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Frammenti di Sudan a cura di RoboGabr’Aoun

– Posted in: Africa, Resoconti di viaggio

By Robogabraoun
Posted Thursday, May 1, 2003

appunti di viaggio

Frammenti di Sudan

a cura di RoboGabr’Aoun

2003

Kawajia, kullu tamam?…

Il grande souk di Shendi, sulla sponda orientale del Nilo, si apre davanti a me come una immensa babilonia di colori e suoni, un caos indescrivibile di forme sublimate da un continuo, quasi ritmico movimento che pare non coinvolga soltanto le migliaia di persone ma gli stessi banchetti, le tettoie, le decine di stuoie distese al suolo ad ospitare le verdure che la Madre Acqua dispensa in questo deserto arido…Fermo il fuoristrada sulla via che costeggia il margine del mercato da sud, all’ombra effimera di un porticato di calce bianca, unico baluardo ad un sole che già in gennaio ruggisce e taglia le membra con artigli di fuoco.

In 11 anni ho camminato per i vicoli di infiniti mercati arabi, ma qui, in Sudan, è un altro mondo.

Un mondo a colori sgargianti che lascia senza respiro se si ha l’accortezza di sedersi a guardare,lasciandosi scendere dentro questo caos che in fondo è perfetta armonia.

Le tettoie di paglia si susseguono l’una accanto all’altra, unite da un intrico di corde, cordini, spaghi a sorreggere impalcature primitive, di pali ritorti. Stuoie di iuta coprono gli stretti camminamenti tra le bancarelle, ed il cielo ne risulta completamente oscurato, sì che il souk, alla fine, viene a formare un microcosmo di ombra nella piazza assolata, in cui anche i sassi della via sembrano trovare ristoro dalla calura.

Scendo dall’auto, direttamente nella folla di bournous candidi che mi sfila accanto. Sono in molti a guardarmi con curiosità: il turismo ancora non esiste, è un evento raro incontrare “l’uomo bianco”, ancora più raro incontrarlo qui, nel cuore pulsante del villaggio.

Le grandi arcate del porticato ospitano innumerevoli banchetti di mercanzie d’altri tempi: c’è l’angolo dell’orologiaio, quello del ciabattino, quello del tessitore. Sento chiamare il mio nome e volgendomi incontro gli occhi maliardi del vecchio Ibhraim, sepolto dietro le sue stoffe, la sua vetusta macchina da cucire alla base di una colonna dei portici.

Ci salutiamo da amici, sfiorandoci con la mano destra le spalle, portandola poi direttamente al cuore in quel gesto meravigliosamente universale che accomuna tutti gli africani del nord.

Due donne vestite di scialli variopinti, sedute ai loro minuscoli banchetti di venditrici di tè, mi sorridono, riconoscendo lo strambo straniero biondo, con i suoi buffi orecchini. Chiacchieriamo un po’, Ibhraim ed io, mentre i bicchierini di chaij fumante arrivano senza bisogno di richiesta: un incontro tra amici non può avvenire senza un tè.

Un paio di animatissimi ristorantini si affacciano lì accanto, ed i grandi orci colmi di braci ardenti sfrigolano, mentre nell’aria già soffocante si alzano le onde di calore , e le volte ombrose si riempiono di quei profumi speziati che solo la cucina araba sa creare…Tutti gli occhi sono rivolti a me, lo straniero. Passo tra gli avventori e quasi ad ogni tavolo mi ritrovo a stringere mani, ad intingere bocconi di pane in succulenti piatti di full, di riglha, di bamijah. E’ una sensazione incredibile, di familiarità, quel “sentirsi al posto giusto” che sempre mi riempie l’anima quando scendo in Africa.

Il richiamo continuo, cantilenato, dei venditori di banane sovrasta il frastuono dei pick up e dei grossi e variopinti camion da trasporto che ingombrano la strada di terra battuta, facendosi largo tra centinaia di carri ricolmi di paglia, fieno, insalata, canna da zucchero. Decine di ragazzi attraversano la via trasportando sulla testa, in un equilibrio che sconvolge, lunghe tavole di legno zeppe di quel buon pane senza lievito, in pagnottelle tonde, così invitante che ne mangeresti a bizzeffe…Fanno la spola dal forno al mercato, tutto il giorno e tutti i giorni.

Mi infilo sotto l’ombra del souk, seguito da una coorte di ragazzini, piccoli venditori di borse di plastica, sacchi di iuta, semplici cestelli. Non sono assillanti, non sono nemmeno questuanti: lo fanno con me come con chiunque altro si aggiri nel labirinto di bancarelle, è il loro “lavoro”.

Mentre contratto i miei succulenti pomodori un vecchio,austero e regale, mi passa accanto portando alla cintola la sua grande spada, con la naturalezza con cui io potrei portare i miei occhiali o il mio zainetto.Sono in molti, qui nel nord, a portare ancora la kaskara al fianco, e molte di queste lame hanno combattuto nell’883 per conquistare Khartoum alla guida del Mhadi. Lo guardo passare mentre come in un film che scorre a velocità siderale rivedo quei giorni di sangue, quell’urlo disumano uscito da 150.000 gole di invasati che di corsa si lanciavano alla mattanza degli inglesi asserragliati in una città condannata…Incrociamo gli sguardi, i miei occhi stupiti ,rapiti da quelle orbite rugose,da quelle iridi nere come la notte. “Kullu tamam?” ,sì, certo, tutto bene, hamdellillah…Intanto le mie braccia si colmano di sacchi e sacchetti, carico come un mulo di pompelmi,arance, verdure, limoni. Assoldo per pochi centesimi alcuni ragazzini e mi ritrovo a girovagare per il mercato con un seguito di piccoli portatori vocianti. Entriamo come in processione nell’area delle macellerie, sconvolgente, primitiva. L’odore acre dell’incenso profuma l’aria, antico e valido rimedio per scacciare le onnipresenti mosche, attirate dal ben di Dio di carni appese alle centinaia di ganci sotto le tettoie di palma.

E’ una visione da girone dantesco, affascinante. Uomini barbuti, con le braccia potenti rosse di sangue affettano su ceppi immani le carni freschissime. E’ strano, mette soggezione il vedere quelle mani poderose calare fendenti con le scuri, e ti sembra di essere in una coorte di assassini dagli sguardi feroci. Ma è suggestione, subito scacciata dall’affabilità di tutti, anche di quelli più sconcertanti ,come questo gigante che mi si para davanti con la sua accetta e lo sguardo torvo, che pare mi voglia aprire in due come un capretto ed invece vuole solamente salutarmi,chiedermi da dove arrivo, se mi piace il suo villaggio…Ringrazio mentalmente l’abitudine dei sudanesi di macellare le bestie in luoghi chiusi,lontano dalla vista della gente, a differenza di quanto avviene in Tunisia,Libia , Marocco, dove passare in questi quartieri fa venir voglia di piangere…

File di torni da falegname collegati a tritacarne a manovella rappresentano il massimo della meccanizzazione del mercato: tu compri la tua carne in un posto e poi la porti qui, e per un pound l’addetto la trita,col suo tornio che pare uscito dalla soffitta della nonna…Le cicogne e le Oche Egiziane volano sopra la mia testa, le vedo appollaiate sui pali dei banchetti, sui tetti piatti delle case, indifferenti all’umano movimento, al rumore, agli odori.

Scivolo nei vicoli,il mio corteo di portatori sempre più grande, ed il richiamo “kawajia” mi raggiunge ad ogni crocicchio, ad ogni bottega. Ho i piedi scalzi pieni di polvere, la faccia , le braccia: sono fatto di polvere ma me ne rallegro: sono uno tra gli altri, non mi sento diverso, non mi sento fuori posto.Ho dimenticato da mesi le mie abitudini occidentali, e mi sorprendo spesso sdraiato sul selciato a gustare un tè, in mezzo a volti mai visti, con i capelli nella sabbia .Sudanese tra Sudanesi, ed invece no, dovrò tornare prima o poi, e fare i conti con il mio mondo di sempre, riadattarmi a regole che forse non condivido ma fanno parte del mio vivere.

Cerco il ghiaccio, quegli enormi blocchi di acqua solida che fino ad inizio secolo anche noi utilizzavamo per conservare gli alimenti nelle ghiacciaie…Noleggio un carro, ed al corteo di borse e borsoni si aggiunge un carico di blocchi gelidi e gocciolanti; andiamo, tutti in fila, facendoci largo nella folla, cercando di ritrovare la via per raggiungere il mio Toyota.

“Yankee go home!” mi raggiunge rabbioso,come una sciabolata. Mi volto a guardare gli occhi furiosi di un giovane vestito di bianco, piantato in mezzo alla strada alle mie spalle,la gente che gli passa accanto come la corrente di un torrente aggira un masso.

Torno indietro: non posso lasciar perdere; io qui ci vivo, ci torno; non posso e non devo aver paura.

Tamam? E gli porgo la mano…Mi guarda sempre torvo ma sbigottito, ho la pelle gelata, il mio corteo ci attornia come in un ring. E la gente inizia a fermarsi.

Il kawajia che parla arabo lascia sempre interdetti; ma è un vantaggio che dura poco. Non sono americano, non mi piace l’America. Ma anche se fossi americano io qui sono un uomo,come te, e sono qui a fare la spesa. E vado a casa quando decido che ci voglio andare,non quando me lo dici tu.Aria pesante…il giovane mi si avvicina,pochi centimetri il suo naso dal mio.Non arretro,stupido ma convinto di doverlo fare,altrimenti non riuscirò a tornare qui con serenità.Mi investe con raffiche di parole incomprensibili, lo sguardo fiammeggiante. Non rispondo,non ho abbastanza parole,ma non abbasso lo sguardo. L’adrenalina è un fiume nelle mie vene, cerco di ingoiare la paura con la saliva,ma ho la bocca arida e la paura resta. La gente guarda incuriosita, ma non mi sembra infervorata, non sento ingiurie levarsi intorno a me.Non mi guardo intorno,devo tenere gli occhi piantati in quelli del facinoroso: assurda situazione,sono un pesce fuor d’acqua ma non mi muovo di un centimetro.Recito come in un film, bleffo come in una partita di poker e mentalmente mando a quel paese Gorge Bush e la sua delinquente politica estera… Mi sento spostare con decisione e mi ritrovo di fronte il vecchio della spada. Non mi dice una parola,ma in un arabo troppo stretto per essere a me comprensibile dice due frasi soltanto al giovane. Il tono è perentorio, non ammette repliche. Il ragazzo abbassa gli occhi, ed altre voci lo raggiungono,questa volta le capisco: sono dalla mia parte.Tutti. Il capannello si dissolve, l’iroso si allontana ma non voglio un nemico.

Lo raggiungo, gli porgo un’altra volta la mano. La accetta : il tè sancisce la pace, italiano tamam, l’adrenalina scompare, mi accorgo di nuovo del battere del mio cuore,mi ero scordato di averlo…La rassicurante pressione del mio sikkijn in tasca non è che un placebo: non credo saprei usarlo. La mia auto trabocca di viveri,posso ripartire, rientrare in deserto.

Mi accoccolo ancora un attimo all’ombra del porticato, mi accendo la mia Bringi e guardo il film del mio quotidiano scorrermi davanti. Il ticchettìo della macchina da cucire di Ibhraim è musica di sottofondo. Riparto, nella polvere. L’ultimo grido “kawajia” mi raggiunge,come un saluto, mentre le mie ruote mi riportano nel Nulla. Fa un caldo atroce e c’è un puzzo di cipolle irresistibile nell’abitacolo,ma chi se ne frega: sono in Africa e ci sto vivendo; e mentre il muso rosso del Toy si impenna sulla prima piccola duna non ho più pensieri, non ho più anima…sono soltanto passione.

Ed ancora una volta la sento, la respiro la sabbia, questa sabbia che è in me.

RoboGabr’Aoun

 

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