By Massi+
Originally Posted Wednesday, August 4, 2004
In giro per la Tunisia senza precisa meta
Protagonisti: Massi+ (io), Tiziano Pibernik (amico pluridecennale nonché orientista nato),
birillo (pajero turbodiesel del 1986 con supergiù 300.000km)
Giorno 1
Siamo di nuovo su una nave, stesse persone, stessa macchina, stessi timori di sempre.
Padre e figlio.
Avevo deciso per prima cosa di fare tappa al desert club, Tiziano non lo riteneva fondamentale, io ero quasi certo di trovarvi qualcuno orientato a fare la nostra medesima strada.
Li incontriamo sulla strada per il campeggio, padre, figlio e un 110 verdone metallizzato che il mio povero birillo sicuramente invidiava per la vernice ancora scintillante.
Ceniamo assieme e al momento della grappa mi accorgo di aver cambiato itinerario e tempistica pur di fare qualche giro assieme a questi due.
Milanesi entrambe. Uno, a tratti padre a tratti paracadutista, genitore di un figlio, l’altro, più introspettivo che paracadutista.
Li arruoliamo.
Douz-ksar e altre amenità.
Il giro, nato coll’intenzione di sperimentare le potenzialità del gps interfacciato al PC palmare con le foto landsat, resterà negli annali probabilmente come il più inconcludente della mia vita. Partiamo da ksar coll’intenzione di individuare quella pista che corre alle spalle del cafè tarzan in direzione bir soltane e verificare se è possibile ricollegarsi ad alcuni wp che avevo del tratto douz-ksar. Usciamo dall’asfalto dopo circa 25 km in direzione Matmata, una traccia corre ortogonale per alcuni km poi si perde, navighiamo direttamente su un wp ma per la nostra modesta esperienza, le dunette corte e la sabbia calda sono tutt’altro che agevoli da superare. Dopo alcune piantate tentiamo di aggirare più a est ma i risultati non sono incoraggianti. Ritorniamo sui nostri passi. Tentiamo l’approccio tradizionale e in un tempo enorme giungiamo in serata a ksarghilane. Mi resterà il dubbio di quella variante pensata a tavolino per andare da “piatto” a “mio1”.
Chi sembra non nutrire dubbi sulla strada da percorrere sono gli innumerevoli toy che sfrecciano su e giù per l’oasi trasportando,al pari delle taniche, orde di turisti che in 2 giorni vogliono far quadrare la cammellata delle 18.38 con lo spettacolino finto-berbero delle 21.00.
La nuova tappa viene improvvisata a ksar. Casualmente, ma non troppo, ho portato con me alcuni punti, per un giro alternativo alla solita pista per Chenini, forniti dal mio concittadino Claudio (ti devo sempre un aperitivo).
Dall’incrocio pipe – pista per Chenini, dopo un paio di km prendiamo una pista verso nord, abbiamo una serie di punti alti, oltre un oued ben visibile sulla landsat. Dopo pochi km la pista sembra andare per conto suo e noi incominciamo un estenuante ma divertente fuoripista. I primi 2 wp sono piazzati all’incirca nel nulla e fatico non poco a convincere i miei compagni di viaggio che in tutto questo c’è un perchè . Passiamo la giornata fra brandelli di pista e pietraie ma la serata trascorsa in un oasi abbandonata ripaga di tutto. Io baro clamorosamente sulla preparazione del pane, oltre alla farina mi sono portato della fecola di patate…
Con calma il giorno dopo lo passiamo fra Chenini, Guermassa e paesi limitrofi con relative visite sfidando temperature impossibili.
A tatouine ci dividiamo dai nostri amici milanesi landroverdotati, le loro ferie stanno per esaurirsi. A noi resta da scontrarsi con gli orari del syndacat d’initiative turistique che da due giorni non apre. Sulla porta un laconico messaggio invita a chiamare un numero di cellulare.
Scopriamo che proprio all’hotel dove alloggiamo lavora un ragazzo che pare lavori all’ufficio. Combinazione è in festa. In compenso possiamo godere dei consigli di Robogabraoun, che pure lui alloggia con alcuni amici nel medesimo hotel. Ci sconsiglia di scendere a sud per via del caldo e ci propone una gitarella a timbain.. Lui da un paio di giorni li tentava un passaggio fra le dune che a quantopare proprio non gli riusciva.. Inoltre ci raffredda molto sulla possibilità di ottenere i permessi con un solo veicolo.
La sorpresa invece giunge l’indomani, dopo una notte passata fantasticando un mistico passaggio senza guida ksar-timbain-douz. L’ufficio ha riaperto e una gentile signorina accoglie la nostra domanda. Dopo alcune ore il personaggio che stava all’altro capo del fantomatico cellulare ci consegna le fatidiche 10 copie in cambio della nostra rinuncia alla guida.
Riempiamo qualche tanica di nafta e altre d’acqua e partiamo con direzione Elborma. La pista fino a borjibourghiba è semplice ma il fondo di pietrisco è talmente noioso da farmi auspicare passaggi più sabbiosi.
Da borjibourghiba si dipartono diverse tracce, la più a destra è migliore le altre si interpretano con fantasia. Partiamo con la migliore ma ci rendiamo conto che punta troppo a nord così ripieghiamo su quella più meridionale, abbiamo un wp piuttosto lontano e il serpenteggiare della pista poco influisce sulla direzione generale. Dopo aver attraversato una depressione le tracce si fanno più incerte e cerchiamo di correggere con dei “fuoripista”…ma siamo già fuoripista, infatti le tracce che seguiamo ci porteranno ad un accampamento di pastori, da li intraprenderemo una variante detta dell’asino morto per via di un triste ritrovamento. Mentre, durante un tratto di navigazione “strumentale”, penso che il ritrovamento del pastore non mi avrebbe rattristato tanto, riguadagnamo una pista sensata che ci condurrà sulla pipe-line.
Il caldo non è terribile e la scarsa umidità permette un buon scambio igrometrico della pelle. Una bottiglia da unlitroemezzo caricata a isostad vola in un secondo, mentre la presa di coscienza di trovarsi in un panorama poco entusiasmante e senza la piacevole compagnia dei due milanesi landroverdotati, ci convince a ritornare verso nord approfittando della veloce pipe.
In realtà per lunghi tratti la pipe a sud è migliore che a nord, ma abbondano i tratti insabbiati e talvolta ampi tratti sono stati abbandonati a favore di passaggi più a ovest. Presi dalla noia decidiamo pure di riconquistare uno di questi ultimi, ma l’insabbiata è subito in agguato.
Alla stazione di kamour, i militari della copia dei permessi manco sanno che farsene, su mio suggerimento annotano i dati relativi a passaporti e veicolo, quindi usciamo dalla tanto agognata “zone enterdite”, consci di aver sprecato una opportunità ma anche, per la prima volta, del fatto che con una piacevole compagnia le cose si fanno più volentieri.
Da qui una serie di fantafuoripista ci portano a bir ain sebat dove è sorta, ad opera di Abdul e dei suoi amici, un oasi – campeggio molto più vivibile di ksarghilane.
Ain sebat
Esco dal campeggio che questa volta non sembra rappresentare un oasi nell’oasi come a ksarghilane.
Qui lo spazio aperto entra direttamente nella mia aircamping, la’ l’agglomerato turistico non permette più di percepire la vera forza di quanto stia accadendo al di fuori. Al pari di quanto il palmiage ben sistemato riesce a fare con l’avanzare della sabbia, gli operatori turistici sembrano voler fare con la realtà, creando all’interno dell’oasi una finta oasi cinematografica e le belle dune dietro alla pozza sono un fondalino.
Qui le dune vere e proprie non ci sono, è tutto piatto, mi allontano lentamente mentre gli occhi si abituano alla luminosità lunare. Ora riesco a distinguere bene dove metto i piedi, c’è un vecchio copertone, leggo anche che li fanno nella “repubblica popolare cinese”: è cotto dal sole, lo schiaccio e sembra non avere neanche le tele. Mi guardo attorno e sono felice.
Ain sebat – Douz e altre amenità.
Da Ain Sebat a KsarGhilane procediamo liberamente alla ricerca della pista per il nuovo pozzo petrolifero che, disgraziatamente, dovrebbe sorgere vicino al fortino.
Da ksarghilane, durante il secondo giorno consecutivo di vento (ma perchè non siamo rimasti alla pozza?) decidiamo di tornare a Douz. Ma il vento è piuttosto forte, cancella le nostre tracce mentre passiamo e non siamo sicuri di fare i passaggi migliori, puntiamo su alcuni wp ma siamo costretti a risalire due lingue di sabbia piuttosto alte dalla parte sfavorevole, durante un altro passaggio non proprio azzeccato inizia una serie di insabbiamenti, il vento non aiuta, tentiamo di ripiegare verso nord ma in pratica stiamo tentando quello che 15 giorni fa non ci era riuscito in condizioni migliori. Imbocchiamo una lunga traccia che sembra portare in direzione dell’asfalto Douz-Matmata, all’asfalto crediamo, forse erroneamente, manchino forse una quindicina di km in linea d’aria ma la traccia si stringe e dopo una lunga escursione ripieghiamo verso la pipe che raggiungiamo. La validità della strumentazione alla quale affidiamo la nostra direzione manifesta qui tutte le sue potenzialità.
Douz
Ci dirigiamo in direzione di un gran vociare ma le speranze di poter assistere ad un matrimonio berbero, almeno sul finire, si assomigliano mano a mano che ci si addentra nell’abitato, l’organizzazione spontanea di questo, infatti, ci fa giungere sul luogo giusto in tempo per veder andare via lo sposo sul suo destriero e gli invitati, ovviamente meno baldanzosi visti i bagordi.
La nostra vera direzione è però il ristorante dove consumeremo un cous-cous e qualche costina grigliata osservando il concludersi della giornata lavorativa per i negozianti della zona e tentando di riconoscere la marca degli innumerevoli ciclomotori.
Cartagine, Bulla Regia, Dougga, Utica
Quattro città nel nord della tunisia, un occasione per rivivere alcuni momenti storici.
Nel sec.XI a.c Tiro, con Sidone (dalla quale la fenicia traeva il nome di Sidonia) è la più importante città fenicia e si trova in Libano, la sua notorietà è certa, a Roma la si ricorda da sempre per le stoffe: “bis adhuc octonis integer annis, indutus chlamydem Tyriam, quam limbus obbat aureus” ([…] nel fiore dei suoi 16 anni […]indossava un mantello di Tiro tutto orlato di una banda d’oro[…] .
Nel 1101a.c, secondo plinio il vecchio, Utica era una colonia dei fenici provenienti da tiro.
Nell’ 814, molto tempo dopo, Cartagine venne fondata dai fenici provenienti da Tiro. Sviluppò subito un forte potere accentrante sulle altre colonie fenicie locali promettendo protezione in cambio della sottomissione. Secondo la tradizione, Didone, regina di Tiro, abbandonò la città natia quando il fratello Pigmalione le uccise il marito Sicheo per prendere il potere.
Giunta in Africa, con uno stratagemma, concordò con gli indigeni l’acquisto di un territorio grande quanto una pelle di bue, questa, astutamente tagliata in fettucce, diventò il perimetro di Cartagine. Secondo Virgilio, proprio a Cartagine Didone ospitò Enea in fuga da Troia e se ne innamorò. Abbandonata, vi si uccise.
I romani, chiamarono queste popolazioni “punici”, dal greco: phoinekes, nome col quale venivano indicati appunto i fenici.
In quel periodo il territorio del nord algeria e nord ovest tunisia era la Numidia, divisa fra i territori governati da Siface, e quelli sottomessi da Massinissa. Siface era un indipendentista e si alleò a fasi alterne con e contro i Cartaginesi, Massinissa, da sempre, era alleato dei romani.
Attorno al 264 la prima guerra punica scoppiò per questioni di dominazione sulla sicilia.
Nel 219 scoppiò la seconda guerra punica, finita nel 201 grazie al polso di Publio Cornelio Scipione detto poi “l’Africano”.
Parallelamente ai conflitti romano – punici, il territorio era attraversato da altre tensioni: nel 206 Siface, con un colpo di mano, conquistò i territori di Massinissa, ma un pronto intervento romano grazie a Scipione, riequilibrò le cose, Massinissa catturò Siface nel 203 e prese il potere su tutta la Numidia. (secondo la tradizione, Sofonisba, moglie di Siface, sposò Massinissa, ma la paura di essere scoperta dai romani la portò al suicidio).
In questo periodo Massinissa stabilì la sua residenza a Dougga (all’epoca Thougga), la città di origini incerte inizia ora a diventare un centro importante.
Ne 149 scoppiò la terza guerra punica, in occasione del malcontento manifestato da Cartagine per le continue scorribande di Massinissa che sapeva di avere le spalle coperte. Nel 146, delenda Carthago, il motto di Catone, si avverò. Nacque la “provincia d’Africa”.
Alla morte di Massinissa, nel 148, i romani divisero salomonicamente l’impero numidico in 3 parti, ciascuna con una “capitale”: Bulla Regia era una di queste e il suo principe designato, Giugurta, uccise i cugini Lemsale e Aderbale per regnare da solo su tutta la Numidia.
Scoppiò così nel 112 la guerra giugurtina, per ristabilire la situazione.
In quel periodo a Roma vi era un governo senatoriale (una specie di governo tecnico) perchè Gaio Gracco (che sostituiva al governo il fratello Tiberio ucciso per aver istituito una legge agraria da tutti osteggiata) venne destituito, e poi ucciso, per aver portato avanti la medesima legge del fratello. In questo quadro politico, le truppe inviate a contrastare Giugurta vennero da questo comperate miseramente; la presa di coscienza, da parte del governo romano, di questa diffusa corruzione fece si che venisse eletto Gaio Mario, di modeste origini, il quale, in breve tempo, sconfisse Giugurta.( Sallustio, nel suo bellum jugurtum, ricorda come Gaio Mario si indicasse come avente titolo a governare, non per i suoi avi, bensì per le cicatrici che gli solcavano il petto).
La base operativa di questa operazione fu’ la città di Utica, diventata capoluogo dell’africa proconsolare con la conquista di Cartagine. La situazione in nordafrica sembrava stabilizzata.
Ma le nostre Province restano ancora per anni al centro dell’attenzione: Dopo la congiura di Catilina ricordata sia negli scritti di Cicerone che ne fu’ protagonista, sia in quelli di Sallustio, ci fu il periodo del primo triunvirato con Crasso, Pompeo e Giulio Cesare. Quest’ultimo, divenuto console iniziò il suo ben noto cammino di conquista con le guerre in Gallia. La popolarità acquisita infastidiva però Pompeo, il quale (Crasso era morto) forte della sua influenza di conquistatore d’oriente, tentò di metterlo in cattiva luce e convinse il senato a non rinnovargli la carica. Cesare coi suoi fedeli legionari si rivoltò al senato (da qui il celebre detto: il dado è tratto) e perseguitò Pompeo, il quale si era rifugiato in Egitto, mentre le sue legioni si erano alleate ai Numidi.
Cesare, giunto in Africa, soggiogò definitivamente i numidi annettendo Dougga alla provincia d’Africa e mosse contro i pompeiani. Teatro di queste battaglie fù Utica, dove peraltro si uccise Catone.
Ancora durante il periodo seguente, in particolare a partire dal I sec. dc. Queste province vissero un periodo di ricchezza. Se durante il primo periodo sotto Augusto, Utica perse potere politico, durante il dominio Severo essa diventò una potenza economica; Attorno al 130, Adriano definì Bulla Regia colonia e, in seguito, durante il periodo della casata dei Severo, Settimio, nato a Leptis Magna, elesse Dougga a Municipium (in suo onore venne infatti eretto un’arco), ancora durante il governo di Alessandro Severo a Dougga vennero eretti alcuni dei più imponenti edifici.
Cartagine:
Delle vere origini della città sappiamo poco, il nome sembra avere origine da “nuova Tiro”.
Si hanno notizie di trattati punici, ma apparentemente nessuno è stato tramandato dai romani, tranne quello ad opera di Magone, riguardante questioni di agricoltura.
Certo è che quando la cultura cartaginese entrò in contatto con quella romana era tutt’altro che interessante dal punto di vista della produzione artistica e letteraria. Degli scritti in realtà restano i diari di alcuni esploratori inviati dal governo verso la cornovaglia alla ricerca di stagno e verso il Senegal a caccia d’oro, diari peraltro dove particolari impressionanti sembrano più avvalorare fantasiose leggende più che fornire informazioni sui territori. Certo è che i puni avevano attraversato il deserto e il mediterraneo verso la magna grecia, operazione quest’ultima che, se da una parte permise loro di importare i modelli artistici che possiamo osservare al museo nazionale, dall’altra fece rompere i patti territoriali con i romani dando il via alle guerre puniche, che segnarono un progressivo tracollo della città-stato Cartagine.
Quello che oggi possiamo osservare di questa civiltà sono pochi resti, perlopiù distribuiti fra le villette che la borghesia tunisina ha sparso sul territorio con rara insensibilità ed un senso urbanistico a dir poco banale.
Del periodo punico restano poche tracce, di difficile interpretazione a causa della scarsa attenzione delle autorità competenti. Le onnipresenti illustrazioni della città punica, caratterizzata dall’insolito porto circolare capace di oltre 200 navi, inducono ad un approccio fantastico al pari di quello suscitato da Atlantide.
Una notevole porzione di sedime punico è affiorato sotto alla spianata dirimpetto lo stabile ospitante il museo, si tratta di alcuni lotti adibiti in origine a abitazioni, botteghe e laboratori, dei quali si può ben intuire l’impianto urbano solo percorrendolo. La mancanza della seppur minima indicazione rende però difficile l’individuazione delle singole unità abitative. La tradizione romana vuole che cartagine fosse stata rasa al suolo e gettato sale sulle campagne, probabilmente non fu così, ma le imponenti fondamenta del nuovo foro poterono dove le demolizioni non arrivarono. Così, la totalità delle vestigia in elevato che si possono osservare nei vari siti appartengono al periodo romano augusteo e seguenti: l’impianto urbano tipico, basato sugli assi ortogonali denominati cardi e decumani, che venivano pianificati dal gromatico coll’impiego, appunto, della groma e le imponenti rovine delle terme, ricostruite in un penoso plastico.
Realizzate sotto Adriano, le terme sono un esempio della imponenza dell’architettura augustea – imperiale che da tempo aveva unificato gli stili architettonici romani: l’uso disinvolto degli ordini architettonici, il decoro di origine ellenistico applicato con slanci manieristi, la padronanza delle diverse recniche costruttive. Proprio a proposito di queste, è da notare l’ampio uso di opus caementitium, la realizzazione di archi e corsi regolarizzatori nelle murature non nel normale laterizio sesquipedale, bensì con una piastrella lavorata nelle medesime dimensioni ma ottenuta da una roccia clastica facilmente lavorabile in foglie, a dimostrazione di una notevole ricerca di economia di cantiere. Da notare le colonne monolitiche il cui capitello pare pesasse circa 8 tonnellate.
Con mio disappunto ho notato la mancanza di un capitello recante scolpiti mostri anguipedi che si sarebbe dovuto trovare in un locale interrato assieme ad altri fregi. Nelle sue “metamorfosi” Ovidio dice: “non ego pro mundi regno magis anxius illa tempestate fui, qua centum quisque parabat inicere anguipedum captivo bracchia caelo.” parlando di un mostro dai piedi di serpe. In realtà, nella tradizione, i giganti non erano anguipedi (Esiodo, Odissea) Pausania nega avessero piedi di serpente, mentre in Grecia tali raffigurazioni erano ricorrenti.
Appartenenti allo stesso periodo le cisterne e il parco delle ville. Qui, la parziale e non proprio filologica ricomposizione di parte di una villa, permette di percepire quale fosse l’impianto edilizio tipico. Assolutamente strordinario il mosaico nel portico, rappresentante diversi volatili, che ha fatto meritare alla villa l’appellativo, a dir la verità un po ingenuo, di “casa della voliera”.
Interessante ritrovamento punico è il tophet, sito funerario,che per diverso tempo ha fatto discutere gli studiosi sul se i cartaginesi fossero o meno dediti a sacrifici umani. La zona, inizialmente organizzata con il concetto del recinto sacro, in seguito variò morfologia diventando un cimitero per fanciulli (secondo molti studiosi contemporanei morti di malattia o nati morti). Certo è che i puni cremavano i loro morti, la presenza di diverse urne cinerarie conservate presso il museo di Utica ne sono la testimonianza.
Il museo nazionale, offre una vasta panoramica sui mosaici romani, se ne possono osservare diversi “strappi” peraltro in gran parte esposti in maniera non adeguata, in cattivo stato di conservazione e ricomposti con tecniche di restauro obsolete. Sono inoltre osservabili importanti testimonianze dei commerci e dell’influenza greca sulla cultura cartaginese. Purtroppo sono visibili solo due sale in quanto le altre sono chiuse per lavori.
Bulla regia:
Da sempre sotto l’influsso romano anche durante il periodo numidico, Bulla Regia conobbe il periodo di maggior splendore durante l’erà imperiale. Al IIIsec d.c risalgono infatti le ville assolutamente eccezionali che caratterizzano il sito.
Realizzate in parte interrate per sfuggire alla calura dai mesi estivi, queste architetture sembrano mutuare simultaneamente sia l’esperienza berbera sia quella ellenistica per quanto riguarda il gusto decorativo, unito alla tradizione romana dei mosaici e dei giochi d’acqua. Le stanze, affacciantisi su straordinari peristili godevano dell’effetto pozzo di luce dato dal giardino centrale che con uno straordinario gioco di luci ed ombre magnificava stupendi colonnati corinzi.
All’epoca, il tutto era impreziosito ulteriormente da giochi d’acqua a rendere straordinaria la brillantezza dei mosaici e a testimoniare la validità dell’immancabile impianto di raccolta delle acque.
Da notare, in particolare, la sala a triclinio della casa della caccia e il mirabile mosaico raffigurante Venere attorniata da esseri marini, della casa d’anfitrite (per lungo tempo si credette infatti fosse la raffigurazione della moglie di poseidone).
Vale la pena soffermarsi sui bellissimi mosaici che non essendo conservati in maniera idonea spesso possono sfuggire ad una osservazione sommaria.
Il resto del sito è costituito da: foro, resti delle terme e un piccolo teatro.
Proprio sulla strada asfaltata, alla destra dell’ingresso, si può identificare parte di edificio con paramento a opus reticolatum.
Utica:
Del periodo punico, caratterizzato da fortune alterne, restano pochissime tracce; oltre il decumano di fondo, una serie di sepolture puniche si affiancano alle ville romane più antiche delle quali l’impianto è appena identificabile e la convivenza colla necropoli davvero singolare.
L’agglomerato ad insulae presenta solo l’abitato, mentre non v’è traccia ne del porto, poi insabbiatosi, ne’ degli edifici pubblici. Le case, appartenenti alla nobiltà locale, sono caratterizzate da un gusto decorativo tardo imperiale, con preziose pavimentazioni marmoree a motivi geometrici e mosaici. Di notevole impatto visivo i capitelli istoriati posti all’apice del peristilio della casa detta appunto dei capitelli, la lettura della loro vera bellezza è però inficiata dal fenomeno di disgregazione che nei tempi ha attaccato la roccia friabile. Interessante è poi la presenza di pavimentazioni in accoltellato di piccoli elementi in laterizio, tecnica utilizzata lungamente nei periodi seguenti.
Dougga:
Delle province in oggetto Dougga è quella che può vantare il sedime più affascinante e meglio conservato.
Si giunge alle vestigia sia da Dougga nouvelle sia da Teboursouk, l’approccio più corretto è quello da Dogga nouvelle in quanto permette l’ascesa all’acropoli. Proprio affianco al trogolo-fonte di dourat si possono osservare le rovine di un impianto termale e una strada principale che conduce verso la casa del trifolium. Questa è la villa meglio conservata oltreché la più ampia ed è caratterizzata da un insolito accesso al primo piano e da una scala che conduceva ad un ampio salone di rappresentanza trilobato.
A valle si può osservare il mausoleo libico-punico, percorrendo la strada principale si giunge ai resti (pochi) dell’arco dedicato e Settimio Severo, mentre a monte vi è un imponente edificio termale ed alcune dimore in condizioni di conservazione sufficienti a permettere la comprensione dell’impianto. Risalendo, si possono ammirare: il foro, la piazza adiacente recante incisa una rosa dei venti di oltre 10mt. di diametro perfettamente leggibile e le splendide vestigia del capitolium che sono in ottime condizioni e permettono di valutare la destrezza degli scalpellini del periodo.
Più a est è di sicuro impatto il tempio di Caelestis, la cui porzione posteriore era composto da un emiciclo di colonne ad abbracciare il tempio vero e proprio posto sopraelevato.
Altre rovine sono di minore leggibilità, fra le quali spiccano le latrine pubbliche presso le terme dei ciclopi, conviene comunque aggirarsi lungamente per poter scorgere ovunque preziosi mosaici policromi. Anche il teatro principale, più a ovest, ha la scena decorata con mosaici. Sfugge facilmente alla vista un altro, piccolo ma dotato di una straordinaria acustica, teatro che si trova invece presso il gruppo di templi antistanti l’edificio delle terme Liciniae.
Rumore di ciabatte
Questa notte il caldo è insopportabile, si alterna al freddo che mi infligge la mia condizione di salute.
Passa qualcuno in strada, indossa delle ciabatte di plastica. Sento il passo strascicato procedere sull’asfalto reso lucido dagli anni, appiccicoso dal sole e puzzolente dal piovasco di questo pomeriggio.
Questa sera tutti quelli che passano sembrano indossare ciabatte di plastica, ma non è una moda, è l’alternativa più comune al camminare scalzi come fanno gli operai che qui di fronte stanno costruendo la sede di una banca.
Li osservo da quando sono arrivato, vivono all’interno del cantiere; li dormono, mangiano, e, ovviamente pregano.
Il rumore dello sciabattio risuona in strada come normalmente sono abituato a sentirlo risuonare in casa. Ciabatte-casa casa-strada. Trasposizione.
Sono le tre di mattina, per molti di questi passanti questa casa ha per pareti gradevoli ma trasandati edifici ottocenteschi, a loro volta case di altri, più fortunati. Vivono in un non-luogo di confine, come se abitassero le pareti divisorie fra due appartamenti. Vagano cercando uno spazio a loro misura in questi ambienti pensati non per accogliere ma per fluire; e loro fluiscono, ora si disperdono ora si reincontrano, sempre parlando ad alta voce. Ora sento gridare, mi affaccio al balcone in un panorama oramai a me famigliare; ho passato più ore qui che a letto, alcuni ragazzi si stanno rincorrendo, qualcuno sferra un calcio, nella via all’angolo volano alcune bottiglie. Il sonno che prima non c’era, ora non verrà.
Vista di qui Tunisi può sembrare un quartiere periferico di Parigi o forse di Lisbona colle sue azulejos. Al mio rientro Laura forse concorderà con questa mia impressione.
La presenza della stazione nelle vicinanze connota infatti la zona con caratteristiche comuni anche alle città occidentali. Mi sembra di ricordare i quartieri dietro la stazione Termini, il mercato di piazza Vittorio. Certo il paragone coll’impianto aedificatorio non regge, qui l’800 ha costipato i lotti di piccoli edifici di tre o quattro piani, accostati senza distacco fra gli uni e gli altri, alcuni nella loro ricchezza di decoro, qui a base di majoliche, sembrano rifarsi all’art-nouveau, soprattutto gli elementi di testa del lotto, come l’edificio che ospita l’hotel transatlantique, con l’accesso ricavato nell’angolo, all’incrocio fra le vie, dove lo spigolo smussato diventa raccordo a creare un continuum stilistico e le finestre polifore decorate dei piani alti sembrano voler far eleggere quei tre metri a facciata principale.
Dall’altra parte l’avenue Habib Bourghiba è un vero boulevard parigino. Edifici ‘8-9centeschi realizzati sui modelli hausmanniani osservano immobili l’incessante traffico caotico che spinge fiumi di persone verso l’imbuto di rue de France e da li al dedalo di viuzze della medina. Ma sui boulevard nessuno usa le ciabatte di plastica, qui gli usi e costumi vogliono essere occidentali e nessuno in occidente si aggirerebbe in ciabatte. Ma questo, chi, approfittando di un mio raro assopimento, neanche a saperlo, ha deciso di aprire la mia macchina in cerca di soldi o altro, non lo sapeva. Qui, fra chi usa le ciabatte di plastica, avere una maglia con su scritto: “Italia” è un vanto, un segno di identificazione con un miraggio il cui raggiungimento vale qualunque azione.
Così, le ciabatte di plastica continuano ad aggirarsi fra queste strade, talvolta due, talvolta quattro, talvolta in compagnia di altri oggetti in-animati sempre di plastica: una bottiglia che da contenitore del prezioso liquido è pronta a trasformarsi in pallone e accompagnare a terra il peregrinare delle ciabatte fino all’abbandono, fine ultimo di tutte quelle cose mutuate da una coscienza critica ad una più spontanea o, forse, più semplicemente, meno smaliziata.
Così le periferie sono contrassegnate dall’abbandono dell’in-servibile,del ri?adattabile.
Sono circa le quattro, la strada è silenziosa, fra poco le prime luci dell’alba di queste parti inizieranno ad illuminare la stanza. Per ora ci pensa il vasistas della porta semiaperto a far penetrare nella camera la fredda luce dei neon che illuminano il corridoio. La stanza è tutta colorata di bianco, ma una precedente colorazione verdolina ancora si percepisce in trasparenza; in un angolo, accanto alla finestra, appena celati da una tenda, un lavandino e un bidet collegati da un groviglio di tubazioni fatiscenti. Il gabinetto vero e proprio è in fondo al corridoio, e di quest’ultimo rispetta l’altezza di almeno 5 metri, perciò, essendo di poco inferiore ai 2 metriquadri di superficie, offre l’impressione più unica che rara di trovarsi sul fondo di un pozzo.
La pavimentazione ricorrente è costituita da piastrelle di cemento analoghe a quelle in voga anche alle nostre latitudini, le scale, abbellite con le immancabili majoliche a paramento, sono davvero gradevoli e, segnate come sono dagli eventi, rendono il generale senso di decadenza elegante. Il tutto, fa perdonare a stento l’eccesso di zelo che probabilmente, in un passato abbastanza prossimo, condusse il proprietario a risistemare l’ingresso al piano terreno dotandolo di arredo e specchi degni di una discoteca anni’70 e ad installare la gigantesca insegna blu.
Le onnipresenti majoliche ma in versione contemporanea, generano l’impressione che il bar sia in realtà il fondo di una piscina, basta però affacciarsi alla finestra per fugare ogni sospetto, siamo al primo piano e qui di fronte v’è un altro albergo. Questo si, davvero sciatto, neppure due piastrelline a decorare l’ingresso. Sciatto come la bettola della medina che questa sera, per sei dinari in due, mi ha avvelenato con un ottimo couscous all’agnello. Tavoli consumati, pavimento sporco, gatti che si aggirano fra i tavoli elemosinando con insistenza un po’ di quel grasso d’agnello che proprio non mi sentivo di mangiare.
Altra cosa sono i cafè della medina, un trionfo di majoliche che talvolta si spinge ben oltre i due metri, lo sporco è simile a quello della bettola, ma le piastrelle finemente decorate riescono bene a dissimulare. All’interno l’ambiente è spesso quello di una fumeria con una batteria di narghilè schierati sul bancone.
Tutt’attorno la medina ha l’aspetto confuso del gran bazar, i diversi suq, originariamente ben divisi in quartieri monotematici da ampi portali, oggi, soprattutto nella parte bassa, sono diventati un interminabile e caotico pout-pourri di paccottiglia per turisti.
Molto più sinceri i negozi di alimentari che popolano rue d’Algerie dove abbiamo comperato del pane e qualche dolce.
Sidi bou said
Oggi la giornata è cominciata meglio, in un piccolo hotel, ma all’aparenza tale non sembra, ho riscoperto il piacere di una ospitalità fine, elegante ma non invadente, tradizionale, mai approssimativa o cialtrona.
Una piccola corte fra le case, un fico e le immancabili maioliche a contorno delle bucature
costituiscono un compendio dell’ambiente circostante.
Questa graziosa località, rigogliosa grazie al turismo di massa, è in grado però di mostrare anche un aspetto sincero e tradizionale di questo angolo di Tunisia così mediterranea.
La prima tazza di the alla menta è finita, ora mi aspetta la seconda, più forte e avvolgente.
Qui attorno, strette in un nucleo compatto, le altre dimore, seppur esteriormente presentino caratteri tradizionali, tradiscono al loro interno il desiderio, facilitato dal diffuso benessere economico, dei loro occupanti di una comodità
occidentale. I portoni e le inferriate alle finestre richiamano con un celeste deciso il cielo limpido che tutto sovrasta con una luminosità senza pari.
L’impianto caratteristico di queste case è immediatamente riconoscibile come mutuato dalla tradizionale pianta romano-africana, con le camere affacciate su un patio, il quale è
a sua volta collegato alla strada da un vestibolo. Mentre lo attraverso ne riconosco l’appartenenza a stilemi antichi, la memoria corre alle eleganti rovine di Dougga e di Bulla Regia.
Profumo di gelsomini
Lo stesso profumo che vorrei sentire su te. Capelli crespi decorano il tuo viso al pari dell’hennè le tue mani e occhi penetranti mi rapiscono, anguicrinita gorgone.
Forse il tuo cuore è libero come il tuo sguardo, ma la tua mano saldamente legata a quella di un uomo che distaccato ti scruta, mentre io rapito ti ammiro.