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Hoggar – di Annuska Grisendi

– Posted in: Africa, Nord Africa, Resoconti di viaggio

By Annuska Grisendi
Originally Posted Sunday, July 18, 2004

 

HOGGAR

Marzo 2004

ANNUSKA GRISENDI

Trascorro il pomeriggio per le strade affollate di Tamanrasset: c’è un gran movimento di gente del luogo, negozi e bar affollati. Da una stradina giunge il suono di vari strumenti: molti uomini con gandura e shesh bianchi danzano in cerchio, per i festeggiamenti di un matrimonio, al suono di tamburi e tamburelli; la gandura è stretta in vita da un cinturone di cuoio dipinto, da cui partono nappe pendenti e due bretelle incrociate sul dorso. Immagino che servano a reggere qualche pugnale o takouba, ma mi voltano le spalle e non riesco a vedere. Alcuni hanno un fucile. Molta gente si assiepa intorno, soprattutto ragazzi, che però si scansano subito e fanno scansare gli altri, appena si accorgono che voglio scattare qualche foto.

Affidandomi ad un tassista, riesco a trovare l’abitazione di Père de Foucault, il religioso che ha vissuto fra i Touareg gli ultimi anni della sua vita, prima di essere ucciso nel 1916, cercando di penetrare i segreti della loro cultura e del loro linguaggio, il “tamashek” o “tamahak”.

E’ una semplice e massiccia costruzione in banco a forma di parallelepipedo, isolata entro un cortile chiuso da un muro, anch’esso in banco, che ne fa un’oasi di silenzio e di raccoglimento al centro della movimentata e colorata atmosferadi Tamanrasset. Il sole al tramonto conferisce al luogo un’uniforme e calda tonalità ramata. Quando Charles de Foucault la costruì, soprattutto per difendere gli schiavi dai soprusi della popolazione locale, era l’unico
edificio in muratura , circondato da zeribe; ora l’oasi ospita 100.000 abitanti.

Alcuni bambini entrano da un cancello semiaperto e mi ruzzano intorno, curiosi e divertiti.

Poco oltre incontro un gregge di capre e costeggio una vasta area occupata da un mercato con centinaia di bancarelle, dove si vende e si compra di tutto. E poi c’è il grande oued che attraversa l’oasi, che un tempo era il mercato delle capre e dei cammelli e ora è diventato il parcheggio dei camion che vanno e vengono dal Niger. Ma quando si fa buio vedo scorrere nell’oued una carovana di cammelli. Peccato! L’oscurità mi impedisce di vedere
i colori degli abiti e dei shesh.

Avverto in questo centro un’aria familiare, che mi fa desiderare di restarci più a lungo, di impadronirmi delle strade dei vicoli dei mercati, di entrare nella sua anima pulsante. Ma ancora il mio cuore è vicino a Djanet, che ha intorno gli orizzonti di sabbie e rocce di quello che nel mio immaginario è il deserto. Tam invece è un’oasi di montagna, non ha il palmeto ed è dominata dalla sagoma compatta del monte Adrian, il cui profilo uniforme è interrotto da un’unica sella, a cui deve il suo nome: Ahmed, il capo degli autisti, mi ha spiegato che Adrian era un touareg a cui era caduto
un dente, lasciandogli nella dentatura un buco, del tutto simile alla sella del monte.

Sono invitata a cena a casa di un cugino di Laid, il più giovane degli autisti, e quando lo incontro, mi vedo di fronte la stessa persona che ho conosciuto pochi giorni fa a Djanet, quando mi sono fermata a salutare Taieb, poco prima della partenza. “Questo deserto smisurato, nel quale ci si incontra sempre!”

Dormo su un terrazzo: c’è un’aria non fredda, non calda, che cessa del tutto verso le 23 e riprende verso le 6 del mattino, quando mi sveglio. E’ ancora buio, segno dello spostamento verso Ovest; ma pochi minuti in bagno e, quando ne esco, la luce mi sorprende. A Djanet mi sono abituata a vederla giungere lentamente: quando mi sveglio all’alba, posso ritirare la testa nel sacco a pelo e dormire ancora un poco, e quando mi risveglio c’è appena la luce mattutina e il sole non è ancora sorto. Qui ho l’impressione di essere passata d’improvviso dalle tenebre alla luce. Mi viene in mente che sono sotto il tropico del cancro.

Raggiungo gli altri, che hanno dormito al “Caravanserrail”, e partiamo per l’Hoggar, percorrendo l’oued Tamanrasset, che ben presto si restringe fra i monti. Sono salita sul pic-up con Bashir, che, conoscendo la mia passione per i nomi dei luoghi e la loro storia, subito mi addita una montagna che si erge isolata: è rotonda e massiccia alla base e termina con una tozza punta; ha le pareti striate verticalmente come un fascio di canne d’organo.
I touareg la chiamano” Egheghem”, il pestello, e a poca distanza si profila la sagoma massiccia e piatta di un altro monte, che, naturalmente, è il “Tindè”, il mortaio, quello in cui le “targuie” pestano il grano e il miglio e su cui, in occasione di matrimoni e festività, stendono una pelle di capra, trasformandolo in un tamburo, al ritmo del quale improvvisano le loro canzoni, che cantano temi antichi: l’amore, la guerra, la solitudine, gli spazi infiniti, le leggende tramandate di generazione in generazione.

Bashir assomiglia a Omar Sharif: lo stesso viso dai lineamenti morbidi, lo stesso sguardo dolce sotto sopraccigli folti, lo stesso sorriso mite; quando si toglie il shesh, rivela capelli appena brizzolati, ma lisci e leggermente inanellati, più da arabo che da touareg. Parla in modo pacato e sottotono, ha movimenti lenti e controllati, tutto il suo modo di essere ispira calma e fiducia. Anche Ahmed, il capo degli autisti, si fida di lui e qualche volta non ha esitato, su suo consiglio, ad abbandonare la pista nota.

Superiamo in breve la guelta di Imaloùlaouen, formata da bacini sovrapposti stretti in una gola. Mi piace immaginarla coi bacini colmi d’acqua e con delle cascate di raccordo; ma questa è una memoria delle nostre Alpi e forse nemmeno armonizzerebbe con lo spirito del paesaggio sahariano.

Quando arriviamo in quota, usciamo su un immenso plateau ondulato, di un diffuso grigio-piombo, dal quale traspare il colore rossiccio della terra. Sinuose tracce dorate lo solcano, segno del passaggio dei fuoristrada. Pare che un dio maligno abbia voluto cancellare lo splendore ocraceo di questa terra con una fitta pioggia di grigi sassi. In realtà è la “vernice del deserto”, la patina scura dovuta all’ossidazione: da vicino si intravede l’anima dorata della roccia. Il cielo è solcato da lunghe striature di nubi, che danno al paesaggio un’insolita profondità.

All’orizzonte emergono vette isolate di forma diversa. La più massiccia ed estesa, a forma di piramide tronca, si chiama “Akarakar” e durante una sosta Ahmed e Mohammed tentano di spiegarmi che “akarakar” è “qualcosa di alto che si muove, come la testa.” Chissà perché l’hanno chiamata così! Forse in memoria di un re del luogo, Akar appunto, figura non so se mitica o storica.

Eppure qui si respira un’aria familiare: queste moli svettanti ricordano le Dolomiti e ci si sente veramente in alta montagna, si respira l’aria fine delle grandi altitudini, ci si sente entro uno spazio dilatato. Non è la muta, immobile desolazione del Ténéré, e nemmeno la silenziosa immensità dell’erg.

Prima di mezzogiorno raggiungiamo la guelfa di “Afilal” e, mentre Azoum prepara il pranzo, mi incammino lungo il canyon popolato di oleandri.
Subito un fruscio mi sorprende, che pare venire da un altro mondo: è il brusio discreto dell’acqua che mormora fra i sassi. L’oued ora si allarga in bacini apparentemente immobili, ora scorre fra pareti di roccia, le cui innumerevoli sfaccettature fanno pensare a quadri cubisti. Impossibile difendersi dalla luce riverberata da mille superfici. Le rocce a terra, levigate dall’acqua, risplendono come antichi specchi d’argento brunito. Cammino proteggendomi col shesh, facendomi strada fra il verde folto, saltando sui sassi per evitare i rigagnoli, passando da una sponda all’altra, dove il percorso mi sembra più agevole. Sotto i miei piedi rocce striate di verde o color petrolio, massi di granito chiaro , grossi sassi neri, porosi e riarsi come la pomice, forse di origine lavica.
Il canyon sembra non avere fine. Ad un tratto mi accorgo di aver proceduto troppo a lungo e di essere in ritardo. Ritorno sui miei passi il più in fretta possibile e infatti, quando giungo al campo, mi stanno aspettando e Azoum mi viene incontro visibilmente preoccupato:”Mais où es tu allée?
Je t’ai cherché partout!” Francamente la sua preoccupazione mi pare eccessiva: non ci si perde seguendo il corso di un oued fra le rocce! Mangio in fretta e, per farmi perdonare, aiuto a lavare i piatti.

Riprendiamo il cammino; un’ora di strada ancora ci separa dall’Assekrem ed è il tratto più impervio e dissestato. Ad una svolta mi si para innanzi la mole strana, fantastica, imponente di una massiccia piramide tronca formata da grossi cordoni verticali di roccia; dalla sua sommità emerge e si innalza un grosso “piton” appuntito, striato da più esili cordonature.

Dal monte si slancia verso l’alto una sottile colonna di nube, che poi si amplia come un fungo dall’esile gambo. “Tezuyag”, dice Bashir indicandomelo col dito. “Qu’est-que c’est, Bashir?” “Grand oiseau!” e con i gomiti aperti mima il volo di un grande uccello. “Quel oiseau?” Non ricorda il nome in francese e si concentra alla ricerca di un modo per farmi capire; alla fine lo trova: “crah!!!!!……crah!!!!!” “Il corvo! …Le corbeau!”, e lui annuisce e sorride contento.

Non finisce mai di affascinarmi la capacità dei Touareg di dare un’anima alle cose. E’ il residuo di un’antica religione animistica ed è insieme un approccio conoscitivo simile a quello dei bambini, molto poco scientifico, ma quanta ricchezza di immagini suscita nella fantasia e che rapporto di comunione stabilisce fra l’uomo e la realtà! Dare un nome alle cose significa farle proprie, mettersi in contatto col loro “nume”, la loro essenza, e in ultima analisi sentirsi meno soli in un mondo popolato di presenze familiari.
Forse questo è fondamentale per gli uomini del deserto, ma anche a chi conosce l’approccio scientifico farebbe bene guardare alle cose con la “simpatia” di chi le sente “sorelle”, alla maniera di S.Francesco. L’Africa ha molto da insegnare a noi europei; se fossimo capaci di ascoltarne la voce, prima che essa vada perduta, la nostra cultura se ne arricchirebbe e diverrebbe più umana.

La strada gira proprio alla base del monte e ben presto ce ne rivela il versante occidentale, costituito da enormi lastre di roccia verticali fittamente addossate le une alle altre. Vista da ovest la massa compatta della montagna appare articolata in tre cime: una più bassa e acuminata sulla destra, una centrale più massiccia con la punta stondata, e un grosso piton appuntito sulla sinistra.
Mentre ci allontaniamo, non riesco ad evitare di tenerlo d’occhio ad ogni svolta della strada e mi accorgo che, con la distanza che aumenta, di nuovo la roccia prende l’aspetto di un fascio di canne d’organo.

Gli ultimi km. sono molto difficoltosi e lenti; sul volto degli autisti si legge la tensione: la polvere che ricopre le rocce, di cui è disseminata la pista, la rende scivolosa e i pneumatici rischiano di slittare.

Alla fine raggiungiamo il rifugio dell’Assekrem: tre costruzioni di sasso su una sella, dalla quale si domina anche il versante opposto a quello da cui siamo saliti. Subito mi incammino verso la cima, che è una trentina di metri più in alto ed è coronata dai piccoli romitaggi dei pochi frati che ancora vi soggiornano; sopra a tutti si staglia quello di “Père de Foucault” L’abitazione guarda a oriente. L’interno è spoglio: un corridoio, due stanzette, una delle quali, molto buia, conserva un semplice altare di sasso; nell’altra, come nel corridoio, molti fogli appesi alle pareti parlano della strana e discussa vicenda di questo religioso e riproducono testi di preghiere da lui composte e stralci dei suoi scritti. Uno mi colpisce, perché parla della spiritualità dell’Islam e del fascino che essa ha esercitato sul suo animo, tanto da riavvicinarlo a Dio quando gli pareva di averlo smarrito, proprio per la capacità di questa religione di far vivere Dio nelle cose, di farlo sentire partecipe della vita dell’uomo in ogni momento della quotidianità.

Esco e trovo uno dei frati che è salito, forse per parlare con noi. Sono 32 anni che è quassù. Parliamo un poco di Père de Foucault e della sua vicenda umana. Ci dice che dobbiamo spostarci sull’altro versante per vedere il sole tramontare e che siamo molto fortunati ad avere trovato una stagione così mite e bella; di solito in marzo c’è vento di sabbia e la foschia lascia vedere poco del magnifico spettacolo dell’Hoggar.

Davanti al romitaggio lo sguardo si perde in un labirinto di cime, fra le quali dominano le tre punte del Tezuyag. Questo monte ha un fascino magnetico; mi è difficile distoglierne lo sguardo; me ne sto innamorando e sento il desiderio di rimanere sola con lui. Appena gli altri si allontanano, il canto del Kyrie mi nasce spontaneo come un commosso tributo a questa splendida terra, che mi regala un sentimento appagante di appartenenza, quella pienezza che Ungaretti chiama “sentirsi in armonia”.

Solo quando il sole è prossimo al tramonto mi sposto sull’altro versante, per vederlo calare dietro le cime dell’Atakor , immobili giganti sfocati nel controluce. I sassi del pianoro, colpiti dalla luce radente, sembrano tante pepite d’oro e gettano brevi ombre che danno al pianoro un aspetto variegato.
Sulla mia testa lunghe nubi striate si alternano a fascie di azzurro; davanti a me l’orizzonte è tutto uniformemente rosato.

Mi siedo dietro una costruzione di sassi al riparo dal vento e appoggio i piedi nudi su un sasso che conserva tutto il tepore del giorno. A contatto col calore della roccia e con gli occhi pieni di sole, aspetto che anche l’ultimo raggio si spenga, prima di scendere quasi di corsa verso il rifugio, per sfuggire all’aria pungente.

Dopo cena faccio conoscenza con Seddik, il touareg che gestisce quasi da solo durante i mesi invernali il rifugio, nel quale, oltre ad alcune camere, c’è una cucina bene attrezzata e un ambiente molto accogliente, con il camino acceso e il pavimento interamente ricoperto di stuoie, tappeti, materassi perimetrali nascosti da coperte multicolori; alle pareti altre stuoie e oggetti della vita quotidiana dei nomadi.

Di fronte al camino un grande ritratto con l’ultima regina dei Touareg: un bel viso regolare, con lunghi capelli castani coperti da un velo. ” Elle était meme plus belle!”: un ragazzo touareg, seduto accanto al camino, ha notato il mio interesse. Dove ho già trovato memoria di questa regina dei Touareg, figura emblematica della struttura matrilineare della loro società e dell’importanza della donna come depositaria delle tradizioni orali, dei legami col passato, e punto d’incontro col futuro attraverso il contatto con le anime dei morti? Mi riprometto di fare qualche ricerca non appena sarò tornata e di nuovo la mia attenzione si sposta su Seddik.

Corporatura minuta, viso affilato, mento appuntito, esili baffi neri, labbra mobili, pronte al sorriso. Seddik indossa un gilet di rozza lana bianca a grossa trama, ricamato con fili di lana colorata; il shesh nero ombreggia due occhi vivacissimi, che lasciano indovinare intelligenza, furbizia, intraprendenza.
Ci offre il the davanti al fuoco, poi mi mostra con orgoglio la cucina e mi dice che cucina lui, da solo, anche per decine di persone. Insiste ripetutamente per darmi le chiavi di una stanza, gratuitamente credo; gli risulta incomprensibile che a quasi 3000 m., con una temperatura che scende di notte a 8° e con un rifugio a disposizione, io mi ostini a voler dormire sotto le stelle. Nemmeno gli autisti, che pure ci sono abituati, dormiranno fuori questa notte. Ringrazio, ma oppongo una decisa resistenza e porto bagagli e sacco a pelo a ridosso di uno stabile, al riparo dal vento, e mi guardo a lungo le stelle, che quassù appaiono particolarmente scintillanti e ammiccano dalle profondità buie. Peccato questo muro che mi nasconde tutta la parte orientale del cielo! Ma il vento è troppo freddo per permettere di stare completamente allo scoperto. Finalmente qualche stella cadente, e intanto mi cullano le voci di Ahmed, Mohammed, Azoum, Bashir, che dentro stanno facendo conversazione. Come mi sono ormai familiari e come sono diverse l’una dall’altra! Ognuna ha il potere di ricreare l’immagine dell’uomo nella sua interezza fisica e morale: posso immaginare lo sguardo, il movimento delle labbra e dei muscoli del viso, indovinare l’espressione di chi sta parlando solo dal tono della voce, senza capire ciò che dice.
E mi rendo conto di quanto siano calde, forti, e pacate le voci dei Touareg. Hanno il potere di accarezzarti dentro, come i loro sguardi. E mi addormento in pace.

Mi sveglio alle 6, alle prime luci, e velocemente prendo il sentiero che sale al romitaggio, per vedere il sorgere del sole. L’orizzonte est è completamente occupato da cime che sorgono diseguali e pallide dalla bruma, come quinte di uno sconfinato palcoscenico; presenze sensibili, come silenziosi giganti addormentati, le più vicine, presenze evanescenti, come fantasmi evocati da un mondo altro, le più lontane. Quando arriva il sole ad incendiare l’oriente, i contorni si sfuocano, le forme perdono peso e consistenza; ma dalla parte dell’occidente le ombre si allungano, le cime si risvegliano al calore del sole che avanza e la luce le sottrae al bagno informe delle tenebre.

Mentre gli altri si preparano alla partenza, mi avvio, sola, lungo la via del ritorno, per prolungare il più possibile la rara condizione di armonia che mi pervade. Il cielo è grigio-azzurro, zigrinato da nubi leggere come riccioli. Ad una svolta mi appare il Tezuyag, proiettato in un alone luminescente come una divinità “in gloria”; e mi nasce prepotente il bisogno di fotografarlo ancora, in questa diversa luce mattutina e da diversi punti di vista, nella speranza che resti imprigionata in queste immagini una traccia dell’anima del grande “Corvo”, che mi accompagni nel cammino della quotidianità e, nei momenti in cui gli orizzonti dell’anima si chiudono, mi ricordi che grandezza e bellezza esistono e una loro scintilla mi appartiene.

Sto diventando “targuia”. O forse lo sono sempre stata, senza saperlo.

Il ritorno è silenzioso. Sento il bisogno di prolungare le sensazioni provate in queste 24 ore. Bashir tace e suona cassette di musica araba. Non l’ascolto, ma mi lascio cullare dai suoni cantilenanti, che fanno da adeguato sottofondo alla mia meditazione, senza disturbarla. Un incontro interrompe la monotonia del rientro: un toyota che sta salendo ferma e ne scende l’autista, un amico di Bashir; non si vedono da molto tempo e l’incontro è caloroso.
Li fotografo mentre si stringono la mano e si abbracciano e lo sconosciuto mi dice, col più luminoso dei sorrisi: “C’est mon ami! Je ne l’ai pas vu depuis 7 mois”.

Hanno entrambi l’abito azzurro e il shesh scuro, che incornicia i loro visi bruni, mettendo in risalto la luminosità degli occhi e il biancore dei denti aperti al sorriso. Le loro figure eleganti introducono una animata nota di colore sullo sfondo uniforme del paesaggio. Ma soprattutto è bello il piacere genuino con cui si ritrovano e conversano, dimentichi di tutto: gli altri toyota sono ormai fuori vista, la gente sull’auto ferma aspetta di salire, ma in questo momento nulla importa, fuorché il piacere di ritrovarsi. Il resto può aspettare; c’è tempo!

Inshallah!

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