By Luciano Pieri
Originally Posted Monday, September 3, 2012
CILE BOLIVIA – ALTRI DESERTI: DA ATACAMA AI SALAR ANDINI
testo e foto di Luciano Pieri
Deserto di Atacama, nome intrigante, lontano, misterioso, ricco di suggestioni, non chiaramente localizzabile a memoria senza sottomano una carta dove poterlo rintracciare.
Uno dei deserti più aridi del mondo, situato in mezzo ad una corona di vulcani attivi che lo isola da tutte le formazioni nuvolose create dalla corrente fredda di Humboldt.
Si dice che per quattrocento anni non vi sia caduta una goccia d’acqua.
Nonostante questo, alcune piccole lagune di acqua molto salmastra, in particolare la Laguna Chaxa, affiorano puzzolenti, con un odore acre che prende la gola.
In mezzo a tanta aridità sono ospitati trampolieri, flamingos, folaghe, che in un ambiente così ostile, riescono a sopravvivere, nidificare ed allevare la loro prole grazie a minuscoli gamberetti che prolificano in quella brodaglia primordiale.
Le dimensioni del deserto di Atacama sono di duecento chilometri per cinquanta chilometri un nano rispetto al Sahara (el kebir), ma nonostante questo, come tutti i luoghi del mondo, ha delle peculiarità che lo rendono unico ed affascinante.
Qui, un tramonto visto dalla sommità di una roccia ai margini della Valle della Luna, è uno spettacolo imperdibile.
Si arriva nel deserto di Atacama con un volo da Santiago, scendendo all’aeroporto di Calama, lo scalo più vicino a San Pedro, minuscola oasi a 2.400 metri di altitudine, che fa da base logistica ai visitatori di questa zona.
Oltre che i turisti arrivano ad Atacama uomini d’affari di tutto il mondo, particolarmente cinesi, per trattare partite di rame, “el cobre del cile”.
Nel 1801 un ingegnere minerario, D. de Gallizen, scopri’ a nord ovest di San Pedro, un minerale prismatico di colore verde, cloruro basico di rame, che battezzo’ Atacamite.
Questo minerale si forma in situazioni climatiche molto rare e particolari, ed oggigiorno, che l’industria tecnologica mondiale ha letteralmente fame di rame, il Cile ha nel deserto di Atacama il suo Eldorado.
A sud di San Pedro, con una salita di quota di 2.000 metri, si trovano a 4.300 metri due lagune meravigliose per i colori che vanno dal verde smeraldo al blu cobalto in mezzo, al tempo che ci arrivai io, a terre rosse coperte di erba gialla; sono le lagune di Menique e di Miscanti, paradiso di volatili che hanno qui eletto il loro domicilio per buona parte dell’anno.
A nord di San Pedro, quota 4.300 metri, si trova El Tatio, la zona di geyser più alta nel mondo.
El Tatio, “Il nonno che piange”: da non perdere assolutamente.
E’ necessaria una levataccia a metà nottata per coprire i 120 chilometri di pista ed essere all’alba in mezzo a questo gigantesco inferno dantesco dove decine di geyser e centinaia di soffioni, in una valle circondata dagli onnipresenti vulcani, a causa dell’aria fredda, formano un ambiente di getti di vapore e acqua bollente che i raggi del sole nascente illuminano rendendo lo spettacolo unico ed indimenticabile.
Poi il sole si alza sull’orizzonte e, come per magia, tutto sparisce e la valle ritorna anonima conservando solo i getti cadenzati dei geyser.
Al ritorno, lungo un’antica via carovaniera che attraversava le Ande prima che arrivassero auto e camion, il villaggio di Machuca sembra uscito da un film di Sergio Leone.
Il confine con la Bolivia è abbastanza vicino a San Pedro di Atacama ed alla periferia di questa cittadina, a 2400 metri, si esplicano le pratiche doganali.
Per passare poi effettivamente dal Cile alla Bolivia è necessario salire su a 4400 metri; un autobus statale accompagna senza fermate intermedie fino alla linea di confine.
Qui, in mezzo al nulla, in una baracca di legno lavorano i doganieri boliviani più abituati dei loro colleghi cileni ad abitare queste difficili altitudini, ostili all’uomo per la penuria di ossigeno.
Un grande cartello di smalto colorato recita:
ESTA ES MI TIERRA…….BOLIVIA. !BIENVENIDOS!
Siamo sulle Ande e per dieci giorni le quote saranno tra i 4000 ed i 5000 metri.
Ci aspetta un susseguirsi di lagune dai colori smaglianti che solo l’alta montagna può regalare.
La Laguna verde, ai piedi del vulcano Licancabur 5960 metri per metà cileno e per metà boliviano, bella e suggestiva, rende fede al suo nome con un colore simile a quello dei più pregiati smeraldi.
La Laguna blanca colorata da sedimenti di carbonato di sale.
Il Salar di Chalviri e la Laguna colorata, fantasmagorica fusione di striscie rosse, verdi, azzurre, bianche, popolato da fenicotteri e da germani reali.
Alla laguna di Polques, oltre ai colori dell’acqua, piccoli ciuffi fioriti impreziosiscono l’ambiente.
Infine il geyser “Sol de la magnana”, a 4850 metri, dove acque calde e fumanti traspaiono il giallo ocra del terreno coperto di cristalli di zolfo.
“Ciudad Italia Perdida” è un complesso di suggestive rocce, dove nell’intricato labirinto di piccoli canyon, dipinti rupestri di datazione piuttosto difficile, raffigurano diavoli minacciosi.
Ed ancora Valle delle rochas, Canyon de cascadas, Laguna Binto, fino a Pueblo di San Juan ai bordi della grande salina costituita dal Salar di Uyuni.
Salar di Uyuni, grandissima luminosità, l’iride si chiude al minimo e nonostante questo sei abbagliato; l’esposimetro della Nikon impazzisce, non sa più cosa misurare.
Il cielo è di un blu così intenso che sfiora il nero.
Così appare la mattina col sole il deserto di sale: enorme e abbagliante.
Lo attraversiamo puntando dritti verso l’Isola dei pescatori.
Lungo il percorso incrociamo cavatori di sale, poveracci con la pelle cotta dal sale e le pupille bruciate dalla forte luminosità, che, di contrabbando, tagliano lastroni che caricano su vecchi autocarri corrosi dalla ruggine.
L’Isola dei pescatori è coperta da una foresta di enormi cactus e dalla sommità, guadagnata a passo lento a causa dell’altitudine, lo sguardo spazia a 360 gradi.
Continuiamo l’attraversamento del salar fino alla periferia di Uyuni dove si incontra il “Cemeterio de trenes” (il cimitero dei treni), un luogo molto particolare, dove centinaia di vagoni ferroviari e locomotive a vapore, di epoche più disparate, arrugginiscono in questa landa desertica, in attesa che qualche restauratore si prenda cura di loro e le riporti all’antico splendore.
Uyuni, uno dei posti più freddi della Bolivia dove d’inverno la gente muore letteralmente dal freddo, viene chiamata “La hija predilecta de la Bolivia” (la figlia prediletta della Bolivia), perchè i suoi abitanti si presero cura delle truppe boliviane che ritornavano indietro, sconfitte dai cileni, nella guerra del Pacifico.
Per difficili strade sterrate, attraversando interessanti scenari semidesertici, in una mattinata con un buon fuoristrada si arriva alla mitica Potosì, cittadina coloniale, ben mantenuta, che alla fine del 1600, con più di duecentomila abitanti fù la più grande città dell’America latina.
Sul suo stemma più antico si legge:
“sono la ricca Potosì, il tesoro del mondo, l’invidia dei re”.
La ricchezza gli fu data, a partire dal 1545, dall’enorme quantità di argento estratta dal Cerro Rico, un forziere che sembrava inesauribile.
Tutto quell’argento arricchi’, durante il trasporto verso Madrid, rivoluzionari indipendentisti andini, pirati inglesi, francesi e olandesi e con quello che riusciva ad arrivare in Europa furono finanziate guerre sanguinose per secoli.
L’inferno del Cerro Rico, una delle vergogne dell’umanità, può essere confrontata in maniera paritaria ai lager nazisti.
Gli spagnoli incominciarono ad estrarre l’argento utilizzando come schiavi gli indios andini che a causa degli incidenti, dei turni massacranti, della silicosi, dell’avvelenamento per gas letali, morirono a centinaia di migliaia.
A quel punto, per non perdere produzione, furono importati dall’Africa milioni di schiavi neri.
Nel 1572 il vicerè di Toledo firmò la Ley de la Mita, a seguito della quale, tutti gli schiavi, di qualsiasi provenienza, con età superiore ai diciotto anni, dovevano lavorare in turni alternati di dodici ore, chiusi in miniera per quattro mesi, senza mai vedere la luce del sole.
E’ stato calcolato che dal 1545 al 1825 nelle miniere di Potosì sono morti non meno di otto milioni di esseri umani.
Oggi il Cerro Rico, che in tanti secoli di escavazione è divenuta una montagna al limite del collasso tanto è stata trapanata di gallerie in tutte le direzioni e a tutte le quote, è ancora sfruttata da una cooperativa di disperati per estrarre residui di argento e stagno, piombo e rame.
E’ uno dei lavori più ambiti per il guadagno alto rispetto alla media dei salari, però tutti sanno che il massimo di aspettativa di vita per i minatori, sono venti anni dall’inizio dell’attività.
Quando andai a visitare sul loro posto di lavoro questi moderni schiavi, su consiglio della guida locale, portai loro come omaggio dei mazzi di candelotti di dinamite con relative spolette, un sacchetto di foglie di coca e tre bottiglie di alcol a 92°.
Il monumento più interessante della città è legato alla miniera: la Casa Real della Moneda, eretto nel 1573 per controllare la coniazione nel luogo di provenienza del metallo.
Le monete qui prodotte erano contrassegnate con una “P” e venivano chiamate “potosis”.
Per piste sterrate dai quattromila metri si scende in cinque sei ore di piste polverose, ai 2790 metri di Sucre.
Sucre, la città bianca, elegante, con una piacevole, sonnacchiosa, aria coloniale.
Il nome gli fù dato nel 1825 in onore del generale Antonio Josè de Sucre, il più stretto ed importante collaboratore del generale Simon Bolivar.
Assieme affrancarono buona parte del Sud america dalla dominazione spagnola.
Dopo tanti giorni di deserto di alta quota fa molto piacere godere di qualche ottimo ristorante e di una buona camera in uno degli eleganti alberghi ricavati da antichi palazzotti del tempo dei conquistatori spagnoli che sapevano come trattarsi veramente bene.
I monumenti notevoli di Sucre, cattedrale, chiese, conventi, palazzi patrizi, sono stati tutti eretti tra il 1500 e il 1600, mantenuti inalterati fino ad oggi, continuano a farci scoprire l’ambiente coloniale alle origini.
La visita che ritengo non deve essere persa da chi si trova a Sucre, è il mercato campesino di Tarabuco alla domenica.
Oltre all’aria festosa e colorata caratteristica dei mercati dell’America latina, qui è l’unico posto dove è possibile vedere i campesinos indossare un singolare copricapo, il “morriones”, fatto di cuoio sul modello degli elmi portati dai conquistatores.
La fine di questa traversata è a La Paz dove, dopo aver visitato i monumenti di questa città situata a quattromila metri e il sito archeologico di Tihuanaco, un aereo ci riporta a casa.