi. Abituatia camminare per ore, ci troviamo costretti a rimanere seduti ore ed oresu una panchetta di legno, con uno spazio di movimento ridottissimo, sottoun sole che potrebbe trasformarci in spiedini. Riusciremo ad apprezzarecompletamente questi lunghi tratti in canoa solamente a viaggio ultimato,quando si riordineranno le idee e ci si renderà effettivamente contodi ciò che si è potuto fare e vedere.

 

In questa zona, il paesaggio è totalmente l’opposto della Valledel Baliem: non ci sono montagne, tutto è piatto. Navighiamo frarive coperte da una fittissima vegetazione, l’acqua pare olio e, per effettodel sole riflesso, talvolta sembra che le erbe si prolunghino ed entrinoin acqua, riproducendo al contrario il paesaggio che noi vediamo dalla canoa.Il colore del cielo, il sole, il blu dell’acqua e il verde brillante dellepiante sono abbaglianti. Di tanto in tanto incrociamo grandi zattere con”casa” – a volte costruite solo con foglie di palma, altre voltevere e proprie capanne di legno – sulle quali vivono gruppi di persone (nucleifamiliari + cani e maialetti). Siccome le zattere sono veramente molto grandisupponiamo che, una volta giunti a destinazione, essi vendano i tronchiusati per costruirle e tornino al luogo d’origine.

 

 

Dopo Agats, la nostra prima tappa è il villaggio di Biwar-Laut

A causa dell’acqua bassa, per arrivare a Biwar-Laut siamo costretti atornare in mare aperto anziché tagliare attraverso un canale internoche ci avrebbe permesso di risparmiare oltre un’ora di viaggio: quando finalmentelasciamo il mare per re-immetterci nel canale che ci porta al villaggio,la bassa marea avanza e con essa anche il pericolo di rimanere incagliatinel bel mezzo di un acquitrino, senza luci, circondati da un fango nel qualesi sprofonda sino al ginocchio e, soprattutto, da nugoli di zanzare.

Nonostante questo, però, l’atmosfera che ci circonda èmagica.

E’ ormai il tramonto e il sole calante dipinge il cielo di rosa, giallo,azzurro. La bassa marea lascia pian piano scoperta una vasta fascia di terracoperta di limo, sulla quale si affollano stormi di uccelli intenti a catturarepiccoli pesci e crostacei. Ci immettiamo molto lentamente nel canale perevitare le secche e non possiamo non osservare, in silenzio, quel che cicirconda: le rive sono coperte da una vegetazione impenetrabile e stormidi pappagallini rumorosissimi passano veloci sopra di noi. I pipistrellisvolazzano qua e là e la foresta sembra rianimarsi, echeggiante dibrusii, sbatter d’ali, squittii e altri rumori indefiniti.

In un attimo però è buio pesto e noi ci ritroviamo arenati,fortunatamente a pochi metri dal molo di Biwar-Laut dove veniamo ospitati(a pagamento) nella scuola (o chiesa) del villaggio. Montiamo le zanzariereperché le zanzare abbondano, mentre Frangkie e il nostro barcaioloiniziano a preparare la cena. L’edificio si riempie intanto di persone,in maggioranza uomini e bambini venuti a vedere i nuovi arrivati.

Ceniamo a lume di candela e in men che non si dica siamo tutti in tenda.

Umidissimo, caldissimo, molto povero, infestato da mosche, zanzare etafani, il giorno dopo Biwar-Laut si mostra a noi in tutto il suo squallore.Siamo purtroppo bloccati dalla bassa marea, che ha praticamente prosciugatoil canale e dobbiamo aspettare sino quasi a mezzogiorno prima che la canoaaccenni a muoversi. Quel giorno stabiliamo che non avremmo voluto vivere1 anno a Biwar-Laut nemmeno se ci avessero regalato 4 miliardi (forse l’unicoche avrebbe contemplato l’idea era Giovanni. “Sai com’è, unosi organizza…..” diceva).

 

 

ATSI

Dopo la miseria di Biwar-Laut, l’arrivo ad Atsi è una simpaticasorpresa: piccoli motoscafi attraccati al molo, bel paesino pulito, convere casette di legno, negozi con generi alimentari (ma non compriamo l’aranciataperché costa troppo), un mercatino dove si vende di tutto, un campodi pallone. Il 90% degli abitanti è di origine indonesiana, nullafacentispostati lì e finanziati dal governo indonesiano giusto perchéfacciano presenza e ricordino ai locali che l’Irian Jaya non è indipendente.

Decidiamo di montare le nostre tende quasi di fronte all’albergo cheavrebbe dovuto ospitarci (giudicato all’unanimità troppo caldo e,soprattutto, troppo caro) e diventiamo subito l’attrazione principale. Davantial nostro piccolo “accampamento” si forma subito una fitta schieradi spettatori: c’è chi ride, chi commenta, chi aiuta a montare letende, chi fa proposte di matrimonio. Arrivano anche le “riccone”del paese: vere e proprie matrone indonesiane, vestite di seta, protetteda ombrellino parasole e coperte d’oro, le dame sfilano pavoneggiandosidi fronte a noi, ridono fra loro e si informano sul nostro stato “matrimoniale”.Rimangono scandalizzate quando dico loro che non sono sposata con Giovanni:”male, male” dicono “perché hai gli occhi belli”.

Per la cena affittiamo una stanzetta dirimpetto alle nostre tende (ilche non è male perché ci permette di tenerle costantemented’occhio) e Frangkie si incarica di cucinare la cena, che risulteràuna semi-tragedia greca e ci farà rimpiangere di non essere andatia mangiare in uno dei banchetti del mercatino. A questo punto è d’obbligoaprire una parentesi sulle

 

UOVA DI ATSI

Visto che il riso bollito e le patate fritte cominciano a provocare nauseeda gravidanza, in uno slancio di coraggio e forse preoccupato per il nostrofegato Frangkie decide di andare al mercato e comprare 36 uova che, purtroppo,risulteranno quasi tutte marce. Essendo un uomo d’onore, il mesto Frangkie(che, per via dell’altezza, dei modi di fare e soprattutto per la capigliaturaavevamo paragonato ad un componente della famiglia Simpson) chiede che ilcosto delle uova andate a male gli venga defalcato dallo stipendio. Siacome sia, le uova diventano un vero e proprio “affare di stato”.Dopo Frangkie ci prova anche il nostro barcaiolo con relativo aiutante e,alla fine, partiamo io, Heidi, e Giovanni (vero esperto nello stabilirese l’uovo è marcio o no, a seconda se quest’ultimo va a fondo o galleggia.Se galleggia è perché c’è aria dentro e quindi èmarcio, se va a fondo si può mangiare). Chiaramente non possiamoportarci dietro un secchio per fare la prova di immersione al mercato, maad ogni bancarella si procede allo “scuotimento” dell’uovo (ilche suscita non poco interesse per i nostri spettatori che si chiedono cosamai stiano facendo quei quattro pazzi che vanno in giro a sbatter uova).Alla fine, comperiamo le uova affidandoci più alla buona sorte chenon all’esperienza, le facciamo bollire e le mangiamo anche se non eranoandate a fondo.

Mentre scrivo mi rendo conto che questo episodio potrebbe sembrare banalee non degno di nota, ma illustra come ciò che si potrebbe giudicareuna “stupidaggine” in condizioni normali (quando cioè ilsupermercato è dietro l’angolo o il frigorifero è pieno) diventaimportantissimo in condizioni – se vogliamo “di sopravvivenza”- precarie, dove non sai se il giorno dopo troverai un pescatore per compraredel pesce, se troverai del riso o dell’acqua. Quando si è via dacasa, quando si è in un paese dove niente è certo, dove sipuò contare unicamente su sé stessi e sui propri compagni,allora anche il pezzetto di spago o di carta, la goccia d’acqua, la spillada balia, la manciata di riso diventano preziosi. Anche le piccolezze, inIrian Jaya, diventano cose che possono cambiarti la vita.

 

Durante il tragitto ci fermiamo brevemente (per sgranchire le gambe)presso alcuni villaggetti: sono desolanti, poverissimi, pieni di mosche.Visitiamo le long houses, nelle quali fanno bella mostra i preziosi totemdi legno. In un villaggio notiamo su un tagliere i resti abbrustoliti diun cane: rimangono la testa, le interiora e parte delle 4 gambe. Per lagente di Celebes, ci dicono, è normale mangiare i cani, che vengonoallevati di proposito.

 

Senggo è un paesino molto meno ricco di Atsi, ma comunque in gradodi offrire acqua in bottiglia, biscotti e scorta di riso. Dopo aver litigatocon la padrona dell’unico alberghetto esistente, piantiamo le tende nelgiardino di una casa privata il cui padrone, ben volentieri, ci affittalo spazio.

Qui ci facciamo rilasciare il nuovo surat-jalan che ci permette di proseguiree ripartiamo il giorno dopo, già avvertiti più volte che l’acquabassa avrebbe causato una variazione di percorso.

 

Il Dairam Kabur è il fiume che avrebbe dovuto portarci sino aYaniruma. Dico avrebbe dovuto perché ad un certo punto, anzichéimmetterci nel Dairam Kabur, siamo costretti a proseguire sul Siretsi perraggiungere Oyemu, dove abbandoniamo definitivamente la canoa per via dell’acquatroppo bassa e dei numerosi tronchi semi-sommersi che rendono la navigazioneimpossibile e sui quali ci eravamo già più volte incagliati.

Comunque, l’idea di abbandonare la canoa non ci spiace poi tanto: finalmentetorniamo a camminare un po’ e lasciamo un barcaiolo tutt’altro che simpatico.

 

Prima di arrivare a Oyemu, Frangkie prende accordi affinché ungruppo di portatori ed una guida ci raggiungano il giorno dopo per accompagnarcia Yaniruma, che dovrebbe distare circa 3-4 giorni di cammino. La speranzache i portatori tengano fede alla parola è molto remota, ma non c’èalternativa: decidiamo comunque che, piuttosto di rimanere bloccati lì,ci saremmo caricati noi i bagagli in spalla (cosa che, in seguito, sarebberisultata assolutamente impossibile).

 

 

 

OYEMU

Oyemu è un piccolissimo villaggio Citak, più pulito diBiwar-Laut, ma poverissimo, e i cui abitanti sono stati decimati dalla malaria.Qui incontriamo Ivan e il suo gruppo, anche loro diretti a Yaniruma, mabloccati sul posto perché i loro portatori non si sono presentati(che prospettiva!).

Arriviamo nel tardo pomeriggio e sono in corso le esequie funebri perla morte di un bambino. Piantiamo le tende sulla sabbia bianca e finissima,fra le quattro casette del villaggio ed affittiamo lo “spazio cucina”per poter preparare il solito riso bollito e il thè. Dopo aver preparatoil campo, il nostro stato personale è tale da persuadere me e Giovannia lavarci sommariamente e per quanto possibile nell’acqua color Coca-Colaprima che faccia buio e ci assaltino le zanzare.

L’acqua in bottiglia è agli sgoccioli e cerchiamo di risparmiarlaper il percorso in foresta (l’unica speranza di poterne trovare èa Yaniruma). Facciamo quindi bollire e beviamo l’acqua del fiume perché,anche se Alfredo ha un filtro a caduta, l’acqua è talmente densada passare nel filtro troppo lentamente e, comunque, senza che questo apportivariazioni di colore degne di nota.

Passo una notte insonne: è morto un altro bambino di malaria esi sentono i canti funebri di genitori e parenti spostarsi nella foresta.Talvolta sembrano vicinissimi alla tenda, altre volte si allontanano e quasisi perdono, per poi tornare vicinissimi. Si sentono anche altre voci, personeche gridano, spari, maiali selvatici che continuano a girare e grufolareattorno alla tenda.

 

 

VERSO YANIRUMA

La mattina dopo, sia Ivan e il suo gruppo che noi, partiamo, entrambicon la stessa meta, ma seguendo due percorsi diversi.

I portatori sono inaspettatamente arrivati (anche se un loro ritardoci aveva fatto temere il peggio): Gianni e Simonetta salgono nelle piccolecanoe dove abbiamo caricato i bagagli (anche perché non ci fidiamomolto dei portatori) e noi proseguiamo a piedi. L’appuntamento èin un punto a noi ignoto, ad un’ora ignota. Frangkie non ci può aiutarevisto che nemmeno lui ha idea di dove ci troviamo. Dobbiamo affidarci completamentealla nostra guida e seguirlo quando ci dice che, prendendo una scorciatoia,possiamo guadagnare parecchie ore anche se ciò significa aprirsila strada in foresta a colpi di machete e costeggiare le rive limacciosedel fiume.

La prima parte del percorso è molto pesante: partiamo a passosostenuto, fa’ molto caldo, ci sono nugoli di zanzare e non c’è tracciadi sentiero. Nascoste a terra fra il fogliame ci sono erbe finissime, moltolunghe, completamente ricoperte di spine che si attorcigliano alle gambea mo’ di cappio e ti fanno inciampare costantemente. Talvolta queste erbepenzolano dagli alberi, ma sono praticamente invisibili in quanto si confondonocon i colori della vegetazione circostante e ti accorgi di loro solamentequando senti le spine conficcarsi in viso. Altre volte, usiamo come passerellai tronchi degli alberi per non essere inghiottiti dalla vegetazione e perpoter attraversare i fiumi: allora capita che il tronco marcio si spacchie ci si ritrovi qualche metro più in basso (fortunatamente senzamai niente di rotto) rispetto agli altri. La marcia in riva al fiume nonè meno faticosa: si scivola, si cade, ci si arrampica o si cercaun passaggio fra cataste di tronchi ammassati a riva dal fiume quasi insecca. La vegetazione attorno a noi è selvaggia, prorompente: incutetimore perché si ha l’impressione che qui, l’uomo, non possa nulla.Di tanto in tanto ho l’impressione che questa foresta sia “cattiva”,che ci voglia ingoiare: la paragono alla foresta del Lupo Mannaro e la contrappongonella mente alla foresta “buona” della Valle del Baliem.

Dopo aver ritrovato (con nostro sollievo) gli altri partiti in canoa,recuperiamo gli zaini e le poche provviste e proseguiamo in mezzo alla foresta.Verso le 4 del pomeriggio la nostra guida decide di fermarsi per la nottevicino ad una pozza d’acqua e noi montiamo le tende in tutta fretta, vistoche alle 5 il sole inizia a calare. Frangkie riesce a cucinare quel po’di cibo rimasto e facciamo il thè con l’acqua marrone della pozza.Disseminiamo il campo di zampironi perché le zanzare sono piùche abbondanti e per le 6 siamo già tutti a letto, eccezione fattaper Heidi che cerca di conversare con i portatori.

La sensazione negativa della foresta mi sta sulla testa come una cappae, mentre sono in tenda, penso che se solo volessero o avessero abbastanzamalizia per farlo, i nostri portatori potrebbero rubarci tutto e farci sparireper sempre. Fortunatamente mi sbaglio, ma passo metà notte insonnead ascoltare le loro voci, ad indovinare i loro movimenti, a cercare diinsinuarmi nelle loro menti.

 

Comunque, obbiettivo di guida e portatori è quella di arrivarea Yaniruma il più tardi possibile così da riuscire ad avereun giorno in più di paga: a tal fine si fermano per fumare ogni mezz’ora,perdono tempo, sono molto evasivi sulla distanza che ci rimane da percorrere.Interesse nostro, invece, è arrivare a Yaniruma il più prestopossibile e siamo disposti a “tirare”: fra noi c’è chisi illude di trovare persino un ristorante, io spero solo di trovare unpo’ d’acqua pulita. Alla fine promettiamo loro un premio in rupie, pur dinon perdere più tempo.

L’acqua in bottiglia è finita. Abbiamo ancora qualche misera riservanelle borracce, ma niente a confronto del nostro fabbisogno. Strada facendoincontriamo un gruppo di Tedeschi e, finalmente, sappiamo che siamo a circa4 ore di marcia da Yaniruma. Guardandoli, calcoliamo che 4 ore per loroequivalgono molto probabilmente a circa 2 ore per noi.

Mentre ci lasciamo mi fermo ad osservarli, chiedendomi cosa quella gentesia venuta a fare in Irian Jaya: scaricati freschi freschi dal Cessna dellaMAF sono grassi, sudaticci, già distrutti dopo le poche ore di marcia,uno di loro è persino sull’orlo del collasso. Non riescono a procederecompatti ed ogni tanto incontriamo un ritardatario, sempre più sudato,sempre più disfatto, sempre più lontano dagli altri. Hannoal loro seguito uno stuolo di portatori e servitori con tanto di frigoriferopieno (immagino) di bibite fresche, hanno maialini, riso, pasta, ed ognisorta di altro cibo. Mi fanno quasi pena e mi domando perché nonsiano rimasti a casa, a bere birra sotto l’ombrellone.

 

A causa delle condizioni ambientali, sommate alla mancanza d’acqua edi cibo, ritengo che lo sforzo fisico sostenuto durante la marcia sino aYaniruma sia stato molto maggiore rispetto al trekking nella Valle del Baliem,dove – a dispetto di salite e discese senza fine – potevamo contare su abbondanzad’acqua e cibo e su condizioni climatiche migliori. Ricordo l’ultimo trattoprima di arrivare a Yaniruma come il peggior momento di tutto il viaggio:sono in ipoglicemia totale, mi gira la testa, mi mancano le forze, sudofreddo e in modo più che abbondante. Non reintegrando praticamentealcun liquido, le gambe vanno avanti per inerzia (o meglio, si trascinanoper inerzia) e mi devo appoggiare al bastone per poter continuare.

 

 

YANIRUMA

L’arrivo a Yaniruma, territorio Kombai, è un momento misto a sollievo,curiosità, preoccupazione per quel che avremmo effettivamente trovato.Quando ci accorgiamo che la foresta si va diradando e lascia posto a spazisempre più ampi, che di norma precedono l’entrata ad un villaggio,il morale si risolleva: Giovanni insiste con il ristorante e con la doccia,io penso unicamente all’acqua e al fatto che non sono più nella bocca
del mostro, della foresta cattiva: vedo finalmente il cielo azzurro, vedole nuvole, mi sento di nuovo libera.

Entriamo nel villaggio dalla pista di atterraggio dei Cessna, lunga strisciadi finissima terra bianca, ed abbiamo fretta di vedere ciò che, purtroppo,Yaniruma realmente è: alcune casette di legno, la piccola stazioneradio, la chiesa, un piccolo negozietto che vende solamente bottigliettedi olio. Nient’altro.

Non c’è acqua, non c’è cibo, non c’è ristorante,non c’è doccia, non c’è niente di niente. Yaniruma èil nulla, è disperazione, sconforto. Mi lascio cadere a terra, nonho più la forza di arrabbiarmi, di pensare. Ho come una sensazionedi vuoto mentale.

Perso per perso, decidiamo di cercare comunque qualcosa da bere: incontriamoPaul, antropologo americano che ha vissuto in quella zona per un anno esta trascorrendo lì un periodo di vacanza per rivedere gli amici.Lui ci conferma che a Yaniruma non c’è acqua e gli unici generi alimentarivengono portati dai Cessna che arrivano da Wamena. Poi ci par di capire(non so da chi e non so come) che al negozio di un cinese si potrebbe trovarequalcosa da bere e ci precipitiamo a bussare alle porte sprangate dellacasetta in legno. Dopo alcuni interminabili minuti Il cinese fa’ capolinoda una finestra, mezzo intimorito da questi occidentali che per poco nongli buttano giù la casa e, meraviglia delle meraviglie, mette sulbancone alcune lattine di Coca-Cola, unico genere alimentare di tutto ilnegozio.

Non mi sembra vero. Abbiamo finalmente qualcosa da bere, qualcosa chenon sa di terra, che non può infettarti con tifo e epatite, che nondevi bollire, che non devi tapparti il naso per poter bere. Gli compriamotutte le lattine (3 a testa) pagandole a peso d’oro.

La Coca-Cola riporta il morale e gli zuccheri di tutti a livelli normali.Personalmente, dimentico la fatica e la sete; la fame è molto relativa,in quanto sottostà alle prime due. Riusciamo anche a trovare un po’di riso e della pasta per la cena e montiamo le tende vicino ad una casadi legno dove Frangkie ha attrezzato la cucina. Alla sera paghiamo i portatori,così possono tornare al loro villaggio, e ci prepariamo a trascorrerealmeno il giorno seguente in completo riposo forzato, poiché viaradio da Wamena ci viene confermato che la MAF prevede di venirci a prenderesolamente dopo 5 giorni. La prospettiva di rimanere bloccati a Yanirumaper un tempo superiore al previsto e allo sperato ci spinge ad organizzareun giro nella zona Kombai/Korowai più lungo del previsto, spingendocisino al villaggio Korowai di Daio che dista da Yaniruma circa 8-9 ore dicammino.

Il giorno dopo l’arrivo a Yaniruma viene dedicato al riposo, al rammendo,al lavaggio dei panni sporchi, alla pulizia tende, alla lettura. Tuttavia,non siamo più abituati a rimanere fermi nello stesso posto “cosìa lungo” e alla fine iniziamo persino ad annoiarci.

 

“THERE IS NO WATER IN THE RIVER”

Apro qui una parentesi sul punto pulizia personale per ricordare un episodioche lì per lì è stato (ed è ancor oggi) oggettodi risate a crepapelle (specialmente per me e Heidi) ed ha come protagonistail nostro uomo del tonno e delle uova, vale a dire il nostro Frangkie. Iltutto è dovuto alla grande ed anomala siccità che ha interessatol’arcipelago indonesiano e che causerà, subito dopo la nostra partenza,i gravissimi incendi che hanno distrutto centinaia di migliaia di ettaridi foresta e provocato la morte di centinaia di persone.

 

Approfittando della pausa, Frangkie provvede subito ad assumere come”maggiordomo” un ragazzino del posto, incaricandolo di lavarglii vestiti sporchi e di aiutarlo nelle faccende in cucina. Il giorno stesso,in tarda mattinata (sono circa le 10), Frangkie ha notizia che vicino allapista d’atterraggio c’è un fiumiciattolo dove potersi lavare: passaquindi da noi per informarci della sua meta, si arma di dentifricio, spazzolino,sapone e asciugamano e parte alla ricerca del fiume seguito dal ragazzinocon i panni sporchi. Noi non ci badiamo più di tanto, lo vediamoincamminarsi verso la pista d’atterraggio e poi sparire.

Quando Frangkie torna è l’una passata: è sudatissimo, hal’aria disfatta, a mezzo fra il demoralizzato e l’affranto: sapone, dentifricioe spazzolino sempre in mano, ragazzino con i panni sporchi sempre al seguito.Veniamo informati che “there is no water in the river”, non c’èacqua nel fiume o, meglio, non c’è proprio il fiume. CosicchéFrangkie aveva camminato per 3 ore alla ricerca di una pozza d’acqua decentedove lavarsi (soprattutto i denti, sua necessità principale), e siera visto obbligato a tornare a Yaniruma più sporco di prima.

Visto che Paul, l’antropologo, ci aveva informati circa l’esistenza diun buon posto dove fare il bagno e a cui era possibile arrivare sia in canoa,sia a piedi seguendo un sentiero che costeggiava il braccio di fiume pocodistante da noi, decidiamo di andare a cercare un posto dove lavarci. Anchese l’informazione avuta era alquanto evasiva ed imprecisa, l’idea di fareil bagno in acqua corrente e pulita era tutt’altro che spiacevole.

Quindi, Heidi, Stefano, Giovanni, Simonetta ed io, seguiti da Frangkiee aiutante, ci incamminiamo verso il fiumiciattolo poco più a valle,dove l’acqua è fangosa, quasi stagna e puzza non poco. Da lìsi sarebbe dovuto trovare il sentiero per raggiungere il fiume vero e proprio.

Lì giunti, visto che di sentiero non c’è traccia, cerchiamodi convincere Frangkie ad andare in avanscoperta in canoa per verificarese, effettivamente, risalendo per un tratto quel canale maleodorante c’èla possibilità di trovare acqua corrente. “Non possiamo”gli diciamo “lavarci in un’acqua così sporca perché potremmoprendere chissà quali malattie”. Il poverino, stanco, affranto,terrorizzato dall’idea di dover stare in equilibrio su quel guscio di canoa(che avrebbe tra l’altro dovuto temporaneamente “rubare”), atterritodall’idea di dover portare con sé di malavoglia una insistente Simonetta(che era ormai diventata il suo incubo personale durante i trekking in foresta),cerca di opporre una blanda resistenza, ma, alla fine, decide di accontentarcie, quasi piangendo, parte con il suo aiutante ed i panni sporchi.

Si sistema a prua, barcollando di qua e di là, ma cercando comunquesempre di mantenere una postura dignitosa: Simonetta si stende dietro dilui e l’aiutante comincia remare. Dopo circa un metro la canoa si incagliae manca poco che Frangkie non cada: da parte nostra seguono risate malcelate,da parte di Frangkie, probabilmente, insulti mentali a ripetizione.

Alla fine, dopo averli salutati e persi di vista alla prima curva, decidiamoche non vale la pena aspettare il loro ritorno e ci laviamo lo stesso inquella specie di acquitrino maleodorante, dove ci immergiamo fino al collo(che schifo!).

Insomma stimiamo che quel giorno, per potersi alla fine lavare in un’acquaterribile, Frangkie percorre da 5 a 10 Km con una temperatura che sfiorai 38 gradi all’ombra, è costretto a rubare una canoa che si incagliadopo un metro e per poco non lo fa’ cadere in acqua vestito, è obbligatoa portarsi appresso Simonetta, naviga per circa mezz’ora, torna gentilmenteper dirci di non avere trovato nulla e…… ci trova tutti immersi nell’acquitrino(alla faccia di chissà quali malattie).

 

Ripartiamo da Yaniruma il giorno dopo per un trekking di 4 giorni nellazona circostante, nella zona delle

 

RUMAH TINGI – OVVERO CASE SUGLI ALBERI.

 

Molteplici sono le ragioni per cui, secondo gli antropologi, queste popolazionicostruiscono le loro case sugli alberi ad altezze così elevate, arrivandotalvolta a toccare i 40 metri. Si pensa lo facciano per tre ragioni principali,vale a dire:

· essendo animisti, essi credono che di notte la foresta si popolidi mostri e spiriti maligni. Maggiore è l’altezza alla quale costruisconola casa, minore è il pericolo di visite notturne indesiderate;

· proteggersi dall’attacco di eventuali nemici o animali selvatici;

· sfuggire alle zanzare.

 

La prima e seconda ipotesi ci sono state confermate da Paul e sono senz’altroquelle a cui dare maggior credito.

I Kombai/Korowai sono popolazioni nomadi. Non coltivano alcun tipo divegetale (legumi, frutta, cereali) e non allevano bestiame, eccezione fattaper alcuni maialini. Gli uomini si dedicano alla caccia e alla pesca, ledonne curano i bambini e cercano bacche e radici commestibili. Piùfamiglie possono convivere in una stessa rumah tingi sino a che la zonacircostante fornisce abbastanza cibo per tutti: poi, la casa viene abbandonataed il nucleo famigliare si sposta, insediandosi in un’altra rumah tingia sua volta abbandonata da altri.

ll pavimento della casa poggia sui rami più alti dell’albero,tagliati alla sommità. Pareti e tetto sono formati da foglie di palmaintrecciate, mentre il pavimento è ottenuto legando saldamente deipiccoli tronchi l’uno vicino all’altro. Unico accesso alla casa ècostituito da piccoli gradini intagliati in un tronco fine e traballanteche poggia a terra e sale su sino alla porta d’entrata (nessuno di noi hamai osato salirvi perché troppo pericoloso).

I Kombai/Korowai hanno una loro lingua, solo parlata, oggetto di studioda parte degli antropologi. Paul aveva vissuto con i Kombai per un annoe l’aveva imparata: ora sta cercando di mettere insieme il primo dizionariodella lingua Kombai esistente al mondo, dando una forma scritta a questalingua inaspettatamente complicata e variegata.

 

 

DAIO

Meta principale del nostro trekking è il villaggio di Daio, acirca 8-9 ore di marcia da Yaniruma. Non è nostra intenzione arrivarviil giorno stesso visto che il tempo abbonda, le forze sono poche, fa caldo,e durante il tragitto facciamo tappa in un villaggetto molto piacevole,pulito, ombreggiato, ventilato, con un fiume favoloso dove poter fare ilbagno. Come al solito, però, le speranze teoriche sono una cosa,la realtà pratica è un’altra: ci fermiamo al villaggetto queltanto che basta per preparare una minestra e bere un thè (riescoanche a rovesciarmelo tutto addosso), fare qualche foto e ripartire.

 

Il “mostro” mi inghiotte nuovamente e torna a fare capolinoquella sensazione sgradevole, pesante, opprimente che mi ha sempre ed inspiegabilmenteaccompagnata durante gli spostamenti al sud.

 

Il tragitto verso Daio si compie quasi esclusivamente camminando su passerelledi tronchi accatastati l’uno sull’altro, coperti in parte o totalmente daliane ed altre erbe che rendono molto difficile vedere dove si mettono ipiedi. Si inciampa, si perde l’equilibrio, si cade. Nei tratti liberi daalberi, il sole ti cuoce la testa e la pelle e non vedi l’ora di ritrovarel’ombra della foresta. Le zanzare sono onnipresenti: la camicia con le manichelunghe è d’obbligo, così come i guanti di cuoio bruciati ebucati che mi hanno salvato le mani dalle spine parecchie volte.

Incontriamo di tanto in tanto delle rumah tingi isolate, ma la piùbella e grande viene scoperta quasi per caso, a causa di un errore di percorso.La vediamo da lontano: è altissima, ben tenuta ed immersa nel fogliameverde dell’albero che la sostiene, nel mezzo di uno spiazzo pressochélibero da alberi e disseminato di tronchi semi-sommersi dalle erbe, unicavia di accesso fra lei e noi.

 

Va’ detto subito che non ci viene e non ci verrà mai permessodi entrare nel villaggio nemmeno il giorno dopo, tanto che inizieremo (atorto) a dubitare della sua esistenza o del fatto che le rumah tingi fosserorealmente abitate e non messe lì apposta per i turisti (sembra infattiche nei pressi di Yaniruma sia stata costruita un’altissima, ma finta, rumahtingi unicamente perché il National Geographic potesse fare un servizio).

 

Io e Giovanni, seguiti da Heidi e Stefano, arriviamo per primi in prossimitàdi Daio quando è già pomeriggio inoltrato, stanchi, assetati,irritati per l’ennesima maratona e veniamo ospitati sotto una grande e lungacapanna vuota, dall’aria poco accogliente e molto “pulciosa”,dove gli insetti abbondano (mosche, tafani, zanzare e similari). Rimpiangiamodi cuore il non esserci fermati al villaggetto precedente, dove avremmoper lo meno potuto lavarci e dove l’aria era molto più respirabile.

Comunque, piuttosto che montare la tenda su un terreno che minaccia pulci,cimici e zecche decido di montare la tenda all’aria aperta (anche se propriovicino ad un formicaio), nel poco spazio disponibile subito fuori la capanna,circondata su tre lati da un groviglio di tronchi ed erbe e delimitata daun fiume melmoso sull’altro lato.

Il luogo, però, sembra disabitato. Non si vede anima viva a partenoi ed i portatori, che arrivano alla spicciolata dopo di noi e sistemanoin fretta lo spazio cucina e i loro giacigli per la notte: il sole sta velocementecalando ed i colori della foresta diventano mano a mano sempre piùbrillanti, più caldi e profondi. Due grossi pappagalli Kakadu danzanoe si rincorrono gorgheggiando nel cielo di fronte a noi: sono affascinantie ci offriranno lo stesso spettacolo anche la sera dopo, con gli stessimovimenti, gli stessi spostamenti, gli stessi suoni.

Dopo una cena a base di riso bollito, patate fritte cinesi e thèmelmoso, esasperati da nugoli di zanzare e stanchi morti, ci ritiriamo intenda non più tardi delle otto. Il caldo, però, è opprimente:quasi non si respira, e le salviettine umidificate con le quali ho cercatomolto sommariamente di “lavarmi” mi fanno sentire più appiccicaticciadi una carta moschicida. Inoltre, il mio materassino è bucato e miritrovo puntualmente a dover rigonfiare i soliti 3 tubi nel bel mezzo dellanotte.

Dormo pochissimo e verso le 4 del mattino, nel dormiveglia, mi sembrache la capanna si stia ripopolando: è ancora buio, ma c’ètrambusto, sento voci di donne e uomini, bambini che piangono. Vengono accesialtri fuochi e il vociare si fa sempre più intenso.

Quando usciamo dalle tende, circa tre ore più tardi, la capannaè affollata: gli uomini sono completamente nudi se non fosse perun cerchio di liane attorno alla vita ed una foglia arrotolata sul pene,le donne portano un gonnellino di liane sui fianchi ed hanno braccia e seniricamati da bruciature che loro stesse si praticano con tizzoni ardenti(simili alla scarificazione che le donne Karo praticano in Etiopia usandole lamette). Molte di loro sono incinta. Noto che le donne hanno occupatoun settore ben delimitato e buio della capanna e rimangono sempre tuttein gruppo, insieme ai bambini. Sono molto timide ed evitano di incontrarei nostri sguardi, anche se ci osservano di nascosto.

 

In totale, restiamo a Daio due giorni durante i quali ci verràmostrato come ottenere il sego dal tronco delle palme, come pescare senzaamo e reti, come costruire le case sugli alberi. Il sego – alimento principaledi queste etnie – è una specie di farina ottenuta sminuzzando e poifiltrando la polpa del tronco della palma: vi si cuoce una specie di panegommoso, si possono fare delle zuppe e altri intingoli gelatinosi. Eccezionefatta per l’abbattimento della palma, la cerimonia del sego è completamentea carico delle donne e dura quasi tutto il giorno. Mentre alcune sminuzzanola polpa con le asce di pietra e legno, altre preparano i canali di filtrazioneusando la corteccia della palma. Segue poi l’impasto della farina e la formazionedi “pani” che vengono lasciati a riposare prima di essere cotti.

La pesca, rudimentale, è possibile solamente dove l’acqua èquasi stagna: si costruiscono due piccole dighe con rami e foglie ad unadistanza di circa 3-4 metri l’una dall’altra e poi si usa la corteccia ricurvadei tronchi per vuotare la pozza. L’operazione dura parecchio tempo e costanon poca fatica, ma alla fine affiorano dalla melma pescetti e gamberi difiume.

Per cacciare, gli uomini dispongono di frecce di legno con forma diversaa seconda dell’animale cacciato. Le più appuntite sono per gli uccellie i roditori (cus-cus); altre hanno una testa più piatta e largae vengono usate per i pesci e le lucertole. Alcune frecce usate per la cacciaall’uomo hanno la punta di metallo e sono considerate preziosissime: èpossibile procurarsele solamente recandosi presso i mercati che distanogiorni di cammino.

Acquistiamo da loro set di archi e frecce per l’esorbitante cifra di10.000 rupie (l’equivalente di Lit. 6.000): cercano anche di vendere o barattarecollane di cuoio ornate da piccole conchiglie bianche (stranamente sonole stesse conchiglie usate come ornamento dalle donne Karo in Etiopia. Inorigine, le conchiglie avevano la stessa funzione delle monete, ma l’arrivodel denaro vero e proprio le aveva fatte retrocedere ad uso puramente ornamentale).

 

La seconda notte passata a Daio è stata per me sicuramente lapeggiore di tutto il viaggio. Durante la cerimonia del sego assaggio ilcuore della palma e mangio del sego cotto. Inizialmente mi sembra buono(anche perché il cibo è carente), ma col passare delle oremi rendo conto di avere commesso un grosso errore. Alle sette non riescopiù a stare i piedi e avverto una nausea crescente: mi corico intenda, seguita da Giovanni con la sua solita febbre. Quel che segue èun crescendo di febbri (io arrivo a 38, Giovanni è a quota 40), nausee,coliche renali. Mentre Giovanni vaneggia, io passo da stati febbricitantia condizioni di temperatura corporea sotto-zero, alterno corse fuori dallatenda nel buio più completo, fra rovi e tronchi, a mezzi svenimentie mi sistemo in posizioni contorte che, in qualche modo, possono lenirmiil dolore ai reni. Come se non bastasse, mi si sgonfiano i tre tubi delmaterassino, che così rimangono sino al mattino seguente.

Alla fine, Giovanni mi dà una pasticca di plasil e, rannicchiandomisu me stessa, riesco (o forse è solo un’impressione) a rendere piùsopportabili le fitte che, a intermittenza, mi spaccano il basso ventree i reni: dopo circa 3-4 ore il dolore inizia ad affievolirsi e, la mattina,è scomparso. Giovanni (il mio compagno di quella notte sventurata)sta meglio, la febbre si è abbassata, ma non scomparsa del tutto.

 

Ora, ripensando a quella notte ridiamo di frasi dette o di cose fattefra un attacco di vomito, diarrea e febbre a 40, in condizioni fisiche daricovero ospedaliero d’urgenza, mentre si cercava di rincuorare e assisteresia il compagno sia sé stessi. Non potevamo comunque fare altro,chiusi in quella tenda lazzaretto a tratti soffocante, a tratti freddissima(a seconda della variazioni della nostra temperatura): potevamo solo aspettare,sperare di rimetterci, far finta di non essere lì.

 

Il mattino dopo partiamo da Daio di buon’ora e camminiamo per altre 4ore circa, continuando il tragitto ad anello che ci avrebbe riportato aYaniruma il giorno seguente. Verso mezzogiorno raggiungiamo un altro nucleodi rumah tingi e facciamo tappa all’interno di una grande long house pocodistante, dove troviamo alcune donne con i loro bambini, mentre gli uominisono fuori a caccia. Inizialmente, l’intenzione era quella di pernottarelì per riposare un po’ (avremmo montato le tende all’interno dellalong house) e raggiungere Yaniruma con comodo il giorno seguente. Tuttavia,la totale mancanza di acqua buona e la prospettiva di dover bere nuovamentel’acqua fangosa delle pozze, unita alla presenze di nugoli di mosche e zanzaree al caldo insopportabile, ci fa’ considerare la possibilità di proseguiredirettamente sino a Yaniruma. Alla fine, consci del fatto che avremmo dovutocamminare a passo sostenuto nelle ore più calde del giorno (ondearrivare prima del tramonto), senza poter bere o fermarci, io, Heidi, Giovannie Stefano optiamo per Yaniruma mentre gli altri preferiscono fermarsi sulposto per la notte. Dopo molte contrattazioni e promesse che avremmo pagatoloro anche il giorno in meno di lavoro rispetto agli altri, riusciamo apartire con 3 portatori e una guida, un signore barbuto e distinto che,in seguito, passerà alla storia come “il Mago di Oz”.

 

Quando lasciamo gli altri sono circa le 2 del pomeriggio: camminiamoper circa 3-4 ore, concedendoci piccole soste per riprendere fiato. Si parlapoco e si procede veloci con lo sguardo sempre rivolto verso terra, perscansare i rami spinosi e le liane finissime che troppe volte ci hanno fattocadere. Ad un certo punto sentiamo dapprima un fruscio, poi uno sbatterd’ali e vediamo con la coda dell’occhio due grandi uccelli prendere il volopoco lontano da noi: la coda, lunghissima, ed il piumaggio, sono color blucobalto e brillano, riflettendo i raggi del sole che filtrano fra gli alberi.Abbiamo incontrato gli Uccelli del Paradiso.

Poco a poco, mentre il sole inizia a spegnersi ed i colori si fanno piùcaldi, la foresta si apre e si dirada, lasciando spazio ad un sentiero chesi snoda in mezzo ad un labirinto di erbe altissime che preclude qualsiasivista.

Noi siamo stanchissimi, affamati, senza alcunché da bere. Ci chiediamose la promessa fattaci dalla nostra guida (quel signore con la barba chesin dall’inizio non aveva mai portato zaini o altri pesi e che, per portamentoe modo di comportarsi, pareva appartenere ad una “casta” superiore)di procurarci da mangiare sarebbe mai stata mantenuta. Giovanni èscettico, io spero solo in un po’ di riso bollito, Heidi e Stefano non sipronunciano.

Ad un certo punto, il labirinto di erbe finisce e ci ritroviamo inaspettatamentedavanti quella che per noi, in quel momento, è paragonabile ad unavisione: siamo sbucati sulla sponda del fiume di Yaniruma, quel fiume che,con acqua corrente pulita, Paul ci aveva indicato come posto ideale perfare il bagno e che Frangkie non aveva raggiunto quando era stato mandatoin canoa con il suo aiutante in avanscoperta (probabilmente sarebbe bastato”voltare l’angolo”, ma lui aveva preferito rinunciare). In quelpunto il fiume forma una piccola ansa e, per via dell’acqua bassa, si eracreata una spiaggetta.

 

Non abbiamo più fretta: Yaniruma è vicina e possiamo fermarciper un rapido “lavaggio”. “Mereka mandi di sunghai”(“fate il bagno nel fiume”), ci dicono i nostri portatori sedendosia riposare poco lontano. Sulla spiaggetta troviamo anche un gruppo di francesiin costume da bagno (!!), arrivati da poco a Yaniruma e bloccati lìin attesa di un aereo. “Che disastro” ci dicono “a Yanirumanon si trova niente, né da mangiare, né da bere”.

Ma loro non sapevano del cinese…….

 

Non crediamo ai nostri occhi: l’acqua è abbondante, pulita, c’èpersino una piccola rapida che ne garantisce la bontà. L’aria frescae una inaspettata abbondanza di acqua finalmente limpida fanno salire ilmorale alle stelle: ci laviamo, godendo del piacere di ogni goccia d’acquache scorre sulla pelle, e pensiamo agli altri, rimasti in quella luridacapanna piena di mosche solo perché non avevano voglia di camminare.Lavo la bandana e ricordo che continuavo ad annusarla perché profumavadi sapone, profumava di pulito.

Dopo circa mezz’ora, la nostra guida ci fa’ capire che bisogna proseguireprima che il sole cali completamente e le zanzare ci assalgano. Raccogliamotutto in fretta, ripromettendoci di tornar lì il giorno dopo, attraversiamoil fiume, proseguiamo per un tratto in un canale in secca, riattraversiamoun canale melmoso (il braccio di fiume dove noi avevamo fatto il bagno qualchegiorno prima!) e ci immettiamo nel sentiero (quello di Paul!) che ci avrebbeportati a Yaniruma dopo circa un’altra mezz’ora di cammino.

L’unica incognita, a questo punto, era il cibo.

 

 

IL MAGO DI OZ

Seguiamo il signore barbuto sin di fronte a casa sua, una bella casettadi legno circondata da un prato ben curato. Di fronte, dall’altra partedella stradina di sabbia, c’è la chiesa protestante, bella, grandee ben tenuta.

Purtroppo abbiamo subito constatato che il nostro amico cinese ci haabbandonati e, mentre montiamo le tende a lato della casa, persiste in noiil dubbio amletico circa la possibilità di ottenere qualcosa da mangiare.Io sono ottimista, mi sembra di aver sentito la nostra guida pronunciarela parola “Sprite”, ma non vengo creduta nel modo più assoluto,in particolare da Giovanni (uomo di poca fede): non so perché, maho comunque la sensazione che il Mago non ci deluderà. Infatti, mentresiamo ancora intenti a piantar picchetti, lo vediamo comparire con dellelattine di Sprite, tenute sotto chiave nel ripostiglio dietro casa. In tutto,riusciamo ad avere 3 lattine a testa, ad un prezzo di circa 3000 lire l’unasul quale nessuno di noi cerca di contrattare.

Finito di montare le tende, sistemato zaini e sacchi a pelo, non ci restaaltro che sederci ad aspettare mentre si continua la disquisizione sul “cidarà qualcosa da mangiare?”.

Aspettiamo più o meno una trentina di minuti, seduti a godercil’aria fresca e ancora godendo dei postumi del bagno. Poi, il nostro ospitefa’ capolino dalla porta di casa e ci fa’ cenno di entrare: mi scappa un”te l’avevo detto io” rivolto a Giovanni.

Saliamo in fretta i gradini di legno ed entriamo: non c’è elettricitàe quindi l’unica luce è quella della candela sistemata nel mezzoalla stanza, completamente vuota se non fosse per un tavolinetto di legnoed alcune fotografie ed un calendario appesi alla pareti. Attorno alla candelasono sistemati quattro recipienti per vivande, quattro bicchieri ed unabrocca. Ci sediamo e scopriamo i piatti, uno ad uno, piano piano, quasicome fanno i bambini quando rubano i biscotti e temono di essere sgridatidalla mamma: ed ecco che compaiono una montagna di riso bollito, noodles,patatine fritte cinesi, e….. quattro grandi gamberi di fiume.

Non sappiamo cosa dire, siamo letteralmente stupefatti: li contiamo,li ricontiamo, uno, due, tre, quattro, il che vuol veramente dire che abbiamodiritto ad un intero gambero a testa. Finalmente, dopo giorni di digiunoquasi totale vedo Giovanni mangiare nuovamente, senza fare lo schizzinoso,senza sbocconcellare facendo mille smorfie: è tutto delizioso e persinoil riso sembra avere un altro sapore.

Le sorprese, però, non sono ancora finite perché la mogliedel nostro padrone di casa ci porge timidamente una confezione di lattein polvere, caffè, zucchero, bustine di thè ed una teieradi metallo, piena di acqua: quando versiamo l’acqua ancora calda nei bicchierici accorgiamo che, guardandola in controluce, è trasparente.

Non pare vero: l’acqua è veramente trasparente, pulita, buona.Non ha gusto di fango, non è marrone, non puzza. E’ acqua, banalissimaacqua che ora, in quella casetta di legno, a Yaniruma, in un paese chiamatoIrian Jaya, mi sembra un tesoro. Anche se è calda la bevo con avidità,non voglio thè, caffè, latte. Voglio solo l’acqua, voglioassaporarne il gusto, sentirne l’odore, guardarla mentre viene versata neibicchieri: metto il bicchiere di fronte alla candela, sul pavimento, e michino a guardarlo più volte. Vedo la luce della candela brillareattraverso l’acqua e mi sembra la cosa più bella del mondo. Mi riempioil bicchiere, bevo, ribevo quell’acqua calda sino a quando nel mio stomaco”si sentono le rane” e penso che non la cambierei con null’altroal mondo. Sono forse diventata pazza?

 

La cena termina in fretta, l’acqua e il cibo rimasti vengono accuratamentemessi da parte per il giorno dopo. Aiutiamo per quanto possibile la mogliedel nostro ospite a rimettere a posto ed usciamo sul prato, fuori casa.

L’aria è fresca, c’è luna piena, il silenzio è completo.

Ci sediamo vicino alle tende e non possiamo non ridere pensando aglialtri, a dove erano rimasti, a cosa avrebbero mangiato e bevuto quella sera.Pensiamo all’assurdo della situazione, alla disperazione prima e all’euforiapoi, pensiamo a quanto stiamo bene lì, in quel momento, con quellepersone.

Il Mago di Oz si siede vicino a noi, subito raggiunto dalla sua figliaminore e, nel corso della conversazione che segue – fatta più chealtro di gesti e qualche parola di indonesiano che ho imparato strada facendo- scopriamo chi veramente lui sia, vale a dire il personaggio piùillustre, ricco ed influente di Yaniruma. Sua è infatti la casa pressola quale avevamo pernottato il giorno del nostre arrivo in paese, cosìcome sua è la casa dove erano stati ospitati Ivan e il suo gruppo.Sua è anche la casa dove noi ora ci troviamo.

Oltre ad essere “proprietario terriero”, egli è inoltreil responsabile aeroportuale di Yaniruma e gestisce il traffico aereo inarrivo e in partenza: è anche forse l’unico ad avere abbastanza denaroda poter far arrivare da Wamena i viveri tanto amati dai turisti (incluseCoca-Cole, Sprite, zucchero, thè, latte in polvere), ai quali lifa pagare senza problemi 4 volte tanto.

Il nostro padrone di casa ha 3 figli di cui uno è a scuola (forsea Timika, ma ora non ricordo) e torna a Yaniruma di tanto in tanto, naturalmentein aereo. Avremmo comunque incontrato il figlio del Mago di Oz due giornidopo, vestito di tutto punto all’occidentale e sbarcato dal Cessna che ciera venuto a prendere (accidenti, come si distingueva da quella massa dibimbi vestiti più o meno di stracci, polverosi e scarmigliati chelo guardavano essi stessi incuriositi!).

Quella sera, la conversazione e il clima sono così piacevoli cheandiamo a dormire quando l’umidità ha già inzuppato il teloesterno delle tende (mai avevamo fatto così tardi!).

Il giorno dopo ci accorgiamo che sui pantaloni di Giovanni sono cresciutidei fiorellini e la maglietta bianca di Stefano è decorata da muffaverdina.

 

Il Mago di Oz merita, insieme a Frangkie, un posto d’onore nella nostramemoria. Per noi era stato una vera rivelazione: intelligente, colto, affabileoltre che affidabile, rispettato e riverito da tutti, con molta voglia disapere, comunicare, conoscere. Yaniruma era il suo piccolo regno e lui negestiva la vita e le attività con discrezione, chiaramente non senzail proprio tornaconto.

 

Il resto del gruppo arriva al fiume il giorno dopo in tarda mattinatae noi siamo lì ad aspettarli, accompagnati dai portatori che ci avevanoseguiti di soppiatto temendo una nostra fuga senza averli prima pagati.La giornata è dedicato ai bagni, al riposo e al cibo. Io cerco riparodal sole cocente e mi allontano dal resto del gruppo, arrampicandomi suuna collinetta di sabbia che confina con la foresta.

Da lontano osservo i miei compagni di viaggio, i portatori, Frangkieche può finalmente lavarsi i denti ed insaponarsi dalla testa aipiedi: arriva persino un ragazzino che porta zucchero e lattine di sprite,probabilmente mandato lì dal Mago di Oz. Alcuni ragazzi del postostanno pescando nel tratto di fiume vicino a me, senza molto successo. Vocidi gente che ride, il crepitio del fuoco, lo scorrere dell’acqua……

Mi tornano alla mente gli Yali della Valle del Baliem, persone in un”mondo fuori dal mondo”, e i Kombai/Korowai, con le loro rumahtingi, i loro idoli, i loro mostri. Penso a Oyemu e alla notte passata ascoltandole nenie funebri per il bimbo morto di malaria. Penso che siamo alla fine,e un velo di tristezza mi avvolge.

 

TORNIAMO VERSO CASA

Il viaggio è quasi finito, anche se rimane l’incognita di cosasuccederà una volta arrivati a Wamena: le poche prenotazioni aereeche avevamo sono infatti completamente saltate (eccezione fatta per il collegamentoBali-Roma) a causa delle continue variazioni di itinerario e non sappiamose e quando riusciremo ad arrivare a Jayapura. Sia come sia, da Yanirumanon si può far altro se non confidare nella buona stella che ci avevaassistito durante tutto il viaggio.

 

Il giorno dopo il primo Cessna arriva verso le 8,30 e carica Frangkie,Alfredo, Federica, Gianni e Simonetta. Il secondo aereo arriva, con nostrosommo sollievo alle 11 e recupera me, Giovanni, Heidi e Stefano: sino all’ultimo,noi rimasti avevamo temuto che il forte vento avrebbe impedito l’atterraggiodel piccolo aereo.

 

IL BARONE ROSSO

Questa volta mi siedo vicino al pilota e lui mi passa le cuffie per potercomunicare con me in volo. E’ un tipo simpatico, americano, ha circa quarant’annie lavora in Indonesia da più o meno 20. Abita a Jayapura, ma ammetteche la vita lì è dura. Unica sua consolazione è ilfatto di poter tornare a casa, in America, una volta l’anno.

 

Sorvoliamo alcune fra le rumah tingi più alte: sembrano sparatein aria a bucare quel verdissimo mare sottostante che, dopo tanti giorni,lasciamo probabilmente per sempre.

Risaliamo verso nord, volando a vista in mezzo ai canaloni, sfiorandole montagne e scansando le nuvole; passiamo a volo quasi radente su unacapanna in cima ad una montagna ed il nostro Barone ci spiega che quellaè la casa di uno stregone e che le donne non vi hanno accesso. Cidice che, di tanto in tanto, sorvolando il territorio in questo modo, ipiloti scoprono villaggi sino a quel momento sconosciuti; vi sono tribùpigmee che vivono sugli altipiani a 5000 metri, ma nessuno è ancorariuscito a raggiungerli. Praticamente non conoscono (per loro fortuna) l’uomobianco.

Gli chiedo se è vero che in Irian Jaya il cannibalismo èancora effettivamente praticato a dispetto del divieto imposto dal governoindonesiano: lui si volta verso di me e, serio, mi dice “they stilldo it”, lo fanno ancora.

Ad un certo punto, ci chiede se vogliamo provare la sensazione dell’aereoche precipita: rispondo che apprezziamo e lo ringraziamo per l’offerta,ma preferiamo continuare a volare secondo i “metodi tradizionali”.Non contento, dopo qualche minuto mi chiede se voglio pilotare l’aereo:io penso di non aver capito bene. Mi esce un “Sorry?” e la domandami viene ripetuta, questa volta molto chiaramente: “Would you liketo fly it?”. Mi volto verso gli altri, chiedo la loro approvazionee, più che altro, la loro fiducia. Volenti o nolenti fanno buon visoa cattivo gioco ed io mi ritrovo con la cloche in mano, anche perchéil Barone Rosso ha nel frattempo abbandonato i comandi.

Volo a vista e il mio maestro mi spiega come usare la bussola per puntaredritto su Wamena: provo a far scendere e risalire leggermente l’aereo, viroa destra e sinistra (Ehi! Si sposta veramente!). E’ fantastico, un volospeciale a coronamento di un viaggio speciale.

Quando arriviamo in vista di Wamena il mio amico riprende i comandi edatterriamo scossi dalle correnti d’aria che vanno e vengono dalla valledel Baliem. Salutiamo il Barone rapidamente, gli auguriamo buona fortunae raggiungiamo rapidamenti gli altri.

 

A Wamena ci aspetta una brutta sorpresa: sembra infatti che non ci sianopiù aerei disponibili che tornano a Jayapura, eccezione fatta peruno scassone dove, però, i turisti non sono ammessi. Ci viene dettoche la prima prenotazione libera è da lì a quindici giorni.

Torniamo a far base all’hotel di John Wolof in attesa di notizie piùattendibili (che impresa!): compriamo pane, biscotti e Coca-Cola, ne approfittiamoper fare un piccolo bucato, io torno a lavarmi il viso e specchiarmi nellostesso specchietto di due settimane prima. Attorno a noi si va intanto raccogliendouna folla di pseudo-guide, pseudo-proprietari di aerei, pseudo-amici delcuore delle varie linee aeree, tutti con l’intento di spillare denaro achi (nella fattispecie noi) ne aveva al momento proprio poco.

Dopo varie conferme, smentite, telefonate incomprensibili, turbini diparole e speranze vane, mentre sono nell’ufficio della Trigana Airways miviene detto che l’unica possibilità di lasciare Wamena è difarci imbarcare, previo accordo del pilota, su un cargo previsto in partenzal’indomani mattina e diretto a Jayapura. Non era possibile imbarcarci sulcargo previsto per quella sera stessa in quanto il carico era costituitoda fusti di carburante.

Il resto è confusione più completa: siamo costantementeseguiti da una piccola folla di persone, gente mai vista che conferma (nonsi sa come) la nostra imminente partenza, altri che quasi promettono jeta propulsione, fanno telefonate fantasma a loro amici proprietari di agenzie;ci vengono proposti trekking, astucci penici, maschere, coltellini taglia-dita,birra, arco e frecce (in caso di nostra permanenza forzata a Wamena) e chipiù ne ha più ne metta. Tutti parlano e gesticolano, nessunoascolta. Alla fine, forse per togliersi di dosso il nugolo di venditoriche l’aveva addocchiato sin dall’inizio, o forse perchè letteralmentestordito da quella pressante insistenza, Gianni compra un’orribile collanadi denti di cinghiale coronata da piume di uccello casuario, roba che, secondome, nemmeno la moglie del Dani venditore avrebbe accettato come regalo.

Comunque sia, visto che la perseveranza è la virtù deiforti, riusciamo finalmente a trovare il pilota del cargo il quale ci prometteche avrebbe contattato l’ufficio Trigana a Jayapura per avere l’autorizzazionead imbarcare altri passeggeri, poter aggiungere i sedili mancanti e farsidare una hostess (come da regolamento). La sua è chiaramente solouna promessa, ma, paragonata alla baraonda precedente, ci sembra giàuna certezza.

Lasciamo l’hotel di John Wolof e Frangkie ci accompagna in un altro hotelpiù piccolo, più centrale. Lì ci aspettano alcuni deiragazzi che ci avevano accompagnati durante il trekking nella Valle delBaliem: ci sono Milus (fratello di Frangkie e cuoco formidabile), Saul,Alfonse (il mio secondo angelo custode). Purtroppo non ci sono Latius, perchévive in un villaggio fuori Wamena e Ies il pazzo, fuori per un altro trekking.

 

Una volta sistemate le nostre cose usciamo per un ultimo giro a Wamena.

Quel paesino incastonato fra montagne imponenti, con l’unico tratto distrada asfaltata di tutta la Valle, punto di fusione fra mondo moderno eantico, aveva rappresentato per noi il punto di riferimento principale,in alcuni casi la salvezza. Wamena, con i suoi negozietti, le scuole, imercatini multicolori.

Camminando tranquillamente per strada, osservo le grandi montagne attornoa me, il cielo, le nuvole che si tingono di rosa, azzurro e arancione: ripensoagli Yali, a quando anche noi eravamo lì, ripenso alla fatica, alfango, al freddo che ti mangia le ossa, alla fame. E mi rendo conto che,nonostante tutto, avrei ripreso lo zaino e sarei ripartita…..

 

Il giorno dopo la Trigana tiene fede agli impegni e ci porta a Jayapura,da dove proseguiamo verso Biak, Ujung Pandang ed infine Bali.

L’arrivo a Denpasar è scioccante e non fa che aumentare il miocrescente “umore nero”: caos, traffico, musica assordante, puzzadi gas di scarico di motorini e automobili, torme di turisti, prostitutein ogni angolo, venditori di erba, soldatacci americani mezzi ubriachi fannobella mostra di tanti muscoli e poco cervello. Come se non bastasse, laGaruda perde il mio bagaglio e quello di Giovanni cosicché anchela speranza di potersi fare una doccia e mettere una maglietta pulita siperde nel caos.

In attesa di recuperare gli zaini finiti a Djakarta, il giorno dopo ioe Giovanni decidiamo d’andare a Ubud, paesino famoso per i suoi pittori.Il turismo di massa è arrivato anche lì, ma in forma ridottarispetto a Denpasar e l’atmosfera è comunque più sopportabile.Cerco e ritrovo lo studio di pittura del maestro che mi aveva venduto ilprimo batik, nel 1994, e gli compriamo altre due tele. Lui è sempreuguale, sempre gentile, distinto. Ci offre da bere, si raccomanda di tornarea trovarlo la prossima volta.

Torniamo a Denpasar nel primo pomeriggio, ritiriamo gli zaini, ci cambiamo(finalmente) e, prima di tornare in aeroporto, andiamo a mangiare una pizzain un localino frequentato quasi unicamente da marines. Al bancone ci sonoun paio di soldati intenti a dilettarsi con le solite ragazzine in minigonna;altri occupano il tavolo vicino al nostro.

Mentre mi siedo, noto appese alle pareti del locale le gabbiette di bambooe i pappagallini prigionieri, costretti a sopportare i rumori, le luci colorate,il fumo delle sigarette, l’aria viziata. Provo tristezza per loro, e disgustoper quel mondo sporco che ho dinanzi.

 

22 AGOSTO 1997

Sono sul Boeing della Garuda che mi riporta in Italia e rivedo mentalmentei giorni passati: probabilmente non tornerò mai più in IrianJaya, ma porto con me una tale quantità di ricordi, sensazioni, emozioniche non potrò mai dimenticarla.

La Foresta Buona e la Foresta Cattiva, Frangkie ed i ragazzi di Wamena,Capitan Uncino, il Mago di Oz, il Barone Rosso, il guerriero Yali che spostòil mio guanto dal fuoco: luoghi e personaggi fantastici di una favola incui noi avevamo vissuto per quasi un mese, nel bene e nel male.

 

Irian Jaya: sei luna piena, cielo stellato, oceano verde e montagne impervie, grandi fiumi e cascate spumeggianti; sei euforia, eccitazione, canti, danze, discorsi incomprensibili.

Irian Jaya: sei l’Imprevedibile; sei freddo, fame, sete, malaria, morte, sconforto.

Irian Jaya: sei terra di magia, sei terra di cannibali.

 

Irian Jaya, tu rimarrai per sempre nel mio cuore e nellamia mente per il turbinio di sensazioni, emozioni, scariche di adrenalinae, sicuramente, anche per tutta la fatica che mi hai fatto fare.

 

Paola Datta

Novembre 1997

 

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