By Nicola Ferrulli
Originally Posted Tuesday, January 9, 2001
ETIOPIA
VIAGGIO ALLE ORIGINI DELLO STEREOTIPO
(22/12/00 – 05/01/01)
a cura di Nicola Ferrulli
L’Etiopia, Addis Abeba (Addisbabà, come dicono i locali): si pensa subito al Leone di Giuda, a Menelik, all’A.O.I., alla stele di Axum, al re Salomone; recentemente alla guerra che l’ha vista opposta all’Eritrea. La s’immagina, questo sì, in Africa ma lì quasi per caso e comunque mai com’è.
Una sorpresa e qualche risposta sull’origine degli stereotipi che circolano liberamente sull’Africa.
Addis Ababa (“il nuovo fiore” in lingua locale) ci accoglie alle 7,30 di un mattino festivo di sabato 23 dicembre con una giornata di sole, di quel sole africano che non ti tradisce, e di cielo azzurro, che di notte si trapunta come in nessun’altra parte al mondo.
La città è adagiata, anzi distesa, anzi sparsa a 2.500 metri d’altezza.
Prendiamo alloggio all’Hotel Meridien, sulla strada che collega l’aeroporto con il centro della città.
L’hotel non è male e comunque meglio della maggior parte di sedicenti hotel che infestano l’Africa.
Usciamo, facciamo un giro per la città.
Facciamo una visita di cortesia a Lucy, che riposa all’Ethiopian National Museum: e come si fa a non andare a trovarla visto che sembra essere stata la nostra più antica primogenitrice?.
Gli etiopi la chiamano DINKENESH – “tu sei bellissima”: ed hanno ragione perché quegli ossicini minuti ti riportano indietro nel tempo e, se ci pensi un po’, rischi anche di commuoverti.
Eppoi? Basta, in Addis non c’è altro.
E allora pensiamo di andare a mangiare: prima o poi bisogna pur farlo.
Andiamo in una trattoria locale e qui, per tutti, ordiniamo la ‘NGERA.
Avete presente quella sottile sfoglia di gommapiuma che riveste i vostri preziosi regalini – tipo Swarowsky – che volete proteggere dagli urti? Ecco: la ‘ngera è una sfoglia di pasta di miglio molto simile ma un po’ più spessa e di un color grigio spento.
Riveste l’interno del gran piatto da portata, da cui tutti dovranno attingere, che contiene, al centro, mucchietti di saporita carne di montone o di bue, circondata da salsine multicolori, ma tutte tremendamente piccanti.
Le buone maniere del luogo insegnano che questo piatto vada mangiato rigorosamente con le mani. Staccate con tre dita un pezzo di ‘ngera, tanto per intenderci quella che sembra una sfoglia di gommapiuma, fatene un piccolo fazzoletto, poggiatelo delicatamente sui pezzettini di carne e poi, stringendo con forza i quattro polpastrelli, a cui avrete avuto l’accortezza di opporre l’ultimo dito della vostra mano, il pollice, fate in modo di pescare uno o più pezzettini di carne, imbevetelo in una o più salsine e, finalmente, portate il tutto alla bocca.
Ripetere l’operazione fino a sazietà.
Sembra difficile ma non lo è; vi si oppongono, però, atavici tabù che riaffiorano ed a cui bisogna strenuamente opporsi: quante volte da bambini c’è stato, infatti, detto che non bisogna mangiare con le mani?
Il giro per la città ci fa conoscere qualche bottega antiquaria e l’informazione ce la teniamo per il ritorno.
Il resto è noia: è arrivato il momento di partire.
Partiamo alle 8 di una splendida mattinata di vigilia di Natale, dopo aver caricato viveri acqua materassini tende e carburante: destinazione il Lago Ziway. Utilizziamo un Toyota fuoristrada Land Cruiser, mod. HZJ80L del 1996, versione africana, di 4146 cc di cilindrata, alimentato a gasolio.
Si percorre una bella strada asfaltata costeggiata da zeribe, direzione Awasa.
Come lungo la maggior parte delle strade africane, urbane ed extraurbane, uomini, donne, bambini ed animali, le percorrono in entrambi i sensi. E in nessun altro posto la gente è più felice di incontrarti come in Africa: ti saluta, ti sorride, ti si mostra amica, anche se portano enormi pesi sulle spalle, anche se grondano di sudore per il sole cocente.
In nessun altro posto, insomma, donne e bambini, sono più disposti a sorriderti e gli uomini, a rispondere al saluto.
Cataste di meloni rossi in vendita, a destra ed a sinistra, e foglie di Kat, che è un leggero allucinogeno, pure queste liberamente offerte in vendita.
Ed ancora, lungo la strada cataste di legname e cesti intrecciati.
Si arriva alla Zona dei laghi Abijatta, Shalla Langano, il primo non balneabile per la presenza di un parassita, la bilharzia, presente peraltro in tutti gli altri laghi etiopi. Sono tutti all’interno delle scarpate rocciose della Rift Valley, relitti fossili del Mar Rosso che invase questa cicatrice nella terra formatasi durante l’Oligocene 35 milioni di anni fa, che si eleva fino a 3000 metri e si estende per 6000 Km dalla Siria al Mozambico.
E’ una zona abitata dagli Oromo, l’etnia più numerosa dell’Etiopia, costituendone quasi il 50% dell’intera popolazione di 50 milioni di abitanti, oltre che il gruppo linguistico più numeroso.
Si prosegue per il lago Awasa, abitato dai Sidamo: bello.
Pellicani svassi cormorani marabù aironi cicogne ibis fenicotteri rosa anatre ed oche popolano tutti questi laghi, indisturbati, stabilmente. Ma non è questo lo scopo primario del nostro viaggio: abbiamo fretta di ripartire per raggiungere la terra dei Borana, quella dei Mursi, dei Galeb, degli Hamer.
Ripartiamo il giorno di Natale alle 8,30, dopo aver fatto sosta ad Awasa ed aver festeggiato con un Bauli, appositamente portato dall’Italia.
La destinazione è Yavello, la capitale del popolo Borana.
La strada asfaltata è quella che tagliando da Nord a Sud l’intero Paese, passando per Addis Ababa, finisce in Kenya: attraversa una terra rosso-scura, del colore del caffè tostato.
Tutt’intorno, un vero paradiso di colori e fitta vegetazione fatta di euforbiacee gigantesche, e piantagioni di caffè, di avogado e bananeti, di canna da zucchero ed ensete, il falso banano, dal cui tronco si ricava una farina commestibile.
Di tanto in tanto, qualche posto volante di controllo sulle merci trasportate.
Noi non abbiamo problemi e passiamo liberamente.
E’ però necessario guidare con molta prudenza perché asini, pecore, mucche e capre attraversano, di tanto in tanto e con incurante indolenza, la strada. E sui bordi, sempre, gente che va e gente che viene.
Prevalentemente sono donne e bambini che scortano l’asinello carico di farina o di legna, di ritorno dal mercato o che lì vi si recano, portando a spalla carichi di legna da vendere.
Proseguendo, la strada sale e ci si ritrova su di un piatto altopiano da cui si domina un ampio panorama fatto di cime e di valli interamente e fittamente ricoperte di vegetazione di alto fusto.
Attraversando un piccolo centro abitato, abbiamo un piccolo esempio di sinergia africana: una pelle di vacca è inchiodata al terreno ed alcuni avvoltoi aiutano l’uomo a ripulirla di ogni più piccolo residuo di carne, perché poi la si possa usare per farne abiti.
La strada è un saliscendi continuo; sui bordi, alcune donne imballano in foglie di Ensete la farina che dal tronco di quello stesso albero si ricava. E’ destinato ad Awasa, dove verrà ulteriormente raffinata e, quindi, commercializzata.
Si arriva a Dilla e si prosegue per Wenago su una bella strada, frutto della cooperazione israeliana. Attraversiamo Agere Maryam e compaiono i grar, i grandi alberi ad ombrello della savana.
La strada da Agere Maryam a Finchawé ridiventa fittamente butterata di brutte buche. Stranamente deserta, nessuno la costeggia, scomparsi tutti: segno che non ci sono mercati raggiungibili a piedi.
Dal terreno incominciano ad elevarsi enormi termitai simili a sottili stalagmiti di terra che si elevano fino a 3 metri d’altezza e che, d’ora in avanti, ci accompagneranno, più o meno fittamente diffusi, per tutto il sud. Siamo ormai vicini a Yavello, nel territorio abitato dal popolo Borana.
Gruppo Borana
“I Borana – scrive M. Bassi [1]- costituiscono un caso etnografico peculiare per l’alto numero di studi a loro dedicati…”.
Ciò che ha reso i Borana oggetto di studio da parte di molti studiosi inglesi, francesi, tedeschi, oltre che italiani, è la loro organizzazione politica incentrata sul “sistema gada“.
Si tratta di un sistema di classi generazionali che si susseguono in successione e che, a ciascuna d’esse, attribuisce un grado, all’interno della società, sempre più elevato. Queste promozioni avvengono ad intervalli regolari di 8 anni.
Alla classe che occupa il grado “gada”, vengono attribuite prerogative particolari e responsabilità nei confronti dell’intera etnia.
Si arriva a Yavello nel tardo pomeriggio; si fa il campo, si cena ed alle 8 di sera, si va a letto.
26 di gennaio – martedì – S. Stefano
Oggi sono previste una visita al “cratere” di El Sod, e, sulla strada, a Dubuluk, una visita ai “pozzi cantanti”: perché “cantanti”, nessuno ha saputo spiegarcelo. Nel pomeriggio faremo una visita ai Borana.
Da Yavello imbocchiamo la strada che porta a Moyale, ai confini con il Kenya. L’ambiente circostante è quello della savana, formato da acacie, da piante di grar e da vegetazione arbustiva.
Percorriamo un ampio altopiano, delimitato a sud da una catena montuosa.
La fauna è costituita da babbuini, faraone selvatiche e dik dik che, velocissimi e flessuosi, sempre in coppia, continuano a tagliarci la strada a gran salti.
Di tanto in tanto si incontra qualche Borana che ci viene incontro a passo veloce.
Tra Dubuluk e Mega, si prende una pista poco visibile, a sinistra, che porta al “cratere” di El Sod. Viene definito “cratere” ma sembra essere piuttosto uno sprofondamento del terreno, come un soufflé venuto male, o un enorme voragine creata da un gigantesco meteorite, visto che le rocce che lo costituiscono non sono certo vulcaniche.
La particolarità di El Sod sta nel fatto che nel fondo di quest’ampia depressione, ad oltre cento metri di dislivello, una pozza d’acqua perfettamente rotonda, di qualche centinaio di metri di diametro, più o meno estesa secondo la stagione, nera come la pece, contiene acqua salata da cui si estraggono continuamente blocchi di sale.
Alcuni uomini, completamente nudi, vi s’immergono per estrarre quei blocchi di sale nero: in parte destinato agli animali ed il resto, il migliore, all’alimentazione umana.
E’ una fatica immane cui si sottopongono gli uomini che lo prelevano per la propria famiglia, in ragione di 20 carichi d’asino per ciascuno. Fatica: ma ci chiediamo, che cosa in Africa non costa fatica?
Sul fondo, sulle rive del lago, nonostante si sia a dicembre, il caldo è un “pile” asfissiante di cui non riesci a liberarti.
Risalire in superficie, non sarà facile.
I “pozzi cantanti” di Dubuluk, invece, sulla via del ritorno, sono un’opra d’alta ingegneria, tenendo conto dei mezzi a disposizione, che consentono l’abbeverata a circa 1.000 bovini per pozzo.
Costruiti dai Borana, costituiscono una rete di una quarantina di gruppi di pozzi profondi fino a 40 metri.
Sotto l’abbeveratoio vi sono una serie di bacini intermedi di accumulazione e, al di sotto, si trova il foro, largo da 1 a 2 metri.
L’estrazione dell’acqua avviene attraverso una catena umana che, a mo’ di ascensore, di bacino in bacino, fa risalire l’acqua fino all’abbeveratoio.
Si è stimato che la velocità di estrazione è fra gli 80 ed i 150 litri al minuto, con punte di 340 litri.[2]
Nel pomeriggio, visitiamo un paio di villaggi Borana.
Essi si considerano originari della zona di Liban e Dirre, nel sud-est dell’Etiopia, da cui si sono espansi nei secoli scorsi verso il sud e, quindi, verso il Kenya.
La grande maggioranza dei Borana, popolo prevalentemente di allevatori, si riconosce nei valori religiosi tradizionali, rifiutando sia l’identità cristiana che mussulmana.[3]
Il primo dei due villaggi visitati, il più grande dei due, è formato da capanne rotonde, del diametro che va da 5 a 10 metri, chiuse da un tetto conico fatto di un impasto compatto di terra.
L’interno è suddiviso in tre parti; ¼ dell’intera superficie è occupata dall’ingresso, ¼ dal focolare e la metà di fondo dalla zona riservata alla notte.
Ospitalissimi, soprattutto le donne ed i bambini, accolgono i “Farenji” [4] con un misto di rispetto e di familiarità.
Uomini se ne vedono pochissimi, essendo tutti sparsi sul territorio al seguito dei loro greggi di capre o zebù.
Le donne offrono in vendita di tutto: dalla classica “calebasse”, ai contenitori di burro, questi ultimi fatti in svariati materiali e forme, dal corno al legno.
Qualcuna porge anche un suo neonato, nella speranza che l’uomo bianco riesca a trovare un rimedio al malanno che lo affligge.
Si tratta in genere di ferite infettate, o di mali derivanti dai parassiti immessi nel corpo attraverso l’acqua bevuta.
Ovviamente si fa ciò che si può, attingendo alla piccola farmacia di scorta.
27 di dicembre mercoledì
La mattina, disfatto il campo, caricato tutto sul Toyota, dopo aver fatto colazione a base di caffè e latte in polvere, si parte per i Konso, altra etnia della zona.
I Konso sono un popolo prevalentemente di agricoltori e lungo la strada abbiamo qualche evidente segno della loro maestria.
Le colline, mano a mano che ci si avvicina al loro territorio, incominciano ad essere tutte meticolosamente terrazzate, coltivate a sorgo, granturco miglio e qualche girasole.
Le piante di sorgo e miglio, già in avanzata fase di maturazione, hanno le cime degli steli legate a ciuffi di 5/6, perché, tenendosi fra di loro, non abbiano a piegarsi sotto il peso delle spighe mature.
Incontriamo alcuni pastori che ingannano il tempo filando il cotone.
Le donne invece provvedono agli approvvigionamenti della famiglia e le incontriamo cariche di sacchi o di legna o d’erba, sotto pesi che vanno fra i 40 ed i 60 Kg.
Piccoli di statura, i Konso sono di pelle più scura di quella dei Borana.
Risalendo la collina, raggiungiamo il villaggio, posto su di un piccolo altopiano.
La struttura urbanistica dei villaggi Konso ricorda quella delle antiche città medioevali, mentre alcune costruzioni ricordano i villaggi Dogon, in Mali.
Stretti viottoli si snodano e annodano in continuazione, in strette curve ed incroci per poi sfociare in piccole piazzette, dove si trovano le cosiddette “case della collettività”, capanne più grandi e senza pareti dove, a differenza dei Togu-Na Dogon, anche le donne possono entrare per riposarsi o solo per ripararsi dal sole e goderne il fresco del suo interno.
Racchiuse in ciascuna di queste “quadre” formate dai vicoli, cinque o sei capanne monofamiliari.
Rotonde, di 5/6 mt. di diametro, hanno le strutture portanti di legno, mentre il tetto, formato da due coni sovrapposti per una migliore protezione dall’acqua, è costruito in “sambelet”, erba a gambo lungo diffusissima nella zona.
Sulla cuspide del tetto è sempre posto un vaso che serve a decorarla e, in quelle più ricche, la sommità è decorata da una gran corona in terracotta.
Alcune capanne sono disposte su due piani, dove, in quello sottostante e senza pareti, trovano posto gli armenti, ed in quello superiore, gli uomini.
La durata di questi tetti è di circa 10 anni, allo scadere dei quali va rifatto.
Ogni capanna ha un suo magazzino, sollevato ad 1 metro da terra da 4 pali, che riproduce in piccolo l’abitazione a cui fa da supporto: è la cosiddetta “casa del sorgo“, dove sono conservate le provviste della famiglia.
Nel villaggio da noi visitato, 10 grandi capanne, sparse nel villaggio, a forma rettangolare e senza pareti, costituiscono, come si è detto, le “case della collettività”.
I famosi pali Konso sono raggruppati in numero di 6/7 presso alcune abitazioni e raffigurano gli antenati protettori.
Intagliati in legno tenero hanno, chi più chi meno, subito le ingiurie del tempo, ma si riesce ancora a coglierne interamente la loro bellezza interiore e la forza originaria.
Pali Konso
Il villaggio è disposto su più piani terrazzati e, verso sud, laddove uno strapiombo impedisce altre costruzioni, è delimitato da un fitto steccato interrotto da un’unica porta d’accesso.
Mentre le donne indossano abbondanti gonne in cotone a balze, gli uomini indossano un panno che li fascia strettamente fino a metà coscia. Le donne usano coprirsi il capo con un semplice fazzoletto, e, indifferentemente, usano coprirsi il seno o tenerlo scoperto.
Alcune donne portano collane di perline colorate che adornano il collo, mentre gli uomini si adornano con collane a più fili che portano sia al collo sia intorno alla testa.
28 di dicembre, giovedì
E’ giorno di trasferimento: la destinazione è il Mago National Park.
Sulla strada ci fermiamo al famoso mercato di Kay After.
il mercato di Kay After
Famoso, al punto che vi confluiscono anche da molto lontano, partendo dai luoghi d’origine molto presto la mattina.
Per essere lì, vestiti con gli abiti tradizionali, per esibirsi, per portarvi ciò di cui dispongono e venderlo e, quindi, comprare ciò di cui abbisognano.
Si muovono i Bena, i Samai, gli Hamer e, sull’ampio piazzale di Kay After, tutti i giovedì, dispongono le loro mercanzie e, in paziente attesa dei compratori, postisi a guardia delle stesse, aspettano che qualcuno gliele acquisti.
E’ tutto un movimento di gente che guarda, che bighellona, che parla, che chiede, che, se trova l’occidentale che glielo chiede, vende volentieri la propria immagine per qualche birr.
Si vende il burro chiuso nel suo apposito contenitore, il the ed il caffè, le cotonine colorate per le donne e le camicie di cotone a righe per gli uomini: le une e gli altri, guardano, provano e comprano, se si va d’accordo sul prezzo e se si hanno i soldi per farlo.
In esposizione ci sono sacchi di farina di miglio bianco e la tinta di colore rosso per i capelli, il sambelet ed i pali per rifare la capanna, le “calebasse” di tutte le forme e dimensioni, i seggiolini lavorati e no.
Soprattutto ci sono loro, uomini e donne, giovani, che, nell’assoluta libertà nel vestito che noi occidentali abbiamo perso, senza che stilisti dettino regole, indossano gli abiti tradizionali fatti di pelle con eleganti cinture di cauri o di stoffa o solamente un paio di pantaloncini e maglietta, magari avuti in regalo da un turista che non sapeva più che farsene.
Oppure, semplicemente, ciò di cui dispongono, magari laceri ma mai sporchi.
Alcune donne esibiscono capigliature trattate con il burro e terra rossa, mentre gli uomini, più vanitosi, dopo ore di paziente lavoro, presentano una capigliatura ordinata in treccine rastra tutte uguali o una pittura corporale che riproduce un paio di attillati pantaloni che si fermano a metà polpaccio di colore bianco a striature verticali ma anche elicoidali o, viceversa, una pittura che simula delle calze che arrivano fino al ginocchio, lasciando nuda la parte superiore.
Come si vede, anche del vestito si può fare a meno, ma la vanità è presente a tutte le latitudini.
Tutti gli uomini portano il loro seggiolino che usano quando sono stanchi, mentre le donne siedono in terra accoccolandosi in un graziosissimo movimento che sembra essere d’implosione nel ventre materno.
E’ ormai mezzogiorno, continuano ad arrivare ragazzi e ragazze, ma noi dobbiamo partire.
La pista che ci aspetta non è delle migliori ed è buona regola affrettarsi a fare il campo, prima che venga notte.
Da Kay After per il Mago Park, passando per Jinka.
29 di dicembre – venerdì
Il Mago National Park si estende per quasi 2.200 Kmq sull’argine del fiume Omo; lo stesso nome identifica oltre il fiume anche una vetta, il monte Mago di 2.528 mt. E’ abitato da una fauna di taglia grande come il rinoceronte nero, l’elefante africano, lo gnu, le giraffe, il babbuino anubis, il gattopardo e la lince, per citare solo i più importanti.
Per chi frequenta i parchi del Kenya, questo parco potrebbe essere considerato, quanto a fauna, il parente povero, ma la vegetazione è la stessa e, forse, la scarsa affluenza turistica e l’inesistenza di strutture ricettive, lo rendono, rispetto a quelli, più genuino.
E’ all’interno di questo parco che vivono i Mursi, famosi perché le loro donne, quale ornamento massimo di bellezza, indossano il piattello labiale.
Donne Mursi con il tipico piattello labiale
Viziati dal turismo etnico, i cui operatori non mancano di far visitare ai loro clienti questo famoso popolo, sono diventati avidi di birr, senza dei quali non consentono che si scattino foto o che si visitino le loro capanne.
Ci assoggettiamo quindi alle loro richieste per portare via qualche immagine della loro vita.
Se ci pensiamo, hanno ragione loro.
Gli uomini presentano sul corpo profonde scarificazioni, indossano un telo che li copre fino a metà coscia, si adornano con collane di perline. Qualcuno adorna il proprio corpo, compreso il sesso, di pitture corporali fatte con un’argilla bianca.
Alcuni, dopo essersi rasati il cranio, la usano per dipingerselo a mo’ di calotta.
A proposito di pittura corporale, però, occorre chiarire che, a differenza di quella praticata da alcuni popoli dell’Amazzonia, come abbiamo visto presso gli Assurinì sulle donne, che è di una perfezione assoluta e di un intreccio geometrico di linee parallele, qui è invece praticata in maniera molto sciatta, quasi mancasse nell’uomo la volontà di adornarsene, ma la usasse al solo scopo di rispettare una tradizione che forse non sente più.
Uomini Mursi
Alcuni di essi, in analogia con quel che fanno le donne con il labbro inferiore, bucano le orecchie e le deformano fino a poter introdurre piattelli che, perché siano più leggeri, sono a loro volta bucati.
Si presentano armati di bastoni o di lance o addirittura di Kalashnikov, che portano sempre con sé, forse ormai solo per un atavico bisogno di poter avere continuamente a portata di mano un’arma di difesa.
Le donne invece, indossano una pelle, alcune bordate di cauri, che cinge loro la vita e che, risalendo, quando risale, copre un seno lasciandone scoperto un altro.
Il piattello labiale che indossano e che ovviamente deforma in maniera irreversibile il labbro bucato non costituisce però il loro unico ornamento.
Usano anche loro, come gli uomini, la pittura corporale.
La usano per coprirsi interamente il volto, come le maschere del carnevale di Venezia o, facendo partire dai seni più linee arrotondate e parallele che risalgono, si dividono, arrivano fino all’omero, per poi farle ridiscendere sulla parte anteriore delle braccia.
Alcune sono completamente rasate, altre si adornano i capelli usando diecine di bossoli di Kalashnikov a mo’ di bigodini, altre ancora usano corna di capra che lasciano pendere ad imitazione degli animali da cui provengono.
In piena savana, guadato un piccolo fiume, troviamo un piccolo ospedale in cui operano alcuni medici tedeschi ed americani.
Ad uno di loro chiediamo qualche indicazione bibliografica sul popolo della zona e ci fa il nome del Dr. David Turnton, inglese che sembra essere un’autorità in materia. Chi avesse informazioni su di lui, è pregato di passarle.
30 di dicembre – sabato
Usciamo dal Mago e ci dirigiamo verso Turmi.
E’ questa l’occasione per passare da Dus e fare una visita ai Karo.
Dus, il più gran villaggio Karo, si trova poco dopo l’uscita dal Mago, sospeso sull’Omo, da non confondere con Gorcso, che è un altro villaggio Karo, ma sulla riva dello stesso fiume.
Dalla spianata del villaggio si gode, dall’alto, una bella vista di un’ansa del fiume di Bottego.
Ci fermiamo fuori del villaggio dove giovani guerrieri devono essere intenti in discussioni molto importanti se, al nostro arrivo, non ci degnano nemmeno di uno sguardo. In compenso veniamo presi d’assalto da donne e bambini, tutti smaniosi di essere immortalati per la misera somma di 1, meglio 2, birr.
E’ un popolo che fa un uso smodato della pittura corporale: è la prima loro caratteristica che si nota.
Gli uomini, che indossano solo un gonnellino in tinta unita o anche a quadroni scozzeseggianti, si dipingono interamente i corpi con una calce bianca: bianco il volto, bianche le gambe; il tronco, sempre bianco di calce, è rigato, come graffiato da quattro ditate che hanno asportato, in orizzontale od in verticale la calce sottostante.
Qualcuno, dopo essersi fatto una spessa calottina di terra che gli copre la sommità del capo, vi ha infisso una piuma.
Impressionante! E comunque a noi hanno fatto pensare alle maschere di Halloween. Meglio le donne.
Usano anche loro pitturarsi, solo il volto, ma l’insieme, essendo più misurato, risulta essere più gradevole.
Belli gli abiti femminili. In pelle, con i bordi sagomati dai cauri, composti da una pettorina, che avrebbe la funzione di coprire il seno ma che serve soprattutto a portarsi dietro il figlioletto da allattare, e da due pelli che scendono a coprire, incrociandosi sui fianchi.
Come le Mursi, tendono ad adornare, per bellezza, il labbro inferiore.
A differenza delle Mursi, però, le Karo s’infilzano il labbro inferiore con tutto ciò che trovano: spine di acacia, chiodi, viti ed anche con piccoli manufatti a forma di anello che però portano al labbro come le occidentali portano alle orecchie.
I maschietti Karo, ed è l’unica etnia che abbiamo trovato, seguendo l’esempio delle loro donne, fanno altrettanto.
Le scarificazioni, pesantemente eseguite sullo sterno con una serie di 8 linee orizzontali di 12 punti ciascuna, l’abbiamo vista praticata solamente sulle donne.
danza Hamer
Se si pensa che si tratta di quasi cento ferite che s’infliggono per abbellirsi, dobbiamo pensare che le nostre donne, che tanto critichiamo, alla fin fine, alla loro bellezza dedicano solamente del tempo ma non è che, su quell’altare, facciano poi tanti sacrifici.
Sul senso del pudore presente nelle tribù visitate, forse, conviene spendere qualche parola.
Intanto è, in qualche maniera, presente nelle donne, ma limitatamente alle parti più intime, che tendono a coprire strenuamente; il seno non lo ritengono un elemento sconveniente da mostrare.
Abbiamo tentato qualche esperimento per vedere fino a che punto quanto stiamo dicendo fosse vero e vi assicuro che nessuna ha permesso di verificare se effettivamente “sotto il vestito, niente”.
Gli uomini, da questo punto di vista, sono molto più liberi: non esitano a mostrarsi completamente nudi ed è evidente che, in ciò, non trovano alcunché di sconveniente.
Salutiamo i Karo e riprendiamo il nostro pellegrinaggio.
A mano a mano che ci addentriamo, la pista diventa sempre più difficile.
Poco battuta, risulta scarsamente segnata, e così la perdiamo un paio di volte, è inoltre cosparsa di grossi massi e profonde buche che richiedono una guida molto lenta, oltre che molto attenta.
Si arriva a Turmi nel tardo pomeriggio, beviamo una birra calda nell’unico chiosco esistente e quindi ci si addentra nella savana per prepararsi per la notte.
Siamo nella zona degli Hamer e facciamo il campo sotto la fitta vegetazione, lungo il bordo di un fiume in secca, nelle vicinanze di una pompa che eroga acqua oltre che da bere anche per lavarci.
E’ qui che decidiamo di passare S. Silvestro e di festeggiare, quindi, l’ultimo dell’anno.
Si cena e, alla solita ora, un’ora e mezza dopo il calare del buio, e cioè alle 20, si va a letto.
Questa notte ho fatto un sogno che risulterà essere premonitore e che, stranamente, mi è rimasto impresso.
Ero a casa.
Mia moglie, rientrando dall’aver fatto le spese, mi annuncia tutta trionfante di avermi comprato un regalo.
Fra noi, devo dire, capita rarissimamente di scambiarci regali e, perciò, questo suo annuncio mi ha molto incuriosito.
Sapendo – mi dice – che a te piace fare i lavori manuali, ti ho comprato…
due saldatrici.
Non sapevo se ridere o incazzarmi: oltre a non sapere che farmene, visto che non saprei neanche usarle ma, mi chiedevo, …perché due? Due – è stata la risposta – perché erano in svendita: un affare.
Questa risposta mi ha mandato in bestia, tanto da farmi svegliare e portarmi a considerare che la prima cosa che avrei fatto, rientrando in Italia, sarebbe stato di andare in banca per togliere la firma di mia moglie dal mio conto corrente bancario.
Qualche giorno dopo i saldatori sarebbero stati invece utili!
31 di dicembre – domenica
La mattina veniamo svegliati dalle Hamer che vengono a farci visita.
Gli Hamer meriterebbero un viaggio solo per loro.
Le donne, tutte uguali come conformazione fisica, non molto alte, ma tutte dotate di un innato sex appeal che deriva loro dai corpi, dalle acconciature, dal modo con cui si muovono, da come ti guardano.
Vedendo loro, si capisce perché molti “conquistatori” italiani sono rimasti, conquistati, in Etiopia e si capiscono anche le parole di quella canzone che faceva riferimento alla bellezza delle faccette nere Abissine, che è un altro dei tanti stereotipi consolidati nel tempo, anche se, ora, un po’ in disuso.
Donna Hamer con bambino
E’ probabilmente perché attratte dalla bellezza di queste popolazioni, oltre alla circostanza che furono proprio queste donne, le “uizerò”, che salvarono gli italiani dai loro stessi uomini, quando gli Inglesi, conquistata l’Abissinia, diedero ai locali mano libera di agire contro gli italiani sconfitti, che gli Italiani, e tanti, sono rimasti lì per formarsi una famiglia.[5]
Gli uomini, più longilinei rispetto alle loro donne, anche loro, hanno corpi asciutti e perfetti.
Di carnagione color mogano, vivono sparsi sul territorio e ciascuna famiglia occupa uno spazio che provvede a recintare fittamente con rami spinosi.
Dota quello spazio di una ONU (capanna) utilizzando degli AGA (pali) che ricopre, durante la stagione delle piogge con la SHUDI (erba tagliata).
I rapporti familiari si incentrano sul GHESHA’ (il marito) e la GHESHENU’ (la moglie) che diventano IMBA (padre) e INDU (madre) allorchè nascono i NASI o NANO(figli).[6]
Le donne intrecciano i capelli in sottili treccine che poi impastano con terra rossa, forse bauxite, fino a formarne un caschetto che incornicia, a scalare, il volto.
L’abbigliamento è composto da una pettorina triangolare (CASHI) in pelle di bovino, e da un gonnellino sempre della stessa pelle (QUARBA’), composto da due pezzi: uno più piccolo a triangolo che copre la parte anteriore, l’altro, più grande e sempre di forma triangolare, copre la parte posteriore.
Una serie di ornamenti cingolo la testa, il collo, le braccia, la vita e le gambe.[7]
Alcune di loro hanno profonde scarificazioni che sono provocate dal fratello che, nell’abbandonare la casa paterna per formare una sua famiglia, festeggia l’avvenimento e dimostra la sua gioia infliggendo alle sorelle quelle profonde ferite, che, a loro volta, sono felici di ricevere, dimostrando così di condividere la gioia del fratello.[8]
uomo Hamer
Gli uomini si adornano con collanine multicolori che portano al collo mentre, in occasione di feste e danze, acconciano i loro capelli in maniera da formare una raggiera che attraversa la testa da orecchio ad orecchio.
Indossano o una fascia che li copre fino a metà coscia o un telo stretto sui fianchi.
Ospitalissimi, non fanno fatica ad aprirsi all’ospite e sono felici di poter spiegare la loro cultura, se gliene si dà l’occasione.
E’ S. Silvestro e domani sarà un nuovo Capodanno, quello del 2001, il 1° giorno del terzo millennio.
Riusciamo a tirare fino alle 21 e 30, fatta fuori una bottiglia di vino, caldo nonostante l’avessimo tenuto in acqua, ci facciamo gli auguri e si va con piacere in tenda a trarre le conclusioni su ciò che si è visto durante la giornata.
1° di Gennaio – lunedì
Ci rechiamo al tanto decantato mercato di Turmi.
Non è molto diverso da quello che avevamo visto a Kay After; all’incirca ci sono le stesse merci, ma è l’occasione per ammirare i vestiti della festa che indossano gli Hamer, che vi confluiscono, a mano a mano che ci si avvicina al mezzogiorno, sempre più numerosi.
In Africa trionfa il colore. I suoi uomini e le sue donne li abbinano senza tabù, il giallo con il verde, il blù con il nero, il grigio con il celeste; esattamente come fa la natura che del parere degli stilisti se ne frega.
Nel primo pomeriggio, tolte le tende e rifatto il carico, si parte per Omo Rate, quattro case sul fiume OMO, base di partenza per poi fare il balzo verso le sponde del lago Turkana.
La pista è delle peggiori, continuamente attraversata da guadi di fiumi che in questa stagione sono in secca.
La ricchezza e la diffusione dei corsi d’acqua di questa terra può diventare una maledizione in una regione in cui i ponti per attraversarli sono o scarsi o addirittura inesistenti, con la conseguenza che durante la stagione delle piogge l’intera rete viaria della zona resta bloccata.
Il fiume OMO non fa eccezione e le due rive si fronteggiano ma nessun ponte, nessuna chiatta le unisce: semplicemente non c’è modo di attraversarlo.
E quindi, chi volesse andare a Metù o a Maji o a visitare i Surma, che sono stanziati al confine ovest con il Sudan, deve risalire fino Jima, per poi ridiscendere.
Oppure, farne a meno.
Rischi d’insabbiamenti e di guasti meccanici, consigliano maggior prudenza.
Il mezzo, comunque, sembra resistere egregiamente ai violenti colpi che lo squassano fin dentro le sue viscere.
Alla fine del viaggio avremo percorso 2.550 Km, di cui circa un migliaio su asfalto e consumato circa 300 litri di carburante.
Si cena a lume di candela ed alle 8 di sera, quando ormai il buio è calato da oltre un’ora, si è a letto.
Qui, sulla sponda sinistra dell’Omo, l’aria fine degli altipiani non c’è più.
Una spessa coltre di afa toglie il respiro fino alle 4 del mattino, per riprendere solo un paio d’ore dopo.
Dormire in tenda, anche se solo chiusa dalla zanzariera, non sarà facile; non un alito di vento, a spezzare l’oppressione della calda aria stagnante.
2 di Gennaio – martedì
Si parte alle 7,30 per cercare di sfruttare le ore meno calde del mattino: destinazione lago TURKANA (ex Lago Rodolfo).
Distante 65 Km, richiede più di due ore di attraversamento.
Posto dimenticato ai confini del Paese, è luogo di rifugio di sbandati e contrabbandieri che attraversano la frontiera con il Kenya con i loro asinelli e che potrebbero formare oggetto d’incontri non particolarmente piacevoli.
In questa stagione di secca il lago è interamente in territorio Kenyota, mentre durante la stagione delle piogge invade di qualche centinaio di metri il territorio Etiope.
In questa stagione occorre perciò sconfinare in Kenya per raggiungerlo ed il posto di polizia di Omo Rate ci mette a disposizione un suo poliziotto che ci scorterà sia per motivi di sicurezza sia per evitare problemi che deriverebbero dall’incontro con poliziotti di frontiera del Paese vicino.
L’avvicinamento al lago avviene in un paesaggio il cui processo di desertificazione in atto avanza velocemente: radi ciuffi di erba secca ne costituiscono la vegetazione, mentre il terreno, di un intenso color cenere, è cosparso di ossa calcinate dal sole.
Arriviamo alle sponde del lago dopo averne percorso, per una diecina di Km, ciò che fino ad una trentina di anni fa ne costituiva il fondo.
L’acqua, densa, è di un colore scuro senza riflessi, completamente diverso dal color smeraldo che lo stesso lago assume in Kenya.
Infestata da zanzare, se ne sconsiglia l’accampamento.
Il paesaggio dà, intenso, un senso di disperata desolazione, incutendo una strana sensazione d’inquietudine nel visitatore, un disagio da finis terrae, quasi un incombente presagio di morte.
I GALEB, che ne abitano le rive, anche loro, se ne tengono a distanza.
A 300 metri dalla sua riva, un missionario medico di Los Angeles, che ci vive dal 1989, ha costruito una piccola casa cui tre capanne d’indigeni Galeb si sono aggregate.
I villaggi Galeb sono più all’interno: provvisori, destinati ad essere smantellati e ricostruiti ancor più all’interno, in occasione delle prime piogge.
Ospitano questo popolo la cui cultura non traspare in maniera così evidente come negli altri popoli che abitano il Sud Etiope.
Popolo di pastori, convivono in promiscuità con asini, pecore, usi a vivere, in quella terra desertica, dello stretto necessario.
Le capre si sono talmente adattate all’ambiente da crescere lo stretto indispensabile, cosicché sono di dimensioni ridotte, delle dimensioni di un dik-dik.
Anche le Galeb usano colorare la testa con la terra rossa, mentre i loro capelli costituiscono i fili in cui inanellano, come perle, palline della stessa terra.
Indossano un semplice telo che, cingendo i fianchi, scende perpendicolarmente a coprire le gambe.
Sono longilinee, di un colore nero ebano molto intenso.
2 ragazze Galeb
Gli uomini, longilinei anche loro, hanno la testa rasata, salvo, sulla sommità del capo, un ciuffo di capelli a spazzola, sagomato a forma di croce latina.
Indossano un telo, sufficiente a coprirli fino alle ginocchia.
Le loro abitazioni risentono della provvisorietà essendo spoglie, raffazzonate quasi, e tirate su alla meno peggio, giusto per delimitare un minimo di intimità.
Il villaggio è sporco ed infestato da ogni specie d’insetti.
Veniamo comunque accolti bene, con segnali d’amicizia, da parte di qualcuno, di assoluto disinteresse, da parte di altri.
Al ritorno, la nostra eroica Toyota, per un improvviso ed imprevedibile affossamento del terreno, rompe il supporto superiore dell’ammortizzatore: si prosegue in ogni caso, nonostante il rumore, ma con maggiore prudenza, cercando di evitare ulteriori e sempre possibili contraccolpi, che potrebbero essere fatali per la prosecuzione del viaggio.
Ci dirigiamo allora verso Turmi, dove il pezzo potrà essere saldato, con una provvisoria manutenzione.
E, a questo punto, mi riaffiora il sogno di qualche notte fa.
3 di Gennaio – mercoledì
Sulla strada del ritorno, che ci riporta verso Konso, abbiamo modo di visitare un villaggio ERBORE e fermarci con loro per circa un’ora.
Le loro capanne si distinguono da quelle delle altre etnie per le dimensioni e per la ricchezza che denotano.
Sempre a tetto conico, ricoperte da foglie palmate e rami, sono precedute da un ingresso a pianta rettangolare di circa 3 mt.
di profondità per 4 di lunghezza che, oltre a rendere l’ambiente interno più fresco, amplia gli spazi, consentendo così di dislocare all’esterno della capanna il focolare.
Completa l’abitazione un magazzino in terra battuta, a forma cilindrica, di circa 1 mt.
di diametro, sollevato ad un metro da terra, che si chiude a cono, aperto per consentirne l’accesso nel suo interno.
I loro abiti non presentano un particolare interesse, avendo ormai adottato fogge vagamente occidentalizzanti.
Si tratta di un popolo ricco, che abita una splendida piana verdeggiante dove i loro greggi di zebù e pecore pascolano a sazietà.
Coltivano il cotone che, proprio in questo periodo, viene raccolto in grandi quantità e messo a disposizione dei camion che poi lo caricheranno per essere venduto in parte per soddisfare il mercato locale ed in parte avviato all’esportazione.
4 di Gennaio– giovedì
Ma perché mai si viaggia – si chiedeva Chatwin – e, per farlo, ci si sottopone a disagi d’ogni genere quando si potrebbe stare tranquillamente in poltrona a leggere un bel libro? Se lo chiedeva Chatwin e, più volte, se lo chiedono tutti i viaggiatori.
10, 100 risposte, forse tutte vere o, forse, tutte false.
Da Konso ad Arba Minch, la pista non è delle peggiori, anzi è buona, buona come può essere una pista africana.
Ancora miglio ed ancora sorgo, ma queste spighe sono oscenamente pregne di chicchi maturi.
Sciami d’uccelli bianchi ci tagliano la strada.
Si guadano i resti di un fiume, nelle cui residue pozzanghere alcune donne si lavano, poi se ne guada un altro, ma questo è già secco.
Incontriamo, sempre più fitti i GARDULLA GHIDOLLE, che abitano questa zona.
Indossano, ormai, pratici abiti occidentali, sempre però portati all’Africana e cioè sempre un po’ laceri, un po’ più grandi di misura e sempre spaiati.
La pista che percorriamo è importante perché da Konso, da una parte va a Turmi e dall’altra a Yavello.
E’, infatti, trafficata di camion che ogni tanto incrociamo e che si recano a caricare il cotone degli ERBORE.
Raramente, qualche mezzo pubblico, le cui tariffe sono considerate proibitive per la maggior parte degli abitanti della zona.
E, naturalmente, è trafficata da uomini, lancia in spalla, con i loro greggi o le loro mandrie, ricche di capi, o da donne che vanno al mercato di GUMADE MASORA’, aperto sotto le acacie, in aperta campagna.
Costeggiamo a lungo il lago Chamo in una distesa di bananeti dai frutti grassi e saporiti, abitata dai GOMO.
Sempre più numerose, le mandrie invadono la pista, indolenti ed assonnate, costringendo i mandriani a sospingerle sui bordi ma, sia ben chiaro, a parità di diritti con gli automobilisti, ché l’automezzo non ha certo più diritti di loro di invadere la sede stradale.
E allora ci si rassegna a rallentare, fermare, ripartire, per poi rifermarsi al successivo ostacolo, aspettando che si decidano a scansarsi ed a farci passare.
Il sole è scomparso sotto una nuvolaglia nera.
La pista è ora butterata da buche ed un ponte di ferro consente il guado del fiume sottostante, divenuto ormai un terreno paludoso mentre, in altro punto, franata la strada, non c’è altra alternativa per proseguire che invadere il letto del fiume e percorrerlo fino a che non si ritrova la strada interrotta.
E, finalmente, dopo dieci giorni di campo, una stanza d’albergo al Bekele Molla Hotel di Arba Minch.
Ha il suo bagno, la sua doccia, il suo lavabo e, naturalmente, la stanza da letto.
Il bagno è di un color verde pistacchio, lo stesso colore della parete cui sono addossati i letti.
La parete di fronte è dello stesso colore, ma per una sola metà, l’altra è di un color ocra, dello stesso colore delle restanti altre due.
Per dire com’è fatta l’Africa: deve essere finito il color pistacchio e l’hanno piantata là.
Il soffitto, in compenso è tutto bianco a cassettoni.
C’è poi una sedia ed un tavolino di formica e sul tavolino, dono dell’hotel, un pacchetto di tre preservativi che, scopriamo, hanno un prezzo politico – 0,25 birr pari a 65 lire – segno che, da quel punto di vista, le cose non vanno molto bene in Etiopia; c’è poi, infisso alla parete, uno di quegli attaccapanni in ferro a tre pomelli che forse non esistono più nemmeno nelle più sperdute baite di montagna.
L’essenziale, insomma, c’è.
L’hotel è posizionato in maniera eccellente, a balcone sulla scarpata che domina il parco e frequentato dai babbuini che si mescolano alla gente ormai senza averne più timore.
Oggi pomeriggio visiteremo il Nechisar National Park. Per chi avesse interessi di tipo naturalistico il Nechisar National Park, di 514 Kmq., di cui 68 sono coperti d’acqua per la presenza dei laghi Chamo e Abaya, dà ospitalità a quelle specie di animali che, altrimenti sarebbero già estinte.
Nel Nech = bianco e Sar = erba, abbondano zebre gazzelle facoceri cervi selvatici antilopi babbuini, mentre nelle acque dei suoi laghi si possono vedere coccodrilli ed ippopotami che si godono la frescura dell’acqua mentre l’aria intorno raggiunge in questa stagione i 35°C.
La pista che l’attraversa è da brivido, dovendo superare su un fondo instabile pendenze del 20 – 25%, con lo strapiombo che porta direttamente nelle fauci dei sottostanti coccodrilli. Credo però che ne valga la pena.
Il viaggio può dirsi concluso.
Siamo partiti per incontrare il Leone di Giuda, l’A.O.I., la stele di Axum ed il Re Salomone e siamo ritornati avendo scoperto l’origine degli stereotipi sull’Africa del tipo “bella Abissina”, del “selvaggio con l’anello al naso” e degli “abitatori delle capanne: ma come faranno, come faranno”.
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Per chi fosse interessato, si forniscono gli indirizzi di alcune agenzie locali che organizzano viaggi nella zona.
Noi abbiamo usato la
GREEN LAND di Addis Abbaba di Dario Morello – tel.
00251-1-507815,517972,625345; fax 00251-1-615408,507815; P.O.BOX 19018;
e-mail etgreend@yahoo.com;
cè poi la Red Jackal indirizzo
e-mail: redjackal@telecom.net.et;
fax 251.1.553467;
la OROORO fax 251.1.551277
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Note
[1] Marco Bassi – I BORANA Una società assembleare dell’Etiopia – Franco Angeli Ed. 1996
[2] M.Bassi – op. cit. pag, 21
[3] M.Bassi – op. cit. pag. 23
[4] Questo termine, diffuso in tutta la zona per identificare gli europei o, più in generale, i bianchi potrebbe derivare o da french, francese in inglese o, come rileva Orizio a pag 37 del suo libro Tribù Bianche Perdute Ed.
Laterza, dal termine persiano “Finanghee” o “firangi”, temine che viene usato anche a Ceylon per indicare gli europei.
[5] Per un approfondimento cfr. Tommaso Besozzi – IL SOGNO DEL SETTIMO VIAGGIO – Fazi Editore
[6] Gli altri rapporti di parentela sono la CANNU (la sorella), i MISHANU (i fratelli), l’ISHMI (la cognata), l’EICHE (il nonno), l’ACU (il bisnonno), l’INDU (la suocera), gli INASA (sono i nipoti sia di nonni che di zii).
[7] Partendo dal collo ci sono la SHOCUMPA’, che è una collana formata da minuscoli ossicini, la SHICHINI’, che è una collana formata di bacche, l’ISENTE’ ed il DOMBOLO’, che sono anelli in alluminio o ferro bianco che possono essere indossati solamente dalle donne sposate. Se l’ISENTE’ ha poi una protuberanza (il BIGUERE’), sta ad indicare che chi l’indossa è una prima moglie; in sua mancanza si è di fronte ad una seconda moglie.
Le ragazze da marito, invece si cingono il capo con la BALA, che è una striscia di cuoio con due alette che cadono all’altezza delle orecchie e che termina sul davanti con un pendaglio a forma allungata e tondeggiante, rigido, in alluminio a mo’ di visiera.
Può essere completato dalla SILE’ che è una penna di gallo.
Le braccia delle donne sposate sono adornate da una serie di bracciali, gli ASHAWA’, che, oltre a coprire dal polso alla metà dell’avambraccio, stringono strettamente il bicipite.
Gli ZAU’, invece, sono anelli da gamba e la loro quantità è dettata dalla ricchezza di chi li indossa. Alla vita indossano una cintura di pelle, incrostata da cauri.
[8] Di qualche interesse possono risultare i loro nomi.
I maschi hanno nomi come MAGHI’, BANCO, KALABA’, AULIE’, UEITA, ZUBU’, AFTANU, mentre le donne si chiamano KERI, UAIA, ITENESH, HAMAR, ALCU’, UELLIS, BUANA’ ASARA’ ARCHEI.
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