By Paola Datta
Originally Posted Sunday, November 12, 2000
Camerun 1988
30 luglio 1998
Arriviamo in volo a Garoua nel primo pomeriggio. Il mio umore, di per sè già storto visto che per l’ennesima volta il mio zaino è scomparso nei meandri della stiva del Boeing e probabilmente ora si trova a Douala, peggiora non appena metto piede fuori dall’aereo: un blocco di aria calda, pesante e gonfia di umidità mi investe e fà colare a picco la residua lucidità mentale scampata alla solita noia-da-aereo accumulata durante il viaggio. Guardo verso l’alto e i nuvoloni bassi e neri mi ricordano che ho deciso di venire in Camerun proprio nella stagione delle piogge. “Beh”, penso fra mè e mè mentre scendo la scaletta traballante, “ormai è fatta, inutile recriminare. Forse avrei fatto meglio ad andare in Cina con gli altri, ma il piede malandato non mi avrebbe permesso di camminare per un mese in montagna e inoltre non sono mai stata a 7000 metri. Oppure avrei potuto andare in Vietnam, o che ne sò, in Turchia, in Namibia, o in India. Ma porca miseria, dovevo proprio decidere di venire qui, col monsone sulla testa?”
Mentre aspetto gli altri, presa da tutte le mie elucubrazioni e vaneggiamenti mentali, mi rendo conto che devo (povera me) andare a cercare il capo scalo per fare la denuncia di smarrimento dello zaino. L’amabile hostess della Cam Air a cui mi ero rivolta a Yaoundé (e che, in quanto a stazza, avrebbe tenuto testa ad un lottatore di Sumo) si era limitata a scrivere il mio cognome col pennarello grigio su un registro sgualcito e maleodorante (scommetto che usava le pagine per avvolgere le merendine) e aveva ringhiato di rivolgermi al capo scalo dell’aeroporto di destinazione finale. Il resto del ringhio suonava come un “donna bianca, aspetta e spera, tanto non lo ritroverai mai più”.
Ormai viaggio in Africa da tanti anni e di fronte a queste situazioni penso di avere sviluppato un senso di autodifesa che mi trattiene dal gridare, dall’arrabbiarmi o dal cercare di avere informazioni banali (del tipo “quando c’è il prossimo volo” oppure “a che ora parte” oppure “a chi mi devo rivolgere” oppure ancora “quando arriva il Responsabile”) che però, stranamente, in territorio africano, hanno il potere di diventare veri e propri aneddoti ai quali, il più delle volte, non v’è risposta. Di fronte al caos più completo da una parte e al nulla totale dall’altra, vengo “pervasa” da un senso di pace interiore, mista a religiosa rassegnazione e totale fatalismo. Ne consegue che il ringhio del peso massimo di Yaoundé mi fà un baffo.
Inizia a gocciolare, mentre lascio la scaletta e mi sposto verso la sala d’arrivo dell’aeroporto cercando d’individuare il capo scalo o responsabile Cam Air che dir si voglia (non è mai ben chiaro chi faccia cosa e quando). Miracolo: mi indicano uno spilungone in camicia bianca perso a scartabellare fra fogli e fogliettini che (doppio miracolo), sta venendo verso di me. E’ lui: è il mio uomo.
Gentile, mi conduce nel suo ufficio dove già lo aspetta trepidante una famigliola di giapponesi in partenza, speranzosi (ed illusi) che il bagaglio perso venga loro inviato a Pechino (nemmeno entro il 3000 d.C.).
Comunque, descrivo paziente il mio amato zaino ed il suo contenuto, dò istruzioni di inviarlo a Garoua col primo volo (mi vien quasi da ridere), ci metto un po’ prima di fargli capire che-lo-zaino-è-sicuramente-finito-a-Douala-in-quanto-l’aereo-da-Parigi-faceva-scalo-solo-a-Yaoundé-per-poi-terminare-il-volo-a-Douala-e-che-quindi-non-è-possibile-che-il-mio-zaino-sia-rimasto-sull’aereo-che-da-Yaoundé-ci-ha-portati-a-Garoua-perchè-non-è-lo-stesso-aereo.
Termino il fiume di parole vane con un “C’est compris?”
“C’est compris, Madame”. Mi risponde lo spilungone che aveva accuratamente annotato tutto o quasi su un pezzo di pagina strappata dal “Corriere dello Sport” locale che il suo collega stava leggendo.
“J’envois le telex à Paris, à Douala, a Yaoundé. Partout, Madame” mi assicura.
“Si, come no….” penso io. Gli stringo la mano, gli mando un bacio in fronte virtuale se non altro per l’inaspettato impegno, giro i tacchi e me ne vado, lasciandolo in balia dei giapponesini.
Raggiungo gli altri che hanno già recuperato zaini, cassa cucina, tende e similari.
L’aereoporto è ormai deserto, i taxi sono inesistenti. Passa solo un camion militare che rifiuta di caricarci e uno scassatissimo camion della Brasserie du Cameroun carico di bottiglie di Fanta e Coca Cola.
Siccome l’attesa pare vana, decidiamo di telefonare all’albergo Relais St. Hubert per chiedere al concierge di mandare due macchine a prenderci, altrimenti avremmo fatto notte in aeroporto. Il concierge impiega non poco tempo per organizzare il tutto e deve essere richiamato ed esortato più volte a sbrigarsi. Alla fine, però, ce la fà e ci recupera.
Il Relais St. Hubert è un grazioso agglomerato di boukarous, pulito, ombreggiato e lontano dal traffico cittadino, frequentato principalmente da turisti bianchi e uomini d’affari neri. Ha un ristorante con birra, Coca-Cola, Fanta e succhi di frutta freschi. Il prezzo delle camere ci pare comunque esoso e decidiamo di stare in 4 in camere da due, il che vuole dire che due dormono sul letto e due sul materasso per terra.
Io divido la camera con Dorella, Stefano e Renato il quale, per nostra gioia, ci informa con voce tremula che lui, di notte, russa.
Cerco di conquistare un piccolo spazio in quel groviglio di zaini, tende, scarpe, abiti buttati alla rinfusa, persone che vanno e vengono, e procedo a fare l’inventario abiti dello zainetto che avevo fortunatamente portato come bagaglio a mano insieme a tenda, materassino e sacco a pelo (memore di passate esperienze tanzaniane). Se la memoria non mi inganna devo avere “pressato” nello zainetto un pantalone di tela militare, 2 pantaloni di cotone, 2 paia di calze di spugna, 4 magliette, medicine, mantella, 1 asciugamano, sapone & Co., pila, rullini fotografici, salviettine umidificate, creme varie e altre amenità. Infatti, così è: ritengo quindi di essere autosufficiente per almeno e oltre 2 settimane, visto che ho anche un pezzo di sapone da bucato.
Sistemati armi e bagagli ci spostiamo alla Lasal Voyages per la contrattazione delle macchine, per organizzare il trasporto sino ai monti dell’Alantika e il giro nell’estremo Nord. Moussa Vandi è il fantastico autista che ci accompagnerà durante tutto il viaggio.
Dopo i saluti di rito ed il solito tira e molla, si stabilisce quanto segue:
per il trasporto dell’Alantika, Garoua Poli Wangay vengono concordate al prezzo di CFA 50.000/giorno cadauna (incluso autista, escluso carburante) una Range Rover in ottimo stato (guidata da Moussa) e un Toyota Pickup (guidata da Victor, imprenditore edile part-time e autista a tempo perso, chiacchierone, pasticcione e poco affidabile per ruote di scorta e pezzi di ricambio).
Per il restante itinerario, dato che la viabilità delle piste pare consentirlo (pioggia permettendo), affittiamo un pulmino 4×4 a CFA 50.000/giorno incluso autista ed escluso carburante e pedaggi stradali.
Nel contratto di locazione aggiungiamo la postilla “exempte de pannes”, in modo da non doverci accollare le spese di riparazione di eventuali rotture e forature.
Terminate le trattative, mentre aspettiamo Moussa che è andato a cambiarci dei soldi e mentre gli altri dormono sui divani dell’agenzia, io sostengo mio malgrado un’estenuante chiacchierata con l’impiegato della Lasal, loquace in modo terrificante e per niente impietosito dal mio stato di semi-letargia. Vedo la sua bocca che continua a muoversi, sento il fiume di parole che avanza incessante, mi sommerge, mi travolge. Quando l’argomento sembra esaurito, tento di chiudere gli occhi nella speranza che taccia, ma ecco che lui ricomincia impietoso con un altro argomento, con altre domande. Ed io rispondo, parlo e riparlo fino a quando persino la voce è stanca di uscire. Poi, finalmente, arriva Moussa e mi salva.
Affido al mio prolisso amico il compito di occuparsi del bagaglio e lui mi dice di non preoccuparmi. Non ne avrei comunque la forza, sono troppo stanca.
Ora sò tutto della sua famiglia, della fidanzata e futura moglie, dei suoi propositi per il futuro. Sò tutto dei suoi fratelli, dei suoi colleghi, della situazione politica del Camerun; sò quanti turisti si rivolgono alla Lasal Voyages ogni anno, sò tutto di tutti.
Mentre gli altri tornano in albergo, io, Gaia e Francesco passiamo il resto del pomeriggio in giro con Moussa a comprare i pochi generi alimentari che ancora ci mancano. Purtroppo per noi, abbiamo assolutamente bisogno di una bombola per cucinare, quasi impossibile da trovare visto che a Garoua sono finite tutte le scorte di gas. Gira e rigira, è ormai buio pesto quando Moussa gioca l’ultima carta e ci porta in un bugigattolo polveroso dove sembra ci siano ancora bombole disponibili.
Dire che la proprietaria del negozietto è grassa, è dire poco: sta seduta su uno sgabello traballante, florida massa traboccante di carne umana avvolta in un vestito multicolori che la contiene a fatica. I capelli nerissimi sono raccolti a chignon dietro la nuca e lasciano scoperto un viso dai lineamenti fini che si spande e si allarga, come una goccia d’inchiostro sulla carta assorbente, su un collo massiccio, quasi bovino. Il seno è prorompente e protundente, vera gioia e orgoglio del marito. Le braccia e le gambe sono rotoli di carne soda. Bella e imponente nella sua maestosa opulenza, la signora non transige: la bombola costa l’esorbitante cifra di CFA 40.000, senza possibilità di cauzione.
Noi ci guardiamo, guardiamo Moussa, ci riguardiamo: la signora può tenersi la sua maestosa opulenza e la sua bombola. Ci voltiamo per uscire, ma la signora ci richiama, tornando a più miti consigli: alla fine Moussa lascia “in ostaggio” la sua bombola vuota e noi ripartiamo con la bombola piena, pagando solamente il gas. Dopo aver prenotato la cena, ultima tappa prima dell’agognata doccia è la casa del capo di Moussa, dove prendiamo temporaneamente in prestito anche l’attacco per il fornello.
La sera svengo letteralmente nel letto, ma dopo due ore mi sveglio di soprassalto: dalla bocca spalancata di Renato escono rantoli, ruggiti, grugniti. Dorella, invece, sta russando a stantuffo proprio nel mio orecchio destro. Mi sporgo dal letto e guardo Stefano: maledetto, dorme come un ghiro.
Dò una spinta a Dorella, e lo stantuffo si quieta. Scendo e dò una schiaffo sulla mano a Renato. Tutto tace. Torno svelta al mio posto, chiudo gli occhi e mi concentro: devo addormentarmi prima che il concerto ricominci. Ma ecco che, in sottofondo, ricomincia il sibilo, prima lieve e sommesso, poi sempre più forte. Mi viene da piangere, ma non demordo e schiaffeggio, spingo, fischio, tiro il bordo del suo materasso. Alla fine, esausta, mi addormento in un sonno senza riposo.
Il giorno dopo, scopro che Stefano è fuggito dalla camera verso le 3 del mattino (più o meno l’ora in cui io mi sono addormentata), pensando felice che fosse ormai l’alba. Il fatto che il sole non si decidesse a sorgere l’aveva persuaso che, forse, si era sbagliato.
31 luglio 1998
L’Alantika
L’orario di partenza per Poli/Wangay previsto e sperato è per le 7, ma la partenza effettiva è alla 9, come da scaletta tempi africani. Le due ore di ritardo sono dovute al pieno gasolio, reperimento di una tanica di plastica per mettere l’acqua da cucina (la troviamo di terza mano. Prima della nostra acqua, il teschio dipinto sulla parete della tanica indica che era stata adibita a trasporto di liquidi corrosivi e poi, in un secondo momento, era stata usata per contenere il succo d’ananas che ancora colava un po’ dappertutto). Compriamo anche 17 baguettes e aumentiamo l’acqua da 4 a 6 casse x 12 bottiglie da un litro e mezzo che, secondo me, uniti a tutti i viveri che abbiamo portato dall’Italia, possono bastare per 20 giorni in Irian Jaya. Comunque sia, finalmente partiamo.
I primi 107 Km in direzione sud sono su strada asfaltata. In prossimità del Campement Mo Sala abbandoniamo l’asfalto per immetterci sulla pista in terra battuta che ci porterà, dopo 37 Km., a Poli. Non piove, la pista è buona e non ci rallenta. Il tratto da Poli a Wangay (30 Km circa) è migliore di quanto non avessimo immaginato, ma si deve guidare con prudenza perchè il percorso è disseminato di buche profonde e tratti molto sconnessi. La pioggia ci avrebbe quasi sicuramente impedito di raggiungere Wangay.
Per strada incontriamo i lamido’ di Poli e Wangay: si stanno recando a Garoua in missione diplomatica, ma il lamido’ di Wangay ci assicura che al villaggio troveremo accoglienza e ci verrà permesso di mettere le tende nel cortile della sua casa. Ci conforta il fatto che, se loro due sono riusciti ad arrivare quasi fino a Poli viaggiando su un rudere dell’anteguerra, i nostri due fuoristrada non dovrebbero incappare in blocchi forzati.
In totale impieghiamo 6 ore per arrivare a Wangay e veniamo accolti dal fratello e segretario del lamido’, Mr. Sadou Adamou, che ci fà sistemare nel cortile di casa e viene da noi scelto come guida per il trekking sull’Alantika, in territorio KOMA.
Siccome la pioggia incombe, stabiliamo un itinerario “corto” di soli 4 giorni anzichè 7 che ci permetterà comunque di raggiungere i villaggi Koma. Viene concordato che Moussa e Victor tornino a prenderci a Wangay il 5 agosto verso le 11, pista e pioggia permettendo.
Stabiliamo un prezzo di CFA 2000 al giorno per ogni portatore e CFA 5000 al giorno per Sadou. Inoltre diamo loro CFA 1000 a testa per comprarsi il cibo durante il viaggio. Ci viene permesso di sistemare gli zaini e le casse nella stanza del custode
Ligio al dovere, Sadou ci accudisce come una mamma. Sceglie i portatori, s’incarica d’andare a comprare sale, cerini e tabacco che daremo in regalo ai capi-villaggio, cambia i CFA in naira nigeriani, si assicura che ci sia sempre una “distanza di sicurezza” fra noi e l’esercito di bambini accorsi a vedere i “massarà”, gli uomini bianchi. Mi avverte ogni qualvolta deve allontanarsi ed è una presenza costante fin troppo premurosa con la quale mi sento in dovere di colloquiare, se non altro per educazione.
Il caldo è umido, soffocante. Al calar del sole le zanzare arrivano a frotte, ma sono piccolissime e non le senti nemmeno ronzare: a scanso di malaria e per quanto faccia caldo, io opto per la camicia con le maniche lunghe, bandana al collo e jeans. Gli altri, forse meno pessimisti di me, infilano ciabattine, canottiere, pantaloni corti e si spalmano con tonnellate di Autan.
Siccome mi è bastata la notte di Garoua, monto la mia tenda sotto la tettoia, ben lontano dalla tenda di Renato, il russatore folle. Mi ritiro alle otto e mezza e sembra di essere in una sauna: non c’è un filo d’aria e il minimo movimento provoca fiumi di sudore. Le zanzare si ostinano a sbattere contro la zanzariera. E’ l’una quando mi sveglio di soprassalto: lo sento. E’ lui. Russa, ma no, grugnisce e fischia.
Vorrei tanto fossero già le sei….
1 Agosto 1998
Partiamo alle sette e mezza con 12 portatori e Sadou, diretti al villaggio di DOURI-DI. Attraversiamo la piana che ci separa dalle montagne: è una bellissima giornata, il cielo è limpido e azzurro, libero da nuvole foriere di pioggia. Il paesaggio scorre attorno a mè in un fiume di coltivazioni di miglio che, in alcuni tratti, si spingono sulle pendici delle montagne. Sadou mi indica in lontananza il villaggio di Bimlerou-Bas, dove faremo tappa al ritorno.
Fà caldissimo e anche se il percorso è tutto pianeggiante mi sembra di essere un ghiacciolo al sole. Oggi poi non mi sento molto bene: ho bevuto del caffè, forse troppo forte, che sta facendo brutti scherzi alla mia pressione di per sè già bassa.
Dopo circa due ore di camminata agevole inframezzata a guadi facili e interrotta solamente da una piacevole “sosta bagno”, Sadou mi informa che bisogna cominciare a salire.
Ha così inizio la faticosissima salita dell’Alantika. Man mano che avanziamo, il percorso si fà sempre più ripido e dobbiamo camminare su sentieri strettissimi, facendo presa dove possibile sulle rocce e guardando bene dove si mettono i piedi per evitare di cadere. Il sole è cocente e il tasso di umidità è alle stelle: si respira bene solamente nei brevi tratti che costeggiano la cascata, ma appena ci si allontana si ha l’impressione di cadere letteralmente dentro ad una sacca di aria calda e umida, pesante all’inverosimile.
Rivoli di sudore mi fanno bruciare gli occhi e non riesco a vedere dove metto i piedi. Ad un certo punto mi rendo conto che sto per svenire, l’acqua della borraccia non mi basta per reintegrare i liquidi e nella semi-lucidità che mi rimane penso alle bustine di thè solubile andate perse con il mio zaino. Penso anche alla Nutella della cassa cucina. Un goccio di thè dolce o un cucchiaino di cioccolata mi sarebbero bastati per superare la crisi. Continuo mio malgrado a camminare, ma il senso di nausea aumenta e le gambe non rispondono più: butto lo zaino e mi lascio cadere, appoggiandomi ad una roccia. Attorno a me tutto gira come una giostra. Francesco e Stefano si fermano ad aspettarmi, ma Sadou avverte che dobbiamo sbrigarci: la pioggia potrebbe arrivare da un momento all’altro e bloccarci a metà strada, senza possibilità di riparo.
Aspetto che la giostra finisca il giro e ripartiamo.
Raggiungiamo DOURI-DI dopo quattro interminabili ore.
Incontriamo per prima un donna intenta a zappare nel campo di miglio. Potrebbe avere una quarantina d’anni: è completamente nuda, eccezione fatta per il cache-sexe di foglie. Ci guarda incuriosita e poi parla con Sadou, indicandogli che possiamo proseguire sino al villaggio.
Il paesaggio che ci circonda sembra uscito da una favola. La vegetazione è di un verde sfavillante, interrotta qua e là dalla roccia scura, quasi nera, della montagna. Dal crinale soprastante ci giungono voci e richiami di bambini che ci hanno visti e stanno trasmettendo la notizia del nostro arrivo. Noi ci fermiamo all’entrata del villaggio, mentre Sadou manda a cercare il capo affinchè ci indichi dove montare le tende. Il villaggio si trova sul costone destro della montagna, spaccata in due da un enorme canalone: è immerso, quasi fosse protetto, in una distesa di alte piante di miglio che si arrampicono, in sequenza ordinata, molto più in alto e lo nascondono alla vista di chi, come noi, arriva dal fiume sottostante. Le capanne sono in fango misto a paglia, tonde e col tetto fatto con gli steli essiccati delle piante di miglio: circondate da piante di zucca, sono collegate fra loro da stretti corridoi in terra battuta che si perdono nel folto del miglio e ti danno l’impressione di esserti perso. E’ tutto molto ordinato e pulito.
A Douri-Di vivono circa 30 persone, la stragrande maggioranza bambini. Noto che molte ragazze non hanno più i denti davanti: Sadou mi spiega che, fra i Koma, questo è segno di fidanzamento.
Il capo arriva quasi subito: è un tipino dagli occhi vispi, tutto nervi e muscoli, temprato da una vita dura passata senza ombra di dubbio a zappare miglio. Porta un giacchetto sdrucito, probabilmente lasciatogli da visitatori precedenti, che contrasta con il folto cache-sexe fissato in vita.
Ci dice che possiamo montare le tende proprio nel punto in cui siamo, ma, anche se il colpo d’occhio è fantastico, il fatto di essere proprio allo sbocco del canalone mi fa un po’ paura. Gli altri sembrano propensi a rimanere, ma io chiedo di entrare nel villaggio e cercare un punto più riparato.
Mi faccio strada fra il miglio e arrivo alla prima capanna, dove si sono già sistemati i portatori, esausti. Continuo a salire, mentre dalle capanne fanno timidamente capolino alcune ragazze e un cane scheletrico mi abbaia: imboccando un altro sentierino arrivo su uno spiazzo circolare antistante una capanna, la costeggio e mi trovo di fronte ad un ulteriore spiazzo piano, ampio e senza pietre, protetto da una capanna sul fondo e da folte e altissime piante di miglio che lo circondano. Offre abbastanza spazio per quattro tende, mentre la quinta può essere sistemata nello spiazzo poco più in basso; il posto è ideale, al riparo dal vento. Torno indietro a chiamare gli altri e chiedo il permesso, subito accordato, di montare lì le tende.
La sera diamo fondo ai viveri portati da casa, rifocillandoci con degli ottimi tortellini alla panna che però, almeno per quanto mi riguarda, hanno lo stesso effetto di un mattone sullo stomaco. Alle otto dò la buonanotte e lascio gli altri intenti a degustare il Tavernello, ormai diventato brodo caldo, ma stranamente, come sempre quando si è via da casa, giudicato buonissimo.
Cammino lentamente: il cielo è limpido e la luna mi illumina il sentiero. Attorno a me il silenzio è interrotto solo dal fruscio della brezza leggera che gioca con il miglio. Di colpo, mi rendo conto che la mia tenda si trova proprio di fronte al viottolo buio che conduce fuori dal villaggio: chiunque, uomo o animale, se la sarebbe trovata di fronte per prima, volendo penetrare nel villaggio col buio. Persino la luna non riesce ad illuminare quel tratto di sentiero. Mi fermo un attimo, ad ascoltare. Nulla. Non sento nemmeno più le voci degli altri.
E’ vero che Sadou sostiene che nella zona ci sono leopardi e pantere, ma non è questo che mi fà paura. Ciò che non mi fà sentire a mio agio è quella bocca scura, dove qualcuno o qualcosa può vedermi mentre io non lo vedo. Comunque, alla fine decido che è meglio non pensare troppo: vado svelta in tenda e in men che non si dica piombo in un sonno profondo.
Mi sveglio nel cuore della notte: il vento ruggisce nel canalone poco più in basso. Lo sento scivolare, avanza veloce e rabbioso verso di noi, ma il muro di miglio ne attenua la forza e lui riesce solamente a lambire le tende, facendole tremare. Mentre penso a cosa avrebbe potuto succedere se avessimo piantato le tende poco più giù, infilo le scarpe ed esco per controllare i picchetti: la luce bianca e spettrale della luna illumina il miglio maltrattato dal vento e gli steli, piegati all’inverosimile, sembrano le braccia tese di tanti fantasmi.
2 Agosto 1998
Lasciamo Douri-Di la mattina di buon’ora.
Dopo circa 2 ore di salita ripida, ma a detta di tutti non così faticosa come il tratto del giorno prima, arriviamo a Gablì, minuscolo villaggio abbarbicato sul crinale della montagna.
Dopo aver perso il sentiero più volte, finendo immersa nelle erbe sino alla punta dei capelli, arrivo in cima subito dopo i portatori e, man mano che mi avvicino alla roccia piatta sulla quale si sono sistemati, vedo l’immensità della piana nigeriana comparire e stendersi a perdita d’occhio di fronte a me. Il sole illumina una natura dai colori sfolgoranti ed è in luoghi come questo che ci si rende conto dell’immensità dell’Africa.
Conto in tutto 4 persone, incluso il capo-villaggio. C’è una vecchia seduta vicino alla capanna: non ha più i denti ed è completamente calva. Porta il cache-sexe sui fianchi, adorno di collane multicolori e la sua pelle grinzosa e rugosa sembra aver assorbito il grigio della cenere del focolare.
A Gablì ci concediamo una breve sosta e riprendiamo subito il cammino verso Bimlerou-Haut. Il percorso si snoda sinuoso e facile sul crinale della montagna, regalandoci paesaggi dipinti e mille tonalità di colore: abbiamo anche fortuna con il tempo, in quanto non sembra che il cielo minacci pioggia.
Arriviamo a Bimlerou-Haut verso mezzogiorno sotto un sole cocente e non troviamo quasi nessuno, a parte qualche vecchio: sono tutti nei campi. Anche questo villaggio, come i precedenti, sembra essere fuori dal tempo. Mi colpiscono le zucche enormi che crescono arrampicandosi sulle capanne, i sentieri piccoli e ben curati che collegano i vari agglomerati di capanne, i fiori, i granai appollaiati sulle rocce, l’ordine e la tranquillità totale. La vegetazione attorno a noi è rigogliosa e sfavillante.
Dopo aver gironzolato nei dintorni torniamo in prossimità della capanna dove alloggiano i portatori e i nostri bagagli. Alcune ragazze giovani si sono nel frattempo avvicinate e ci guardano, curiose. Arrivano anche altre due donne anziane, di cui una ha bisogno di essere curata ad un occhio. Quando le faccio cenno di avvicinarsi e sedersi vicino a me lei dice di avere vergogna, perchè noi abbiamo gli abiti, mentre lei non ha che il cache-sexe. Dorella le tampona l’occhio malato con una pomata oftalmica e le diciamo (tramite l’interprete) di tenere la medicazione sino al giorno dopo.
Sono circa le 3 quando il cielo si fà minaccioso. Decidiamo allora di montare le tende, giusto in tempo prima che si scateni il finimondo: forti raffiche di vento portano scrosci d’acqua simili a cascate e quelli che alcuni minuti prima erano sentieri ora sono veri e propri fiumi. Dalla capanna dove ci siamo rifugiati riesco a vedere la mia tenda che si piega e si gonfia, a seconda di come la investono le raffiche di vento: prego che i teli non si tocchino e non saltino via i picchetti. Ho cercato di montarla in un punto riparato, dietro la capanna, ed è anche in un punto più alto rispetto alle altre, cosicchè l’acqua dovrebbe scorrere via. Stefano e Dorella, invece hanno montato la loro tenda proprio in un punto in cui l’acqua forma una cascatella e li investe in pieno: per cercare di salvare il salvabile Stefano si prodiga in un’opera di scavo che comunque ha successo, visto che riesce a deviare il fiumiciattolo verso la discesa che porta fuori dal villaggio.
Speriamo tutti che sia solo un’acquazzone passeggero, ma il diluvio non conosce tregua e verso le 7 incominciamo a porci la domanda “dove dormiamo?”. Chiediamo a Sadou di indicarci due capanne dove potremmo ripararci in caso di emergenza (o meglio, dove potremmo correre in caso di allagamento), ma entrambe minacciano pulci e affini. Alla fine, visto che la maggior parte dei portatori ha famiglia nel villaggio, ci viene lasciata la grande capanna dove, volendo, avremmo potuto dormire tutti.
La luce delle torce illumina le pareti affrescate con figure stilizzate di animali e scene di caccia, otri di pelle di capra, utensili da lavoro e cri-cri polverosi fatti di piume e denti di cinghiale. In un angolo è accatastata una quantità di anfore di terracotta, alcune delle quali contengono miglio. Non mancano i soliti ragni, che ciondolano indisturbati a qualche centimetro dalla nostre teste, immersi nel buio.
Non è che siamo tutti proprio convinti di dormire lì e il dubbio del “rimango o non rimango” regna sovrano: la tempesta non sembra avere la minima intenzione di smettere e noi siamo combattuti fra il dormire con le pulci, ma all’asciutto, e lo svegliarci semi-sommersi dall’acqua nel cuore della notte, ma senza pulci, con corsa finale in una capanna comunque con pulci. In attesa di decidere, gonfiamo i materassini e li sistemiamo in zona ragni, sulle corde che abbiamo tirato da una parte all’altra della capanna. Quindi, all’interno di quella capanna umidiccia, polverosa e buia nonostante le nostre torce, si scatena un’attività frenetica: c’è chi sposta le anfore rischiando di romperle tutte, chi sposta i tronchi che abbiamo scoperto accatastati sul fondo della capanna, chi gratta il formaggio, chi cucina, chi, come Stefano, rovescia mezzo chilo di sale sul pavimento provocando l’orrore di Francesco, chi entra ed esce per controllare lo stato della propria tenda. Mentre partecipo a quel caos mi immagino divertita i proprietari delle centinaia di occhi che ci stanno osservando dall’alto, appoggiati comodamente sui nostri materassini (“finalmente qualcuno pensa anche a noi” stanno dicendo) e, in quel momento, li invidio un po’: loro non hanno problemi di pulci, di tende bucate e vestiti bagnati, non devono cucinare al buio, gonfiare materassini per cui ci vorrebbe un compressore. Non corrono nemmeno il rischio di grattarsi le dita con la grattuggia perchè non riesci a vedere se è finito il formaggio. Loro se ne stanno lì, paciosi, a dondolare, in attesa che qualche mosca o zanzara rimanga impigliata nella ragnatela e sia a portata di bocca.
Terminata la cena, solo Gaia e Francesco optano per la capanna, non prima d’aver sparso insetticida sui e attorno ai sacchi lenzuolo. Con estremo piacere constato che la mia tendina ha tenuto e, all’interno, è asciutta: butto velocissima il materassino in tenda e mi infilo nel sacco a pelo completamente vestita. Ci ripenso poco dopo e sfilo i pantaloni fradici (ormai li ho addosso da talmente tanto tempo che non ci faccio più caso).
Infagottata così come sono riesco a malapena a muovermi e comunque devo tenere tutto sul materassino. Non voglio schiacciare l’intercapedine d’aria che si è formata fra il telo di base della tenda e l’erba sottostante perchè mi garantisce che rimarrò all’asciutto. Nel buio più completo ascolto il tamburellare della pioggia sul telo della tenda e l’ululato del vento: sonnecchio e di tanto in tanto passo la mano sulle pareti e per terra, per accertarmi che l’acqua non inizi a filtrare.
Il diluvio termina verso le 4 del mattino, e tutti ne usciamo indenni o quasi.
3 agosto 1998
Oggi iniziamo la discesa che ci riporterà a valle, verso Bimlerou-Bas. Attraversiamo la fitta coltre di nuvole che sino a qul momento ci aveva nascosto la valle sottostante e mano a mano che scendiamo l’aria si fà sempre più spessa, pesante di umidità: fortunatamente, però, stiamo costeggiando il fiume e si riesce a respirare abbastanza bene. Attorno a noi, i campi di miglio strappati con le unghie alla foresta e alla montagna si alternano a fitte distese di erbe altissime.
Ad un certo punto mi fermo perchè le braccia stanno incominciando a bruciare un po’ troppo e penso mi abbia punto qualcosa: invece mi accorgo che sono coperte da tagli finissimi procurati dal passaggio fra le erbe che ora il sudore fà bruciare. Vengo distolta dalla constatazione del mio stato personale da una ventata di odore aspro e salato: mi annuso e annuso la maglietta che mia madre avrebbe probabilmente incenerito. Accidenti, puzzo proprio come i portatori.
Verso mezzogiorno siamo obbligati ad una sosta oltremodo lunga perchè uno dei portatori prova a fumare una canna: non essendo abituato, ora è rannicchiato in un angolo e non riesce a smettere di piangere. I suoi compagni si stanno sbellicando dalle risate e più loro ridono, più lui piange e si dispera. Sadou interviene, li richiama all’ordine e noi gli diamo da bere acqua e zucchero seguito da biscotti e marmellata, per cercare di fargli passare la crisi depressiva ed aumentare un po’ gli zuccheri nel sangue. Gli ci vogliono comunque parecchie ore per tornare ad una relativa normalità, e, sicuramente, gli ci vorranno mesi per recuperare almeno in parte la dignità andata in fumo con la mariuana.
Verso le 4 del pomeriggio arriviamo a Librou dove c’è un bellissimo fiume con tanto di cascata. Sadou vuole farci piantare le tende proprio vicino agli ovili, con i vari annessi e connessi. Non ci pensiamo proprio e dopo vari gira e rigira riesco a trovare uno spiazzo più in basso, sufficiente a contenere tutte le tende, ma, e me ne accorgo guardando le tende da lontano, pericolosamente situato proprio alla base di un terreno tutto in discesa. Nessuno però ha voglia di pensarci più di tanto e, in ogni caso, non ci sono alternative. Possiamo solo sperare che non piova, altrimenti ci ritroviamo direttamente a Wangay.
Prima del buio facciamo un fantastico bagno e bucato al fiume: finalmente sono pulita, finalmente riesco a lavare una maglietta che grida vendetta.
La sera porta una leggera brezza, ma il cielo stracarico di stelle si mostra magnanimo e tiene lontana la pioggia. C’è quiete attorno a me, ed il silenzio è allietato dal concerto dei grilli: di tanto in tanto arriva un cane alla ricerca di qualche avanzo, lo sento annusare la tenda, spero che trovi il formaggio e lo spek che ho nascosto per lui fra il miglio.
4 agosto 1998
Prima di arrivare a Wangay facciamo una breve sosta a Bimlerou-Bas: Sadou ci presenta il capo Voksi, che è riuscito ad arrivare alla veneranda età di 113 anni dimostrandone non più di 70. Arzillo, con un berrettino sulle ventitrè, arco e freccie a tracolla, Voksi lavora ancora nei campi ed è perennemente attorniato da uno stuolo di bambini, un po’ figli suoi, un po’ non si sa bene di chi. Subito non ci pare possibile che, con la speraza di vita africana, un uomo possa arrivare ad essere ultracentenario e conservare un aspetto così giovanile, ma il capo ci mostra un libro scritto e pubblicato da un esploratore tedesco circa 60 anni fà, dove già si menzionava il suo nome con tanto di fotografia (e all’epoca lui poteva avere circa 40 anni). Ora Voksi vive ricordando un mondo in cui i massarà non erano che personaggi dei racconti di qualche viaggiatore e le pantere non avevano paura di entrare nei villaggi.
Rientriamo a Wangay verso l’una del pomeriggio, sotto un sole cocente che non dà tregua e brucia ogni singolo centimetro di pelle lasciato inavvertitamente scoperto. Dietro di noi si vanno intanto accumulando nuvoloni neri e il vento porta odore di pioggia: Sadou ci dice che è meglio portare tutto nella casa del custode.
Non più tardi delle 3 possiamo veramente dire di toccare il cielo con un dito tanto le nuvole sono basse. Alle nostre spalle, la catena dell’Alantika è completamente scomparsa alla vista. Il vento si fà più prepotente e porta il temuto diluvio: nel giro di qualche minuto, le strade in terra battuta diventano canali e nel cortiletto di fronte alla chefferie si è formata una piscina con buoni 10 cm di acqua. Noi siamo tutti rintanati nella chefferie, fra un caos di zaini, sedie, tende, casse, bambini: il custode, dal canto suo, ripara frastornato nella sua stanzetta insieme ad alcuni conoscenti.
Due ore dopo sta ancora piovendo: annoiati alla disperazione, io, Stefano e Andrea infiliamo le mantelle e usciamo a fare un giro che dura, più o meno, una decina di minuti perchè Wangay non è più un villaggio: è un fiume. Attorno a noi c’è solo acqua, fango, acqua e ancora fango. Inoltre, la pioggia cade sulla mantella e scivola proprio dentro alle scarpe cosicchè, in men che non si dica, decidiamo che ne abbiamo abbastanza: rapido dietro front e ritirata.
I bambini continuano ad affollare il cortile della chefferie e, mentre noi cerchiamo di fotografarli, iniziano a cantare e danzare vorticosamente sotto la pioggia. Ormai è quasi notte, ma loro, bagnati fradici, continuano sino allo sfinimento e cantano, si dimenano nel ritmo della danza, saltano, corrono, ridono, gridano.
Ci sono bambini e bambine di tutte le età: alcune devono accudire il fratellino o la sorellina minore e li portano legati alla schiena. Tutti hanno una loro bellezza particolare, un qualcosa che li contraddistingue, la voce, lo sguardo, le movenze o il semplice sorriso. Alcune ragazze sono veramente belle, ma la più bella e sensuale è una ragazzina di circa 12 anni: indossa solamente una tunica bianca che ora le si è incollata al corpo e ne rivela le forme di donna. Ora è appoggiata al palo di legno vicino a me, riesco a vederla da vicino: le gocce di pioggia sono perle sul suo viso, gli occhi nerissimi e profondi denotano malizia, e orgoglio. E’ bambina fuori, ma già donna dentro.
Come al solito, con il buio arriva anche il problema del “dove dormiamo?”. A meno di non gonfiare un canotto, il cortile della chefferie non può essere utilizzato per il campo. Il custode, poverino, dispone di un solo letto, probabilmente con pulci, per cui non ci può aiutare. L’unica stanzetta disponibile contiene a malapena gli zaini e le casse, la tettoia non serve praticamente a niente perchè piove di stravento. Che fare?
Vista la drammaticità della situazione, Sadou ci porta a vedere due stanze grandi abbastanza da contenere due zanzariere: a parte la temperatura da sauna finlandese ci sono i soliti ragni, qualche blatta passeggera, un mucchio di vestiti in un angolo (sicuramente un motel per pulci di passaggio), il tutto allietato da un unico finestrino di circa 10cm x 10cm che assicura una corretta aereazione dei locali. E’ perfetto.
Renato viene ospitato sotto un’altra tettoia, più grande e ben fatta, nel cortile di un’altra casa. “Meno male” penso “almeno non lo sento russare”.
Dorella e Stefano montano la zanzariera nella stanza del custode (povero!), io dormo con Andrea e Roberta, Gaia e Francesco sono nella stanzetta attigua alla nostra.
Montata la zanzariera, esco fuori per gonfiare il materassino e cercare di recuperare al buio i miei pochi averi finiti chissà dove. Mentre mi sgolo a soffiare dentro a questi maledetti tubi che non si gonfiano mai penso che ci vuole veramente coraggio per rinchiudersi lì dentro, sembra proprio una tomba. Cosa darei per poter dormire fuori, all’aria aperta, sotto a quella tettoia bucherellata che, adesso, mi pare la veranda di un hotel a 5 stelle. Mi volto verso il cielo, stizzita e arrabbiata, gli grido di smetterla e lui, per tutta risposta, mi scarica addosso una cascata. Bene, almeno sono pulita.
Come al solito, ogni volta che cerchi di entrare in tenda al buio e rapidamente, per fregare zanzare e altri animaletti, non ci riesci mai. La torcia mi scivola di traverso sulla testa e cade, non riesco a slacciarmi le scarpe perchè non vedo niente, la cerniera della zanzariera pizzica il telo a metà via e devo tirare un quarto d’ora prima di riuscire a chiuderla. Non oso pensare a cosa possa essere entrato in tenda: va bè, siamo in tre li dentro, c’è abbastanza carne per tutti.
La notte passa, calda, appiccicosa e puzzolente.
5 agosto 1998
Esco dal tugurio alle 5 e mezza, fortunatamente indenne da punture e/o morsicature di vario tipo. Il sole sta sorgendo e nel giro di mezz’ora risplende alto a spaccare un cielo azzurrissimo. Subito ne approfittiamo per cercare di fare asciugare indumenti che avrebbero tenuto lontano anche una puzzola.
L’appuntamento con Moussa è per le 11, ma non sappiamo se, dopo la pioggia della notte, la pista è ancora praticabile. Mentre Sadou cerca di rassicurarci, arrivano alla spicciolata i componenti del gruppo di Kel 12 che avevamo incontrato a Bimlerou-Bas, dove avevano pernottato: sono fradici dalla cintola in giù, fangosi, dall’aria non molto gioviale. Siccome la pioggia ha bloccato le loro jeep a Wangay, loro hanno dovuto rientrare a piedi anche se il programma non lo prevedeva (e noi proviamo un piacere perverso a vederli transitare in quello stato). Il fatto che stiano grondando acqua significa che il fiume poco più in basso è in piena, mentre noi, il giorno prima, ci eravamo bagnati a malapena le caviglie. Mentre passa di fronte a noi, una per così dire signora alquanto spocchiosa si volta a guardarci (forse dovrei prestarle il mio specchietto) e batte una craniata colossale contro il palo della tettoia. Segue un tentativo malriuscito di non ridere, e altra craniata da parte sua.
Il nostro Moussa arriva puntualissimo alle 11 e ci porta acqua e pane. Victor, l’imprenditore pasticcione è con lui, ce l’ha fatta ad arrivare col suo Toyota sgangherato.
Carichiamo tutto in fretta, salutiamo i ragazzi e Sadou che arriva di corsa con tre polli per Moussa. Carichiamo i polli, Victor carica sul cassone del Toyota un suo amico, anche lui provvisto di gallina, e finalmente partiamo.
Prima di lasciare Wangay chiediamo a Victor se ha fatto riparare la ruota di scorta bucata all’andata e se ha cambiato le due gomme liscie. Lui giura di aver aggiustato tutto, ma le gomme non sono solo lisce, sono lucide. Quanto alla ruota di scorta, beh, quella è fissata sotto alla scocca del Toyota e sarà una sorpresa.
La pista è brutta, ma non impraticabile. Tutti noi temevamo molto molto peggio.
Strada facendo ho occasione di conversare con Victor Tuko, imprenditore.
Victor ha circa 40 anni, una buona posizione sociale, un’ottima attività. Ha una sola moglie e 4 figli, un numero minimo per un padre di famiglia che si rispetti. Sua moglie ha una piccola attività commerciale, ma tiene per sè tutti i soldi che guadagna: è il marito, in quanto uomo, a dover mantenere la famiglia. “Una volta ho trovato mia moglie a letto con un altro” mi dice “ma l’ho perdonata perchè, anch’io, in passato, mi sono comportato male con lei. Avevo donne in ogni villaggio e figli dappertutto. Poi le bon Dieu mi ha fatto capire che sbagliavo, ed ho smesso”.
Victor Touko è Bamileké e da buon Bamileké è molto devoto al culto dei morti. Essendo questo un argomento che mi interessa molto, non lo interrompo
“Quando un componente della famiglia muore, la testa del defunto viene tagliata e conservata nella casa, all’interno di una calebasse. Alla testa viene poi fatta offerta di cibo e bevande e tu non puoi esimerti dal farlo, perchè ti attireresti la maledizione del morto. Io lo so, perchè è successo con mio padre.” Smette un attimo di parlare, si accende una sigaretta e prosegue: “Quando lui morì, noi portammo a casa la sua testa e lui mi obbligava ad offrigli cibo e birra di miglio almeno una volta la settimana. Quando mia sorella si sposò, nessuno di noi si ricordò di portare la birra nuziale alla testa, affichè anche lei potesse gustarla e festeggiare con il resto della famiglia. Passavano i mesi, e mia sorella non rimaneva mai in cinta: lei piangeva e si disperava, il marito non sapeva più cosa pensare. Un giorno, il “sorcier”, lo stregone, ci chiese se avevamo offerto la birra di miglio alla testa di papà, il giorno del matrimonio. Noi rispondemmo di no, e allora lo stregone mi disse di correre subito da mio padre, perchè lui era arrabbiato con me e con mia sorella. Io andai da lui e, per placare la sua collera dovetti sgozzare e offrirgli capre, polli e agnelli. Solo così lui acconsentì a che mia sorella rimanesse in cinta. Sai, c’è gente, qui, che è capace di rubarti l’anima e portarla a lavorare nei campi, come una schiava. Capita che tu incontri una persona lungo la strada e poi la rivedi, qualche km dopo, che lavora in un campo. Ma quella che tu vedi è la sua anima, rapita dal sorcier” Ormai Victor parla a ruota libera: gli altri, dietro, dormono, ignari di cosa si stanno perdendo.
“Ma da voi non c’è il lamido’?” mi chiede Victor. Rispondo di no.
“Qui da noi il lamido’ può tutto. Ha potere di vita o di morte su tutti coloro che vivono all’interno del suo territorio. Il più temuto è il re velato, il lamidò di Rei Bouba. Nessuno lo ha mai visto in volto, ma si dice che sia un uomo molto malvagio. Nel suo palazzo c’è una gabbia dove rinchiude i criminali e li fà mangiare dai leoni, ma dicono anche che impasti con l’argilla i corpi dei condannati a morte e poi li faccia usare per costruire i muri dei suoi palazzi. Il re velato ha 60 mogli e oltre duecento figli, ma le donne possono andare anche con altri uomini perchè il lamidò le soddisfa una volta solamente, una ogni notte. Qui vicino c’è un villaggio dove i lamidò, dopo un po’ spariscono. Escono di casa per andare nei campi e poi più nessuno li vede, ma noi sappiamo che sono stati presi dai morti.
Un giorno o l’altro, io sarò sepolto vivo con il lamidò del mio villaggio, quando questi morirà. Lui mi ha scelto anni fà fra tutti i giovani del villaggio perchè ero il più coraggioso e io non posso rifiutare, lo devo accompagnare”.
“Ma non hai paura?” gli chiedo.
“Si, ma io sono Bamileké, e fra i Bamilieké questo è un onore che oltrepassa il valore della vita terrena”.
Il discorso è interrotto dallo scoppio della gomma posteriore, il che ci permette di scoprire che la ruota di scorta non è stata riparata. Moussa arriva dopo qualche minuto e, visto che in terra africana una soluzione si trova sempre, si monta la ruota di scorta del Range Rover: certo, la ruota è un po’ grande per il Toyota, e lo fà pendere tutto sulla destra, ma ho visto di peggio. L’importante, ora, è riuscire ad arrivare a Poli senza ulteriori forature.
Arriviamo a Poli verso le 3 del pomeriggio e ci fermiamo per far riparare la ruota. Mentre siamo lì ad aspettare, si avvicina a chiedere l’elemosina un vecchio vestito di stracci. Ha una pentola arrugginita in testa: il braccio destro, paralizzato, arriva oltre il ginocchio ed è talmente gonfio che pare scoppiare. Le unghie sono lunghe e ricurve, toccano quasi i polpastrelli delle dita. Chiedo cosa è successo ad un ragazzo appoggiato alla macchina. “Sono stati i bambini” dice “con le pietre”.
Roberta gli porge la pannocchia di mais bollito e lui intona una canzonetta tragicomica con cui ringrazia la signora bianca per la pannocchia che ha voluto regalare solo a lui. Attorno a lui i bambini ridono e lo schermiscono, crudeli. Terminata la canzoncina, il vecchio se ne va, accompagnato dalle risa dei bambini. Spero per lui che riesca a rimediare qualcos’altro, oltre la pannocchia.
Ripartiamo da Poli dopo circa un’ora.
“Un giorno o l’altro verrò in Europa, a vedere come vivete voi bianchi” riprende Victor.
“I nostri politici qui sono tutti corrotti, non lavorano per il bene del Paese. Pensano solo a mettersi in tasca più soldi possibile e, quando ci sono riusciti, se ne vanno”.
Penso divertita che tutto il mondo è paese.
“Una volta qui c’erano i coupeurs de route, i banditi. Una sera, mentre tornavo a Garoua, mi hanno fermato: volevano soldi, ma io non ne avevo perchè li avevo spesi tutti per comprare una macchina. Loro non mi credevano: dopo aver squarciato i sedili col coltello senza trovare nulla mi hanno picchiato a sangue. Non mi hanno ucciso, ma mi hanno detto di portare sempre con me dei soldi perchè, se mi avessero incontrato una seconda volta, non avrebbero avuto pietà. Così da quel giorno ho sempre qualche CFA in più, non si sa mai. Meno male che ora il Governo ha assoldato ex detenuti che pattugliano le strade e possono uccidere i coupeurs de route sul posto, senza nemmeno portarli in carcere. Adesso si viaggia più tranquilli.”
Da Poli a Garoua sono circa due ore di goudron, di strada asfaltata, e possiamo accelerare. Victor si diverte a “fare il pelo” alle persone che si siedono sul ciglio della strada ad aspettare un passaggio o, semplicemente, a dormire. Giustamente dice che è pericoloso perchè, la sera, sovente non li vedi e molti muoiono sotto alle ruote dei camion.
Ad un certo punto, Victor si sofferma a guardare il sole che pian piano sparisce all’orizzonte: “Vraiment, ça doit chauffer, là où le soleil se couche” dice. (Traduco: “Deve fare proprio caldo, là dove cala il sole”).
Come da copione, prima di arrivare a Garoua buchiamo un’altra volta, ma per fortuna la ruota di scorta è stata riparata veramente e riusciamo ad arrivare all Relais St. Hubert, dove ci congediamo da Victor e diamo appuntamento a Moussa per l’indomani mattina alle 7, con destinazione Guider.
Quella notte, in stanza, si parla di fantasmi tanto che, alla fine, sembra che siano lì con noi. L’unica presenza visibile, però, a parte qualche zanzara tenuta a distanza di sicurezza dall’aria condizionata, è il gechino rosa che abbiamo in bagno.
6 agosto 1998
La prima cosa che mi viene in mente quando vedo Moussa arrivare con il pulmino 4 x 4 da 14 posti è che l’hanno probabilmente progettato per il trasporto dei pigmei. Poi, visto che i pigmei non viaggiano tanto, hanno pensato di usarlo per i turisti.
Altra nota dolente: non c’è bagagliera, perchè quella che c’era è rotta e si trova a Ngaounderé, che dista da Garoua solamente qualche centinaio di chilometri. Ergo, le tonnellate di bagagli e casse devono essere caricate all’interno (dove non si sa). Altra nota dolente: quello è l’unico pulmino 4 x 4 reperibile a Garoua. Ergo, o mangi la minestra o salti dalla finestra. Un ultimo dettaglio: scopriamo che il motorino d’avviamento è un po’ difettoso quindi, ci dice Moussa, potrebbe capitare di dover spingere e sperare di ripartire.
Ergo cum est (e qui possono capirmi solo i miei compagni di viaggio), decidiamo di rimandare la partenza di qualche ora e cercare di porre rimedio ad almeno due delle tre lacune, vale a dire bagagliera e motorino d’avviamento.
Io, Gaia e Stefano andiamo con Moussa al garage vicino alla stazione di rifornimento, per vedere di rimediare una bagagliera o qualcosa di simile. Una volta arrivati, Moussa scende ed inizia a parlare con il capo meccanico, il quale fà giustamente notare che il nostro pulmino non ha nemmeno gli attacchi per una eventuale bagagliera. Stupore generale: in men che non si dica si forma un fitto capannello di persone che nulla hanno a che fare e che nulla sanno di cosa si stia parlando, ma che, comunque, partecipano alla discussione. Arrivano venditori di uova e di carne secca, impiegati in bicicletta che per caso passavano di lì e che ora sono parte integrante del gruppo, bambini con relative mamme, mendicanti, i passeggeri del bus di linea parcheggiato vicino al nostro scesi per sentire meglio cosa si dice. Insomma, nel giro di qualche minuto c’è mezza Garoua che discute della nostra bagagliera; non riusciamo nemmeno più a vedere Moussa, fagocitato dalla folla. Ovviamente, dopo qualche milione di parole, la discussione sembra essere stata costruttiva perchè un signore si fà spazio fra la folla e si avvicina a grandi passi al pulmino, con un trapano in mano: vuole fare quattro buchi sul tettuccio per poter fissare la bagagliera. Dapprima non ci credo, poi mi ricordo che sono in Africa, un posto dove tutto è possibile, ma bucare il tettuccio dell’unico pulmino a disposizione proprio non và. Precediamo nel suo intento il signore minaccioso e gridiamo a Moussa che và bene così, vogliamo provare a far stare tutti i bagagli dietro ai sedili. Con suo disappunto e con nostro sommo sollievo, il signore è costretto a posare il trapano.
Lasciamo l’affollatissima stazione di servizio e Moussa ci riporta alla Lasal Voyages, dove sarebbe passato a riprenderci una volta riparato il motorino d’avviamento. L’impiegato chiacchierone è al suo posto e mi accoglie con un sorriso smagliante: io ricambio il sorriso e lo colgo in contropiede prima che possa “armare la lingua”.
“Avez-vous des nouvelles de mon sac-à-dos?” domando velocissima. Inaspettatamente ricevo una risposta esauriente: la pratica del mio bagaglio è nella mani della signora Zenabou Saleh, capo commerciale dell’agenzia. In quel preciso istante la signora, che in passato ha lavorato per la Cam Air e sa con chi ha a che fare, è all’aeroporto per cercare di avere qualche informazione in più e per accertarsi che, nel frattempo, il mio zaino non sia arrivato.
In attesa che il pulmino venga riparato, passiamo il resto della giornata chi al bar di fronte alla Lasal Voyages, chi (io) avanti e indietro dall’aeroporto all’agenzia, dove ho occasione di fare quattro chiacchiere con madame Zenabou. Quest’ultima è una bella donna di circa 35 anni, sposata con due figli, separata da un marito che non faceva altro “che rompere” (testuali parole della signora). In passato ha lavorato per la Cameroon Airlines (di cui lamenta la disorganizzazione totale dovuta al vantaggio del monopolio sulle tratte interne) e per il Ministero del Turismo. Ora lavora per la Lasal Voyages, ma non è soddisfatta: anche se ha la possibilità di viaggiare, la paga non è superlativa e non ha prospettive di crescita professionale. Si domanda ancora perchè abbia voluto sposarsi e in quanto a uomini non transige: “un amante sì, un uomo in casa mia mai più”.
Comunque, anche se del mio bagaglio non c’è traccia (non avevo dubbi al riguardo), Zenabou ha buone speranze di riuscire a rintracciarlo.
Ripartiamo da Garoua molto tardi (sono le 7 di sera), ma Guider dista solo un centinaio di chilometri ed è tutta strada asfaltata. Il motorino d’avviamento è stato riparato.
L’unica auberge di Guider è Le Mayo Louti, sulla strada principale. Si fà un po’ fatica a riconoscerlo, visto che più che un albergo sembra un bunker. Tanto per rimanere in tema funerario (ultima notte a Wangay), le stanze sono dei loculi senza finestre, grandi abbastanza per contenere un letto a due piazze, un mini tavolo e una mini sedia. Totale passi che si possono fare in stanza prima di arrivare alla porta: circa 2, misurati di sbieco. Le pareti della stanza sono decorate da migliaia di piccoli uccellini stilizzati che, se fissati per oltre mezzo minuto, ti fanno venire mal di testa e non riesci nemmeno più a distinguere l’interruttore. Non si respira, ma per fortuna il custode ci porta un ventilatore che, per lo meno, sposta un po’ l’aria. Nella mini stanza che divido con Gaia e Francesco riesco a montare la zanzariera della tenda: non soffro di claustrofobia e anche se mi sembra di essere chiusa in due scatole (mi sento una matrioska) non invidio loro che dormono sui materassi di quel letto pulcioso.
Il bagno è comune, all’esterno. Mentre aspetto che Roberta finisca, passa di lì una varietà di fauna “domestica” africana: una blatta che pesa mezzo chilo (e che si infila sotto alla porta del bagno), un enorme ragno multigambe, un topo che costeggia senza fretta il canale di scolo dell’acqua. Ritrovo la blatta nel bagno, in compagnia di altre colleghe più piccole che corrono su è giù e scompaiono nei buchi sulle pareti.
7 agosto 1998
La mattina si procede all’inventario delle varie morsicature. Io sono indenne, ma chi ha voluto dormire senza “protezione” è ricamato da puntini rossi la cui grandezza e densità varia a seconda del tipo di animale.
Usciamo a fare colazione nel “bar” poco distante, che fà angolo con la strada che porta al mercato. Sul tetto di lamiera crescono delle piccole palme, concimate dalla sporcizia accumulatasi e imputridita nel corso del tempo. Ordiniamo thè e caffè, ma nessuno (e siamo tutti viaggiatori veterani) ha il coraggio di bere dalle tazze il cui colore originale, forse, era bianco. L’unico che azzarda una sorsata è Moussa, ma, alla fine, desiste anche lui.
Il mercato non è nulla di speciale: si vendono spezie, tessuti di qualità scadente, pesce secco, carne, verdura, pane, ciabatte, spezie, il tutto misto ai soliti colori, profumi e puzze tipici di un mercato africano. Oltre ad esporre sul suo banchetto un mucchietto di denti più o meno marci (non so bene se per venderli o per dimostrare quanto lui sia bravo), il dentista vende bottigliette di lassativo color crodino: l’etichetta, disegnata a mano, mostra una persona in posizione inequivocabile il che vuole dire che il lassativo funziona.
Torniamo a Le Mayo Louti dopo circa un’ora con l’intenzione di partire subito per Maroua e scopriamo che il custode se n’è andato con le chiavi, chiudendo dentro il pulmino (e quindi noi) con tanto di catenaccio e luchetto a doppia mandata. Impossibile quindi anche ogni tentativo di scassinaggio. Segue un’attesa di circa tre ore, durante le quali Stefano e Andrea riescono a farsi arrestare perchè viene loro chiesto di esibire l’autorizzazione per fotografare che, ovviamente, loro non hanno e mai nessuno avrà. Vengono portati in commissariato dove il capitano cerca di spillar loro un po’ di soldi, ma il tentativo non riesce e i due criminali vengono rilasciati.
Nel frattempo, Moussa ha sguinzagliato alcuni ragazzini per rintracciare il custode. Arriva anche l’arrabbiatissimo padrone dell’albergo, il quale non ha la minima idea di dove possa essere il solerte impiegato: noi, per ingannare l’attesa, mangiamo.
Maroua dista da Guider un centinaio di Km, tutti su buona strada asfaltata.
Passiamo nella zona del Pic de Moutouroua, attraversando un paesaggio fatto di massi dalle strane forme: sembra quasi che un gigante si sia divertito a metterli in bilico l’uno sull’altro.
Arriviamo a Maroua nel primo pomeriggio, ci sistemiamo nell’ottimo lodge vicino al fiume ed andiamo subito al Gran Marché dove, alla fine, compri anche se non vuoi (è il posto ideale per la mia mamma).
Destinazione del giorno dopo: il sultanato di Gulfey, al confine con il Chad.
Condizione pista: sconosciuta.
Possibilità di impaltanamento: alta.
Speranza di arrivare: molto poca.
8 agosto 1998
Da Maroua partiamo in direzione nord e costeggiamo il parco del Waza: a parte qualche decina di gru coronate che razzolano tranquillamente vicino alla strada, le erbe altissime in brousse precludono qualsiasi possibilità di vedere gli animali.
L’immensità del paesaggio è persino monotona: la strada, asfaltata, è una linea retta e infinita che si perde alla vista, quasi sciolta dal sole cocente. Sulla nostra sinistra c’è già la Nigeria, ad est il Chad.
Dopo tre ore di noia infinita come la strada arriviamo a Maltam: al bivio si gira a destra, imbocchiamo la pista per Gulfey. Al posto di blocco i soldati sorridono e ci dicono che la pista è brutta, “peut être vous n’y arriverez pas”, forse non ci arrivate. Ringraziamo per l’informazione, ma ci proviamo ugualmente.
Effettivamente la pista è brutta, ma non impraticabile. Il paesaggio è suggestivo, sembra diverso persino il colore del cielo: avanziamo verso nord, tagliando in linea retta una landa semi-desertica dove spuntano di tanto in tanto i saré (villaggi) di pastori nomadi. Tratti buoni si alternano a veri e propri acquitrini e dune di melma: il pulmino arranca, sobbalza, slitta, affonda per poi riemergere da quel mare di fango.
Gulfey la Bella
Fra sobbalzi, impaltanamenti e spinte varie arriviamo a destinazione nel primo pomeriggio. Dobbiamo cercare la chefferie per avere il permesso di rimanere dal sultano, ma Moussa non ricorda bene dove questa si ubicata. Gulfey ci accoglie fra i suoi grandi viali ombreggiati, ai lati dei quali fà bella mostra di sè l’architettura sudanese: le case, in argilla mista a paglia e pietrisco, hanno forme arrotondate e sinuose, sono imponenti e solide, belle da vedere, belle da toccare. Il cielo blu e il sole splendente completano quel paesaggio da favola.
Sfortunatamente il sultano è fuori in missione, ma il suo segretario è ben lieto di poter ospitare i massarà. Ci conduce poco distante, vicino al fiume, all’interno di una specie di complesso residenziale costruito da un uomo d’affari camerunense che ora vive in Nigeria: al fondo del grande cortile c’è la sua villetta, sulla sinistra una serie di appartamenti vuoti di cui possiamo usufruire. C’è anche una grossa pompa, dalla quale tutto il paese, con un incessante andirivieni, attinge acqua calda e ferrosa .
Al di là del fiume Logone, quindi a circa un centinaio di metri da noi, c’è il Chad.
Di concezione tipicamente occidentale, il complesso in cui ci troviamo stona clamorosamente con il resto di Gulfey, ma supponiamo che il padrone volesse farne un punto di commercio e di passaggio per i viaggiatori da e per il Chad. Probabilmente poi l’idea non aveva avuto successo ed ora il tutto si trova in stato di semi-abbandono.
Scarichiamo i bagagli e li sistemiamo all’interno delle due camere che il guardiano ha aperto per noi: sono grandi, vuote e caldissime. Moussa si sistema nella camera attigua.
Il flusso dei bambini è controllato dal cane del guardiano: li osserva vigile da lontano e quando giudica che stiano aumentando un po’ troppo si avventa contro di loro abbaiando e ringhiando. Segue un fuggi-fuggi generale e il cagnone torna a fare cuccia sulla veranda della villetta.
Terminato di sistemare armi e bagagli, Stefano costruisce una doccia rudimentale con una borsa di nylon: tira una corda fra due pali, vi fà passare i manici e, una volta riempita d’acqua, la buca con uno stuzzicadenti. Dopo essersi lavato le mani, però, dimentica la bottiglietta di shampoo alla mela per terra, vicino all’albero: lo shampoo è arancione, e sull’etichetta sono stampate delle belle mele rosse. Mentre mi avvicino per raccogliere la bottiglietta, un bambino, approfittando della momentanea assenza del custode, si avventa sulla bottiglia e trangugia lo shampoo, probabilmente fuorviato dalle mele dell’etichetta e dal colore. Cerco di afferrare al volo lo shampoo, ma mi scivola, ed il danno è presto fatto: il bimbo butta a terra la bottiglietta semivuota e scappa, io me lo immagino mentre parla e dalla bocca gli escono le bolle di sapone.
I numeri di Ali Mahamat, Sultano di Gulfey
* è sul trono da 50 anni
* ha 63 anni
* 33 mogli di varie classi sociali
* 27 figli
* 50 nipoti
A memoria di passati splendori è stato ricostruito il vecchio palazzo del sultano, che noi ci accingiamo a visitare accompagnati da un suo notabile, un personaggio imponente che guiderà tutta la nostra visita. Dico imponente perchè quest’uomo dal portamento regale, avvolto nel suo bubù azzurro cielo e bordato d’oro, è alto quasi due metri e per coprire la distanza che lui fà con un passo io devo farne due di corsa.
Nell’antichità Gulfey era protetta da una grande cinta muraria ed aveva 6 porte di accesso. Ora di tutto ciò rimangono solamente l’arcata della porta nord-est ed alcuni ruderi che danno una vaga idea di quanto imponenti fossero le protezioni.
Il vecchio palazzo del sultano riproduce fedelmente i locali in cui quest’ultimo e la corte passavano la maggior parte del tempo. Si tratta di un grande palazzo degli arabi Choi, dalle forme arrotondate, fatto in argilla pressata a paglia e detriti: il cortile interno ospita la riproduzione di 3 case Kotoko che mostrano come lo stile di costruzione sia variato e si sia adattato ai tempi.
Tutte e tre sono in argilla mista a paglia: la prima, costruita in un epoca di guerre tribali, ha un palo interno centrale che sostiene il tetto . Appena entrati, il livello del pavimento scende di almeno 20 cm e, non sapendolo, si rischia di cadere: questo per ostacolare e cogliere di sorpresa chiunque avesse cercato di forzare l’entrata della capanna. La capanna non ha una porta vera e propria, ma in caso di pericolo l’apertura veniva chiusa con lo scudo, di cui copiava forma e dimensioni. All’interno vi sono poche suppellettili, qualche calebasse, alcune giare, il focolare. Un muretto, pensato ad ulteriore protezione contro eventuali attacchi, divide il primo vano dal dormitorio.
La forma della seconda capanna non differisce dalla prima, ma il palo centrale è stato sostituito da una traversa interna, il che aumenta lo spazio di movimento. Nel vano centrale si accolgono gli ospiti: non c’è più il gradino trabocchetto e sono aumentate le suppellettili, per rendere la casa più accogliente. Gli animali hanno un proprio spazio, mentre prima erano custoditi nel dormitorio.
Il tetto della terza capanna è a punta, senza alcun palo o traversa di sostegno. La parte centrale è occupata da una piattaforma quadrata in legno che poggia su quattro sostegni: il suo interno è coperto da pelli di capra ed è drappeggiata con dei teli che fungono da zanzariera. Il fatto che buona parte della casa sia occupata dal letto, indica che la famiglia stava vivendo in tempi di pace e non doveva più temere per la propria vita .
Entriamo ora nel palazzo del Sultano.
Il suo trono sta al centro della sala delle udienze, fra due porte. Di fronte a lui erano schierati i dignitari di corte che, a turno, potevano parlare. La porta di destra conduce all’ala del palazzo occupata dalla moglie del sultano e le sue dame: quest’ultima non usciva mai dal palazzo e non era ammessa nella sala delle udienze. Ella poteva parlare al marito solamente bisbigliando da dietro alla porta.
Passiamo attraverso le sale degli ospiti e dei bambini, cortiletti e vani, tutti collegati fra loro da una serie di corridoi stretti fra mura solide e imponenti. Tutta la struttura è sinuosa, senza spigolature: le pareti sono leggermente bombate all’esterno, le porte arrotondate, sembrano quasi le forme ridondanti di una bella donna.
La torre del palazzo, chiamata Goto Gulfey o Sarsar Mani, dal nome del sergente chadiano che vi si rifugiò, permetteva di tenere sotto controllo tutto il territorio circostante e avrebbe garantito al sultano abbastanza preavviso da permettergli di fuggire in caso di pericolo. Il palazzo stesso era costruito in modo tale da offrire al sultano e alla corte una via di fuga sempre opposta alla direzione di arrivo del nemico. Anche le due porte sistemate ai lati del trono erano vie di fuga ed immettevano in corridoi che sbucavano all’esterno del palazzo, ogn’uno in direzione diversa.
Terminata la visita del vecchio palazzo ci facciamo accompagnare dal custode a vedere la sala dove il sultano odierno riceve e dà udienza ai suoi sudditi. Questa è un grande salone all’interno della cinta muraria della chefferie: il pavimento è completamente coperto dai tappeti mentre alle pareti sono appesi diplomi, onorificienze e fotografie del sultano in compagnia di altri personaggi dall’aria molto importante. Nel centro della sala c’è il suo trono di pelle nera, ai lati del quale fanno bella mostra due grandi corna di bufalo: allineati lungo tutto il perimetro della sala ci sono poltrone e divani di vellutino ocra dove possono prendere posto i ministri. Noi ci fermiamo sulla soglia e da lì scattiamo qualche fotografia: anche se il sultano non c’è, nessuno di noi osa entrare e calpestare quei tappeti polverosi dove tutti, indistintamente, si toglierebbero le scarpe.
Ringraziamo il guardiano per averci concesso di entrare clandestinamente, lo congediamo e terminiamo la giornata con una passeggiata fra la vie di Gulfey, pedinati da una massa confusa di bambini. Il sole sta calando e scalda i colori del paesaggio. Il Chad si specchia nel fiume che scorre placido di fianco a noi: alcune persone, dall’altra parte, ci salutano con un cenno della mano.
Ci sono mamme che lavano i panni al fiume, bambini che giocano, pescatori che tornano a casa. Poco distante, un gruppo di donne sta separando il riso dalla pula: lo prendono a manciate e lo lasciano cadere dall’alto. Il vento porta via la pula in un turbinio di polvere, il riso rimane a terra. Sono belle, le donne di Gulfey, avvolte nei sari multicolori.
Io e Gaia ci stacchiamo pian piano dagli altri, con l’intento e la speranza di seminare l’esercito di bambini, ma non abbiamo molto successo: una parte del battaglione si accorge della nostra manovra e ci segue nel labirinto di vicoli che si snoda all’interno del villaggio.
All’interno di un cortiletto scorgiamo due ragazze sedute per terra: vendono henné in polvere e Gaia decide di farsi dipingere le mani. Entriamo e ci sediamo a terra, mentre la massa di ragazzini al seguito viene con nostro sollievo ricacciata fuori con l’aiuto di una verga. Le due ragazze non devono avere più di 16-17 anni, ma entrambe hanno già provveduto a sfornare un marmocchio: una è molto bella, avvolta in un sari rosa fuscia che ne accentua i tratti arabizzanti e gli occhi nerissimi. E’ lei che mostra a Gaia il quadernetto per scegliere il disegno ed è lei che inizia a decorare la mano, mentre la compagna và a comprare olio e limoncini: il succo dei limoni fà cambiare il colore dell’henné da rosso a nero e lo fissa sulla pelle, mentre l’olio protegge il disegno. L’operazione, però, dura più a lungo del previsto e io vedo le ombre allungarsi sempre più: il disco del sole, che prima era alto di fronte a me, sta pian piano ma inesorabilmente affondando dietro ai tetti rossi e levigati delle case. Non voglio rimaner fuori col buio, primo perchè non abbiamo uno straccio di torcia e rischieremmo di perderci in quella ragnatela di vicoli, secondo perchè il buio trasforma l’anima degli uomini e dà più coraggio ai malintenzionati. Quindi, anche se il disegno non è ancora perfetto, dico a Gaia di pagare e ce ne andiamo, fagocitate nuovamente dalla folla di monelli che non ha abbandonato la postazione.
Torniamo sui nostri passi e ci immettiamo nel grande viale a noi ormai famigliare, avvolte nella brezza leggera e calda che sale dal fiume. Attorno a noi l’attività frenetica del giorno và pian piano assopendosi: gli ambulanti stanno riponendo la mercanzia e si avviano verso casa, i bambini ci abbandonano e scompaiono all’interno delle case, i pescatori hanno tirato a riva tutte le barche e le sponde del fiume sono ormai deserte.
C’è luna piena questa sera, ed è bellissimo. Scendo al fiume e mi fermo ad ammirarla, incantata: lei è di fronte a me, sull’altra sponda, tanto grande e lucente che mi sembra di poterla toccare. Il suo riflesso si prolunga nel fiume quieto ed è come lo strascico di un abito nuziale, increspato qua e là dalla brezza dispettosa.
“E’ prontooooooo” tuona Dorella dal cortile.
Tornando a cose più terrene questa sera si mangiano nuovamente tortellini alla panna, buoni, ma terribilmente pesanti e poco adatti al clima caldissimo-umidissimo del posto. L’effetto, infatti, è micidiale perchè inizi a sudare e non ti fermi più: unico rimedio per avere un po’ di sollievo (all’interno del cortile non si muove foglia) è continuare a camminare sventolando una maglietta, che serve anche a tener lontane le zanzare. Sembriamo un po’ i pazzi che giravano in tondo nella prigione turca del film “Fuga di mezzanotte” e, dopo un po’, decido per motivi di forza maggiore d’andare in tenda o, meglio, d’andare in sauna.
Terribile. Abbiamo montato le zanzariere dentro alle stanze, un po’ per sicurezza, un po’ per evitare acquazzoni improvvisi: l’effetto matrioska è decuplicato, la mancanza d’aria è totale. E’ difficile rendere l’idea di come ci si senta, perchè dire che si soffoca non è abbastanza. E’ la stessa sensazione che provi quando infili la testa in un sacchetto di nylon e poi continui a respirare sino a quando il nylon si appiccica a bocca e narici: più cerchi di respirare, più ti accorgi che non c’è aria. Devo solo restare calma, cercare di muovermi il meno possibile: sposto l’attenzione sui discorsi degli altri, rimasti ancora fuori, e pian piano sento il sonno arrivare, mentre le loro voci sono sempre più lontane.
Dormo come un ghiro, ma la prima cosa che vedo la mattina quando apro gli occhi è la grossa zanzara gonfia di sangue che mi sta a dieci centimetri dal naso: bene, speriamo solo che non sia un’anofele perchè il sangue, senza ombra di dubbio, è il mio.
Se io ho il problema della zanzara, ma per il resto sono abbastanza integra, gli altri sono stati letteralmente massacrati dalle pulci e da altri animali che preferiamo non vedere: Dorella e Gaia sono piene di bubboni sparsi su natiche, cosce e polpacci. Addirittura, Dorella ha delle pustole infette che peggioreranno col passare del tempo e la costringeranno a farsi iniezioni di antibiotici: Francesco, Andrea e Roberto sono disseminati di puntini rossi più o meno grandi, più o meno densi, a seconda di quante pulci si sono concentrate sulla stessa zona. Il prurito è da paura ed è contagioso, perchè è sufficiente che uno inizi a grattare per scatenare un “grattone” generale.
Il mio modestissimo consiglio, per chi vuole viaggiare in Africa ed evitare questi inconvenienti, è di non andare mai in giro in ciabattine, con gonne o pantaloni corti. Non sedetevi a terra (anche se c’è il cemento) soprattutto se è buio e per quanto caldo faccia non lasciate a casa le scarpe da trekking, i pantaloni lunghi e le camicie con le maniche lunghe: forse suderete un po’, ma non gratterete come degli ossessi sino a portarvi via la pelle.
9 agosto 1998
Ripartiamo da Gulfey alle 8, per tornare a Maroua.
Fortunatamente non ha piovuto ma questo non ci impedisce d’impaltanarci: Moussa sbaglia una manovra e ci ritroviamo piantati in mezzo metro di fango liquido, con possibilità di movimento praticamente nulla. Ergo, si spinge: c’è chi si toglie le scarpe, chi se le tiene, chi salta da una pozzanghera all’altra e finisce comunque nel fango, chi spinge proprio sulla scia della ruota e si ritrova colore del fango. Tutti collaborano, tutti si infangano, ma alla fine il pulmino riparte. Segue un secondo impaltanamento, ma questa volta basta scendere perchè il mezzo esca da solo.
Prima di arrivare a Maroua ci fermiamo al mercato di Mora.
Si tratta più che altro di un pausa per bere e riposarci, visto che al mercato non si vende nulla di artigianale, solo generi alimentari e materiale per il lavoro in campagna. Gironzoliamo qua e là fra le bancarelle dei venditori di pesce secco, cipolle, carne secca: mi piacciono molto le bancarelle dei venditori di sale, perchè lo espongono a mò di tante piccole piramidi. Gli abiti delle donne hanno colori così sgargianti che, uniti alla luce del sole, ti accecano.
Ripartiamo dopo circa un’ora, sotto ad un sole cocente. Sulla strada incrociamo un uomo che tiene 4 cani scheletrici legati ad una corda.
“Vedi quei cani?” mi chiede Moussa. “Sì” rispondo “ma dove li porta?”.
“Li ha comprati al mercato. Li porta al villaggio, sulle montagne, per mangiarli”.
Arriviamo a Maroua nel tardo pomeriggio e visto che non abbiamo nulla in programma andiamo a fare un giro al Grand Marché.
Siccome non è mia intenzione caricarmi di statue, statuine e statuette, mi siedo su una panca all’entrata del mercato, ad aspettare che si concludano gli acquisti. Ben presto i venditori si rendono conto che non riuscirebbero a spillarmi un solo CFA e mi abbandonano, concentrandosi sugli altri massarà: in questo modo, persa in mezzo alla folla, posso osservare in pace la confusione umana che mi sta attorno. Ad un certo punto si avvicina a mè un vecchio mendicante: gli mancano le gambe dal ginocchio in giù e l’unico modo in cui si può muovere è di stare seduto a terra, col busto eretto, trascinandosi in avanti a forza di braccia. Gli dò qualche CFA, lui mi ringrazia e scompare pian piano nella foresta di gambe umane. Mentre lo guardo allontanarsi non oso o non riesco a pensare come questa persona possa vivere: basterebbe una tavoletta di legno con quattro rotelle per rendergli la vita più sopportabile.
La sera Moussa ci porta a cena da Chez Justine, una casa privata trasformata in ristorante e gestita da due donne sulla trentina. Ci sediamo all’interno, su divani di vellutino bordeaux e marrone stracarichi di polvere, adorni di centrini che ricordano quelli della nonna: alle pareti ci sono quadretti storti della Madonna e di Gesù, due credenze sbilenche e scricchiolanti custodiscono bicchieri di tutte le forme e tovaglie alquanto sdrucite. Un capace frigorifero anni ’60 fornisce bibite e birra fredda. Tutto ha sapore e odore di vecchio, stantio, ma Justine è rinomata per il cibo che offre e, in effetti, non viene smentita. Una donna scarmigliata arriva portando in tavola due “capitaines” (grosso pesce di fiume, tipo branzino) alla griglia, accompagnati da una montagna di patate fritte e salsine varie: tutto ottimo e abbondante, ma non chiedete thè o caffè perchè non ce l’hanno, a meno che non ve lo portiate da casa. Paghiamo circa seimila lire a testa incluse bibite e birra e siamo sicuri che torneremo a trovarle.
10 agosto 1998
Il sultanato di Pouss
La pista per Pouss è molto brutta, ma fortunatamente il vento si porterà via le nuvole gonfie di pioggia che abbiamo sulla testa sin da quando abbiamo lasciato Maroua.
Pouss è bella, sembra uscita da una favola. Il villaggio si stende al riparo di alberi probabilmente centenari e la terra rossa delle case spicca fra il verde brillante delle fronde. Procediamo lentamente lungo i viali di terra battuta sino alla piazza della chefferie, per chiedere udienza al sultano ed avere il permesso di rimanere.
La chefferie sembra un piccolo castello medievale: è circondata da un’alto muro di protezione e la facciata è decorata da coloratissimi disegni stilizzati fra cui spiccano un cavallo, un aereo a elica e un’automobile. Sulla sinistra, vicino al portone d’ingresso, c’è il tugul, sotto il quale sono riuniti a chiacchierare i notabili del sultano; sulla destra, sotto ad un albero, giace semi-affondato nella sabbia il rottame di una vecchia Oldsmibile americana arrivata lì chissà come. Due cavalli pascolano tranquillamente su un lato della piazza.
Moussa parcheggia il pulmino sotto all’albero, vicino alla Odlsmobile, quindi a circa 100 metri dal muro di cinta. Scende, si toglie le scarpe, ed entra in quello che io definisco il “cerchio magico” della chefferie: tradizione vuole infatti che ci si tolga le scarpe prima di entrare in casa d’altri e così stava facendo Moussa, perchè la piazza è già casa del sultano. Noi rimaniamo al limite del cerchio, ad aspettare che ci venga accordato di entrare.
“Il segretario dice che il sultano sta pregando” ci comunica Moussa di ritorno “ma ci riceverà entro breve”.
Attendiamo circa 20 minuti prima che ci venga concesso di entrare, il tempo necessario perchè il sultano finisca la preghiera e si prepari a riceverci.
C’è emozione mentre seguiamo il segretario attraverso il corridoio che immette nella chefferie: in fondo, per noi tutti è il primo incontro con un sultano in carne e ossa.
Il corridoio sbocca su un cortiletto rettangolare, a cielo aperto: sulla sinistra c’è una costruzione che scopriremo essere la sala delle udienze “al coperto”, dritto di fronte a noi un grosso portale ornato da disegni multicolori immette nelle stanze più interne del palazzo, sulla nostra sinistra c’è Lui.
Il sultano è un uomo di circa 60 anni, con sei dita nella mano destra e sei nella mano sinistra: ci riceve nel cortile del palazzo, seduto su uno scranno sistemato sotto ad una tettoia di frasche che lo protegge dal sole. Attorno a lui, seduti sulle stuoie, ci sono i suoi notabili e segretari. Porta occhiali scuri (e solo in seguito capiremo che non è un vezzo, ma un modo per nascondere la sua semi-cecità) e un bubù azzurro e bianco. Tiene le mani appoggiate sui braccioli dello scranno, il busto eretto, la testa alta di fronte a noi, ha la voce roca e profonda: la sua persona emana autorità e rispetto assoluti.
Prima di prendere posto di fronte a lui, chi seduto a terra, chi sulle sedie, passiamo a stringere la mano a tutti quei personaggi usciti da un libro di fiabe. Poichè il sultano non parla francese (anche se lo capisce), Moussa e il segretario ci fanno a turno da interprete.
Dopo i saluti ed i ringraziamenti di rito, gli diciamo che quella è la chefferie più bella che abbiamo visto sin’ora. “La mia famiglia la ereditò dagli avi ed è nostro intento mantenerla nella sua struttura originale. Alla fine della stagione delle piogge, però, dobbiamo ritoccare tutti gli affreschi perchè l’acqua li fà sbiadire” risponde lui orgoglioso.
Segue un momento di imbarazzato silenzio, durante il quale la domanda negli occhi di tutti è “cosa facciamo ora?”
Visto che sono l’unica a poter inziare una qualche conversazione chiedo a Moussa se possiamo fare domande inerenti la vita del sultano e il suo stato matrimoniale: avevamo sentito parlare talmento tanto di sultani e lamidò che ora, trovandomene uno davanti, non posso non verificare se quanto mi avevano detto corrisponde effettivamente a verità.
Moussa non crede alle sue orecchie, e mi guarda sgranando gli occhi: probabilmente, in quel preciso momento avrebbe voluto essere distante mille chilometri e non averci mai conosciuti. Il sultano, però, ha capito la domanda ed acconsente di buon grado, agevolando così Moussa che non sarebbe riuscito a spiccicare una parola.
“Quante mogli ha Monsieur le Sultan?” chiedo.
“Ho quattro mogli, ma voglio arrivare a sei. Una volta avevo 20 figli, ma me ne rimangono due, gli altri sono tutti morti. Vedi, una volta gli uomini erano molto più forti di adesso: mio nonno aveva 24 mogli e 300 figli. Adesso, invece, un uomo non ce la fa più a soddisfare quattro donne per volta. Voglio prendere una donna giovane, che mi dia dei figli forti”.
“Ma la donna può rifiutare di diventare moglie di Monsieur le Sultan?” rilancio io, mentre Moussa inzia a scavare il buco dove sotterrarsi e Dorella sibila un “stai attenta, può essere offensivo”.
Il sultano mi guarda, scuote la testa, sorride e prosegue “Al tempo dei miei avi era il sultano a scegliere la donna, e un rifiuto non era accettato. Addirittura, se il ministro del sultano vedeva per strada una donna e la riteneva abbastanza bella da piacere al suo padrone, ebbene il ministro aveva il diritto di rapire la donna e portarla a palazzo, senza che nessuno della famiglia potesse opporsi. Ora, però, i tempi sono cambiati. La donna può rifiutare di sposare un sultano, specialmente se è giovane e bella e il sultano è un uomo vecchio come me. Il mondo cambia, signora, e con esso le tradizioni”.
“Ma le sue due mogli vivono nella stessa casa?”
“No, no. Ogni moglie vive separata dalle altre, ha la propria casa. Il sultano assegna ad ogni moglie un suo ministro, affinchè egli l’accudisca e funga da intermediario fra lei e il marito”.
Terminato l’argomento scabroso, gli chiedo se il titolo di Sultano viene acquisito per discendenza o per votazione popolare.
“Mio padre scelse me sul letto di morte, ma io avrei potuto essere deposto se non fossi stato all’altezza del compito che mi veniva assegnato. In quel caso, il popolo avrebbe votato ed eletto il nuovo sultano. Il sultano è signore e padrone del suo territorio: ha al proprio servizio dei ministri, ogn’uno responsabile per un settore specifico di attività. Il sultano è arbitro nei contenziosi, ma ora i criminali vengono portati alla gendarmeria per il processo. Tanto tempo fà egli poteva giudicare i criminali, e condannarli a morte: ora, questo non succede più o, per lo meno, non è nostra abitudine farlo. Ma ora ditemi”, prosegue il sultano “che lavoro fate in Europa? E chi di voi è sposato?”
Mi accingo quindi ad illustrare l’occupazione di ogn’uno, anche se risulta leggermente complicato spiegare ad un sultano cosa faccia un impiegato comunale che si occupa di statistica oppure cosa siano le gabbiette fermatappi. Di sposati, fra noi, ce ne sono proprio pochi: me la sbrigo in quattro e quattr’otto e desto lo stupore del mio interlocutore che non riesce a credere alle sue orecchie. Dopodichè Moussa si permette di suggerire che è tempo d’andare: abbiamo sottratto il sultano ai suoi doveri per troppo tempo.
Ripetiamo quindi la parata di inchini e strette di mano, lo ringraziamo nuovamente ed usciamo.
A Pouss non esiste alcun tipo di albergo o casa che possa ospitare i visitatori e il segretario ci accompagna nel posto in cui dovremmo pernottare, che è praticamente la casupola del custode di un ovile. L’apertura della porta sprangata causa un fuggi-fuggi generale di pipistrelli, disturbati nel sonno da intrusi inattesi, nonchè libera una puzza spaventosa rimasta relegata a macerare probabilmente per mesi all’interno di quei quattro muri; inoltre, il pavimento è coperto da stuoie polverose e tutti sappiamo bene quali e quanti minuscoli ospiti dette stuoie possano ospitare. Per disinfestare quella stanza ci sarebbe voluta una squadra speciale con tanto di scafandro. Quindi, dietro-front.
Altra opzione è quella di montare le tende all’esterno, ma nemmeno questa ci convince più di tanto: il cortiletto antistante è letteralmente invaso da formiche giganti e poi, per via dello spazio ridotto, le tende finirebbero con l’essere pericolosamente a ridosso all’ovile.
Siamo scoraggiati. Non c’è posto sicuro per sedersi, non sembra esserci altro posto per dormire, la pompa dell’acqua è lontanissima. Perso per perso, Andrea decide di farsi accompagnare da Moussa a cercare un altro posto: sulla strada, prima di entrare a Pouss, avevamo visto delle case con il porticato. Sembravano disabitate e avremmo quindi potuto mettere le tende sotto ai portici, senza peraltro disturbare nessuno.
A questo punto, per risollevare il morale a noi rimasti , di tacito e comune accordo decidiamo che non ci resta altro da fare che mangiare: tiriamo fuori dalle casse l’onnipresente e sacrosanta Nutella e ci facciamo dei gran panini, non senza prima aver rivolto un pensiero di ringraziamento al Sultano per averci ficcato in quel tugurio. Intanto è comparso il custode dell’ovile il quale non capisce perchè siamo così riluttanti ad entrare nella stanza che ci ha gentilmente prestato.
Andrea torna dopo circa mezz’ora, in trionfo. Il sultano, informato delle nostre difficoltà logistiche, ci ha assegnato due guardiani e ci ha concesso di spostarci sulla spianata di cemento di fianco al campo di pallavolo, vicino alle tre case ad obice che avevamo incrociato prima di arrivare alla piazza della chefferie: siamo all’aria aperta, lo spiazzo è pulito ed offre abbondanza di spazio per tutte le tende e per il posto cucina, la pompa dell’acqua è a circa 100 metri, un grosso porticato ci protegge dalla pioggia. Di meglio, a Pouss, non si può proprio trovare.
Il trasferimento è presto fatto e per le quattro tutto è sistemato. Mentre gli altri si radunano attorno al campo di pallavolo dove sta iniziando la partita, io mi volto ad osservare le tre costruzioni di terra rossa, conosciute con il nome di
Case obice
La forma di una casa obice è quella tipica di un granaio. In origine, tutte le case di Pouss erano ad obice, ma le difficoltà di costruzione avevano pian piano provocato l’abbandono di una tradizione che richiedeva troppo tempo e maestria, favorendo costruzioni meno belle, ma senz’altro più sbrigative.
La casa ad obice non ha struttura portante interna ed è costruita con un impasto di argilla, erbe fini, escrementi di capra, poca sabbia e molta acqua: prima di essere usato, l’impasto deve essere lasciato a macerare per 5 giorni, affinchè diventi abbastanza denso da garantire stabilità alle pareti.
Vista da lontano, la forma della porta sembra quella di una serratura, ma in realtà copia il “deretano” (scusate la parola, ma rende l’idea) di una mucca, perchè in origine le case custodivano i bovini. Inoltre, la porta ha la stessa forma e dimensioni dello scudo con il quale la famiglia avrebbe potuto sbarrarla in tempo di guerra o in caso di pericolo.
Ora a Pouss si è creato un comitato giovanile che, aiutato da un’associazione americana, vuole incoraggiare la ricostruzione di queste case sia per incentivare il turismo, sia per mantenere viva una tradizione ultracentenaria. Ed è da uno di questi ragazzi che io ho ricevuto tutte queste informazioni.
La partita di pallavolo termina poco prima che il sole scompaia: anche oggi ha fatto caldo, anche oggi, per fortuna, non ha piovuto. Speriamo in bene per domani, giorno di mercato.
Faccio un ultimo appunto prima di chiudere questa giornata: i bambini di Pouss sono antipatici, invadenti e dispettosi. Chiedete al guardiano di tenerli sempre a debita distanza dalle tende e state attenti alle pietre: sono dei buoni tiratori.
11 agosto 1998
Mi sveglio alle 5, ma non oso ancora alzarmi e iniziare a smontare la tenda perchè mi attirerei addosso gli improperi di tutti: mezz’ora dopo inizia già a fare caldo e decido che ne ho abbastanza, visto che c’è Stefano a farmi compagnia. Gli altri decidono di uscire dalle tende circa un’ora dopo, quando tutti i bambini del villaggio si sono già radunati attorno all’accampamento per il consueto (e inconsueto) spettacolo.
Io inganno il tempo seduta ad osservare il via vai di persone che si và infittendo col passare dei minuti: passano bambini con in testa pile di frittelle, donne cariche di ceste, vitelli disubbidienti fuggiti al padrone che ora li rincorre agitando un bastone, capre recalcitranti che puntano gli zoccoli e si rifiutano di proseguire. Arriva un taxi-brousse cigolante e sgangherato e riesco a contare in tutto venticinque persone, chi stipato all’interno e chi letteralmente aggrappato ad ogni singolo centimetro di lamiera che non sia ancora occupato da galline, ceste, esseri umani. Dalla casa obice di fronte a me fà capolino un cavallo bianco: cerco di avvicinarmi per accarezzarlo, ma lui ha paura e si allontana saltellando, visto che gli hanno legato le zampe anteriori perchè non possa galoppare. Poi ci ripensa e torna, claudicante, nella casa obice: cerco nuovamente di avvicinarmi, ma lui si nasconde all’interno, scomparendo nel buio. Appena io mi allontano, lui mette fuori la testa e mi guarda: allora mi fermo, fingo di voltarmi. Ed ecco che il cavallino curioso scompare nuovamente. Giochiamo così per un buon quarto d’ora, ma lui ha troppa paura per farsi toccare: ora sono arrivata sulla porta e lui si rintana nell’angolo più buio e lontano da me. Poverino, è magro come un chiodo, non mi stupisco che riesca ad entrare ed uscire da lì senza problemi. Masai (il mio cavallo) rimarrebbe senza dubbio incastrato.
Lascio tranquillo il cavallino e raggiungo Stefano sul campo di pallavolo: sta cercando di organizzare un gioco a premi con i bambini, ma ha bisogno di un’interprete e di qualcuno che lo aiuti a tenere a bada una masnada di monelli ingovernabili all’ennesima potenza. Scopo della gara è premiare con una T-shirt il bimbo che riesce a fare due canestri di seguito: per far ciò devo
a) spiegare il gioco mentre Stefano si prodiga nel mostrar loro come si palleggia e si arriva sotto canestro
b) cercare di mettere in fila (e tenerceli) circa una trentina di bambini che spingono, bisticciano, si picchiano, minacciano i più piccoli cercando di passar loro davanti e non mantengono il posto assegnato per più di 3 secondi
c) spiegare che si viene eliminati e non si ha più diritto di tirare se il primo canestro è andato buco. Quindi, il ragazzino eliminato deve educatamente mettersi di lato.
Ora, tutto ciò potrebbe sembrare tremendamente semplice, ma non dimentichiamo con chi abbiamo a che fare. Tenere i ragazzini in fila è di per sè già un’impresa, ma il tenere fuori gli eliminati è impossibile: approfittando del marasma generale ci sono ragazzini che ti sfuggono non appena giri l’occhio e si infilano fra quelli che devono ancora tirare, provocando liti infinite. I più piccoli sono i più boicottati, visto che non riescono a difendersi e vengono costantemente spinti al fondo della fila, dove puntualmente vado a riprenderli in lacrime per passarli a Stefano, che a sua volta li prende in braccio e li alza a livello del canestro affinchè possano orgoglisamente esibirsi nel lancio. L’unica soluzione per “tenere i conti” è cercare di contraddistinguere ogn’uno in base alla maglietta, all’altezza o comunque a qualche caratteristica che in qualche modo riesca a dirti “attenzione, lui ha già tirato!”.
Finalmente la gara termina decretando un vincitore senz’altro meritevole che strappa la maglietta dalle mani di Stefano e se la dà a gambe in spalla, inseguito dal “mucchio selvaggio”: In mezzo al campo rimaniamo noi due, esausti e senza voce.
Prima di essere condotti al mercato, il segretario del sultano ci informa che quest’ultimo ha espresso il desiderio di vederci: ad un sultano nulla si può rifiutare e quindi ci avviamo di buon grado a piedi verso la chefferie. Quando arriviamo lui è già lì, assistito dai suoi notabili, seduto sullo scranno sotto alla tettoia di frasche del cortile: oggi è vestito completamente di bianco e porta sempre gli occhiali scuri, per celare il problema agli occhi che lo rende quasi cieco. Dopo i saluti e gli inchini di rito riprendiamo il nostro posto di fronte a loro, assistiti dal segretario per la traduzione: “Vi ho convocati innanzitutto per sapere se avete avuto problemi o se siete stati disturbati durante la notte” inizia lui “non vogliamo che i nostri ospiti, i quali così tanta strada hanno fatto per venire sino a qui, vengano molestati o male accolti”. Rispondo da parte di tutti che non abbiamo avuto problemi, anzi lo ringraziamo per averci assegnato i guardiani e per averci permesso di usare la tettoia del campo di pallavolo.
“Bene, ne siamo molto lieti” . Alla reale affermazione segue da parte nostra un imbarazzato silenzio tamponato da sorrisi reciproci e, ancora una volta, leggo negli occhi dei miei compagni la stessa muta domanda del giorno prima, stesso posto, quasi stessa ora, vale a dire: “Cosa facciamo adesso? “. E’ indubbio che tocchi a me dire o fare qualcosa, ma ci sono momenti in cui l’ingegno difetta un po’, specialmente quando non puoi rischiare di urtare la suscettibilità altrui facendo domande troppo azzardate per i tempi e luoghi in qui ti trovi. Quindi, la mia fantasia essendo al momento “tabula rasa”, decido di far parlare lui:
“Ieri abbiamo fatto molte domande al Sultano ed ora vorremmo ricambiare: saremo quindi noi, ora, a rispondere alle sue curiosità” dico rivolta al segretario che, sollecito, traduce al suo padrone.
“Uh…” mormora lui pensieroso, lisciandosi il mento con le sei dita “vorrei sapere se voi in Europa mangiate il miglio e, se non lo mangiate, qual’è il vostro cibo”.
Domanda facile e complicata allo stesso tempo. Confermo che anche noi usiamo il miglio, anche se per noi non è l’alimento di base, e inizio ad illustrargli i piaceri della tavola europei: ci perdiamo e vaghiamo nei meandri della culinaria (campo di per sè già ostico per la sottoscritta), cercando di fargli capire quale e quanta varietà di cibi si possa avere. Mentre gli parlo della pasta italiana mi viene in mente che abbiamo ancora degli spaghetti nella cassa cucina: interrompo un attimo il discorso e bisbiglio agli altri “Perchè non offriamo il pranzo al sultano e ai suoi? Abbiamo abbastanza roba per tutti” . Suggerimento approvato subito all’unanimità.
Quindi proseguo “Mr. Le Secretaire, può chiedere al sultano se avrebbe piacere di assaggiare il nostro cibo? Se lui acconsente, possiamo preparargli il pranzo” . Moussa mi guarda come se fossi una pazza e il segretario ha un attimo di esitazione, tanto quanto basta perchè il sultano lo batta sul tempo e risponda “Oui, avec plaisir”, sfoggiando un bel sorriso di approvazione.
Detto, fatto. Ci congediamo dal sultano e gli diciamo che saremmo tornati alle undici e mezza, per iniziare a cucinare: lui ci ringrazia e ci assegna una guida per il mercato, anche perchè abbiamo bisogno di comprare dei pomodori in scatola, onde evitare di non averne nel momento del bisogno.
Il mercato è molto grande e bello: si trova veramente di tutto, anche il barattolo di pomodori. Si vendono spezie, sale, verdura, tessuti, abiti finiti, scarpe, cordame, carne, pesce secco, bestiame. Una cosa che stupisce (qui come al mercato di Garoua e Maroua) è l’enorme quantità di medicinali letteralmente ammucchiati sulle bancarelle: ci sono pastiglie per mal di denti, di testa e di stomaco, per i dolori mestruali, purghe, antidiarroici, antinfiammatori, una varietà infinite di pillole per la malaria, vitamine di tutte le lettere dell’alfabeto, antibiotici, pomate per le punture di insetti e una montagna di altri farmaci i cui nomi ci sono assolutamente sconosciuti. Di primo acchito pensiamo siano medicinali scaduti rimessi normalmente in commercio, ma controllando le date di scadenza su alcune scatole prese a casaccio dobbiamo ricrederci: la scadenza più vicina è nel 2000 .
Procurato il necessario per il pranzo gironzoliamo qua e là fra le bancarelle ma non si trova nulla di artigianale per cui valga la pena spendere qualche CFA. La gente non è ostile nei nostri confronti, ma lo diventa per vari motivi non appena uno di noi impugna la macchina fotografica: alcuni si appellano a ragioni spirituali accusandoci di rubare la loro anima, le donne temono che mostreremo le fotografie negli altri villaggi, altri ancora la buttano sul venale e chiedono soldi: quindi, per lo meno io, decido di non fotografare.
Sono le dieci passate e il caldo è opprimente: incrociamo una donna che porta una catino pieno di bottiglie di Coca-Cola, ma la nostra guida ci diffida dal comprarle. Le bottiglie sono state ritappate, meglio andare ad un piccolo bar lì vicino.
Lì vicino in lingua africana vuole dire in verità lì lontano: camminiamo per mezz’ora, circumnavigando la piazza del mercato senza riuscire a farci un’idea precisa della nostra meta, talmente il percorso si rivela contorto. Comunque, alla fine, il bar è chiuso e non c’è niente da bere.
La nostra guida, un ragazzo di 25 anni di cui ora non ricordo più il nome, è demoralizzato.
“Vedi” mi dice sospirando “qui da noi non c’è niente. C’est dur la vie au village (è difficile vivere al villaggio). Non riesci nemmeno a trovare qualcosa da bere. Vedi quei pali, laggiù in fondo?” Mi volto e annuisco.
“Sono i pali per i fili della luce. Il governo li ha fatti mettere qualche mese fà, ma ora sembra tutto fermo. Senza corrente elettrica non puoi far nulla. I turisti vengono qui, ma non si fermano perchè non abbiamo un’auberge in grado di ospitarli, non c’è un posto dove possano mangiare, dove possano trovare bibite fresche. Voi avete le tende e i vostri viveri, perciò siete rimasti. Avevamo inziato a ristrutturare quella casetta laggiù in fondo, ma ci vogliono soldi e noi non ne abbiamo. Se riuscissimo ad attrezzarci e organizzarci meglio, se riuscissimo ad incrementare il turismo ci sarebbero lavoro e soldi per tutti. Io ho venticinque anni e sono disoccupato da sempre. Sono obbligato a dipendere dai miei genitori perchè non riesco a trovare lavoro e non posso prendere moglie perchè non potrei mantenerla. Spero solo che un giorno o l’altro arrivi qualcuno a collegare quei maledetti fili, sarebbe il primo passo per poter migliorare la vita qui”.
Quando raggiungiamo Moussa e il resto del gruppo sulla piazza del mercato sono ormai le undici e un quarto, è ora tornare alla chefferie. Lì giunti si assegnano i compiti: è subito chiaro che io non cucino, onde evitare di essere cacciati seduta stante. Francesco e Dorella sono eletti all’unanimità cuochi ufficiali, io, Roberta e Andrea prepariamo gli “antipasti”; Gaia laverà i piatti, Renato gratta il formaggio, Stefano è troppo occupato a giocare con i bambini per fare qualcosa e poi non è affidabile (ci ricordiamo il mezzo chilo di sale sparso sul pavimento della capanna, a Bimlerous-Haut?). Moussa guarda e impara.
Mandiamo a prendere l’acqua per cucinare alla pompa poco distante. Nel mentre si prepara il sugo al pomodoro e cipolla e noi ci inventiamo delle tartine fatte con crackers, mais, fettine di würstel al pollo (il sultano è musulmano, quindi non offriamo spek), sottilette e maionese. Decidiamo di far assaggiare anche il formaggio grana, anche se pensiamo che il gusto così forte possa non essere gradito. Il tutto viene disposto a raggiera in due grandi piatti piani che ci ha dato la moglie del sultano, mentre in una ciotola mettiamo il minestrone in scatola di Andrea e in un’altra ciotola le Insalatissime col tonno. Terminato il tutto, ammiriamo la nostra composizione da lontano: ci sembra perfetta, speriamo solo che il gusto sia altrettanto perfetto.
L’acqua bolle e si butta la pasta, due chili e mezzo di spaghetti, tutto ciò che abbiamo. Il profumo del sugo è delizioso e si spande all’interno della chefferie, attirando il naso del segretario e di qualche ministro velatamente impaziente di assaggiare il cibo dei massarà.
Quando il sultano termina le udienze la pasta è quasi pronta: informiamo il segretario e chiediamo il permesso di inziare a servire gli “antipasti”.
La saletta delle udienze è immersa nella penombra, pavimento e pareti coperte da grandi tappeti. Il sultano siede al centro, a gambe incrociate, affiancato dal segretario. Gli altri notabili sono sparsi intorno a lui.
Entriamo e posiamo i piatti tondi: molto lentamente indico e spiego al segretario la composizione di ogn’uno, mentre il sultano inzia gli assaggi. Terminata la spiegazione taccio: non si sente una mosca volare. Guardo gli altri e insieme guardiamo il sultano mentre assaggia i nostri intrugli (domanda muta negli occhi di tutti : “Cosa facciamo se non gli piace?”). Dopo l’ultima cucchiaiata di minestrone in scatola il sultano proferisce un compiaciuto “C’est bon!!”, e allevia le pene di tutta la compagnia. Bene, ora si passa al piatto forte: la pasta. Dorella arriva portando un piatto fumante di spaghetti al pomodoro: porta anche il formaggio grattuggiato in una ciotola a parte visto che dopo molto discutere avevamo preferito non rischiare il reale disgusto aggiungendolo subito alla pasta. Porgo la forchetta al sultano e faccio vedere al segretario come si arrotolano gli spaghetti: a sua volta il segretario aiuta il sultano e ne guida la mano sulla forchetta. Gira e rigira, prova e riprova alla fine ci riusciamo, ed ecco che la prima forchettata sparisce all’interno della reale bocca, immortalata per l’eternità dagli scatti di sette macchine fotografiche. Poi, nuovamente, l’attesa del verdetto. Il vecchio sultano impiega un po’ per riuscire a mandare giù il blocco di spaghetti : noi siamo come pietrificati. Io, seduta a qualche centimetro da lui, rimango con la forchetta in mano a osservare la sua bocca che mastica, gli altri sono in piedi, contro la parete. Se prima non volava una mosca, ora non volano nemmeno più i figli delle mosche.
“Mais c’est très bon!!!” sbotta lui a voce alta “C’est vraiment très bon!!!”.
Gaudio e tripudio generale. Il segretario sfoggia un sorriso a trentaquattro denti, i notabili sono compiaciuti perchè ora possono favorire anche loro, Moussa non teme più per la sua vita e noi tiriamo un sospirone di sollievo. Ce l’abbiamo fatta, il sultano ha gradito.
Facciamo portare il resto degli spaghetti e veniamo gentilmente congedati affinchè il sultano e la sua combriccola possano terminare il pranzo ed esimersi dall’usare le forchette: con le mani si mangia meglio, ma questo deve essere fatto in nostra assenza.
Mentre loro mangiano noi distribuiamo la pasta rimasta ad alcuni ragazzi rimasti all’esterno, laviamo i piatti ed iniziamo a riporre tutto nelle casse visto che dobbiamo ripartire subito per Maroua. Dopo qualche minuto ci viene portata anche la pentola data al sultano, vuota e praticamente pulita, seguita dai due grandi piatti dove avevamo messo gli intrugli: non c’è dubbio, è proprio piaciuto.
Terminato di rassettare e ripulire, il segretario ci informa che il sultano ci ha nuovamente convocati nella sala delle udienze.
Lui è sempre seduto al centro della sala, ma nel frattempo si è cambiato, ha indossato un bubu’ più sontuoso. Quando ci sente entrare fà cenno di prendere posto a terra, di fronte a lui.
“Desidero ringraziarvi per il cibo che mi avete offerto” dice con voce calma e autoritaria “Tanti bianchi sono già venuti a Pouss, ma nessuno, mai, mi aveva offerto del cibo. Sin’ora ero sempre stato io, il Sultano, ad offrire ospitalità, protezione e cibo a chiunque lo avesse richiesto. Il vostro gesto rimarrà nel mio cuore per il resto dei miei giorni, perchè nella tradizione mousgoum colui che offre il cibo offre la propria vita. Voi, quindi, avete offerto la vostra vita ed io ve ne sono riconoscente. Io, il sultano di Pouss, vi benedico e faccio voti affinchè il vostro Bon Dieu vi accompagni e vi protegga sempre, donandovi gioia e salute”.
Che dire? Che fare? Mi esce qualche frase di ringraziamento e lui si volta verso di me, cercando la mia mano. Gli vado incontro, e mentre la mia mano sparisce nelle sue lui mormora “Merci, Madame, de mon coeur”. Faccio cenno agli altri di avvicinarsi perchè lui ora vuole ringraziare e stringere la mano ad ogn’uno di noi, anche a Moussa. Prima di lasciarci, chiede che gli venga mandata la copia della foto di gruppo scattata il giorno prima, sotto la tettoia di frasche: chiedo che indirizzo devo mettere sulla busta e lui, divertito risponde “Basta che Madame scriva “per il Sultano di Pouss – Camerun”. La riceverò senz’altro”
Non ho dubbi che monsieur Le Sultan la riceva, che domanda stupida ho fatto.
Lasciamo Pouss per Maroua nel primo pomeriggio, portando con noi la benedizione del sultano e il ricordo di una grande giornata. La pista è buona, ma ci impaltaniamo allegramente due o tre volte prima di arrivare al goudron, alla strada asfaltata: ridiamo, spingiamo, ci copriamo di fango, ma non si smette mai di parlare di Pouss, della nostra piccola avventura, della nostra piccola favola.
La sera, Justine ci accoglie e ci rifocilla: unico argomento della serata è ancora il sultanato di Pouss.
Si parte l’indomani alla volta di Mokolo.
12 agosto 1998
Giornata grigia, oggi.
Mokolo dista da Maroua un’ottantina di km, su buona strada asfaltata. Arriviamo a destinazione in tarda mattinata, scarichiamo i bagagli al Campement e andiamo al mercato che non offre nulla di particolare: è la stagione delle pioggie, la gente qui preferisce rimanere al villaggio a lavorare nei campi. Facciamo un rapido giro, andiamo a comprare il pane e qualche pasta al cioccolato e torniamo in albergo.
Nel pomeriggio, per sottrarci alla noia, ci spostiamo verso Koza: la strada sale fra le montagne, tutta pietre e buchi, ma la bellezza del paesaggio compensa i disagi del viaggio. Siamo in zona Kirdi (pagana), l’etnia che vi abita appartiene al ceppo dei Mafa.
Passiamo vicino a villagetti sepolti in un mare di miglio rosso e giallo di cui riusciamo ad intravvedere solo la punta a guglia delle capanne: Moussa mi dice che le genti matakam di questa zona si rifugiarono sulle montagne per sfuggire ai continui attacchi e saccheggi dei cavalieri Peul.
La giornata è alquanto uggiosa, la strada è tutta un sobbalzo, ci sono milioni di mosche e il tempo volge al pessimo. Sullo sfondo di un cielo bianco di luce senza luce vanno accumulandosi nuvole tutt’altro che cordiali e l’aria umida e pesante odora già di pioggia.
Sulla via del ritorno Moussa ferma il pulmino sul ciglio della strada, in prossimità di alcune capanne mafa e chiede al capofamiglia il permesso di entrare. Ci addentriamo nel campo di miglio altissimo e percorriamo il sentierino che immette direttamente nel nucleo di capanne: qui vive un’unica grande famiglia, ma al momento del nostro arrivo non c’è quasi nessuno se non due o tre bambini, il capofamiglia e la moglie. Nello spiazzo principale è stata costruita una capanna più piccola il cui ingresso è sbarrato sin oltre la metà da una catasta di tronchi: qui viene custodito e fatto ingrassare all’inverosimile per 3 anni il bue sacro, che verrà poi sgozzato per la festa del miglio.
Sentendo le voci, il povero vitello condannato a morte (e imprigionato in quel fetido buco non appena era stato in grado di fare a meno del latte materno) fà capolino dalla sommità della catasta e tende il muso verso di noi, incuriosito. Mentre penso a quanto mi piacerebbe dare un calcio al perno e far cadere i legni della catasta mi volto e mi trovo davanti un’altra capannetta, con un apertura ancora più piccola dalla quale un altro bue riesce a metter fuori a malapena il naso. Ho una sensazione di nausea e penso a come mi sentirei se ci fossi io, lì dentro, senza poter fare più di tre passi, senza poter alzare la testa, senza poter respirare aria fresca. Ma come può un animale così grande vivere e crescere per tre anni in uno spazio così piccolo che inoltre non verrà mai pulito?
Basta, per quanto mi riguarda il limite del sopportabile è stato ampiamente raggiunto e superato, me ne voglio andare. Non mi interessa vedere le capanne, non mi interessa sapere cosa fà questa gente, non mi interessa niente di niente.
Anche se meno sensibili alla sorte di quei poveri animali, gli altri sono d’accordo con me e lasciamo così quel posto in cui vorrei non ci fossimo mai fermati.
La giornata è nata storta e finisce storta, mi ci devo rassegnare.
Torno in camera, mi faccio una rapida doccia e saluto il geco bianco che sta rincorrendo le zanzare del bagno: mi butto sul letto e mentre fisso il soffitto in un classico momento di noia e pigrizia abissali noto proprio sopra alla porta d’ingresso un grosso ragno piatto, di quelli con almeno una ventina di gambe. Passano i minuti, i quarti d’ora, le mezze ore: il ragno con le gambe lunghe è sempre lì, immobile. Bene, vuol dire che è appostato vicino alla ragnatela in attesa del pasto e non ha in mente di andarsene a passeggio per la stanza: se lui non ha intenzioni ostili, non le abbiamo nemmeno noi.
Ceniamo alle 7 con pesce e patate fritto grondanti di olio. Mangio due patate, mi riempio la pancia di coca-cola, saluto tutti e vado a dormire non più tardi delle 8: prima di spegnere la luce eseguo la solita ricognizione anti-zanzare, mi assicuro che l’amico Gambalunga sia sempre al suo posto, guardo sotto al letto (non si sà mai quali sorprese possa riservarti un bungalow con una porta che non si chiude) e chiudo il sipario su una giornata da dimenticare.
13 agosto 1998
Tourou
Non appena apro gli occhi, la vescica che brucia sul mio collo mi comunica che un ragno mi ha morsicato durante la notte. Butto gli occhi sopra alla porta: Gambalunga è scomparso, ma è anche vero che la vescica non è molto grande e se lui fosse il colpevole dovrei avrei un vero e proprio bubbone. Ergo: ci sono figli o parenti di Gambalunga in giro per la stanza, problema questo che non mi preme risolvere subito. Vado in bagno e il geco si rifugia rapido dietro allo specchio: cerco di schiacciare la vescichetta per far uscire il liquido, ma fà un male da svenire e ci rinuncio. Prima o poi la pellicina scoppierà e uscirà da solo, sempre che al suo posto non escano una decina di ragnetti: ci sbatto sopra un po’ di pomata e non ci bado più.
Fuori incombe tempo molto incerto, scuro scuro, grigio grigio, tendente al bagnato pesante. Moussa pronostica pioggia in arrivo nel pomeriggio e non posso dargli torto.
Oggi andiamo a Tourou: è giorno di mercato, una buona occasione per vedere le donne Kirdi con le calebasse in testa. La pista è pessima, ma il paesaggio è superlativo, reso ancor più bello dalla brillantezza del fogliamo spruzzato dalla pioggia notturna e ora illuminato a tratti dal sole, che tenta la sortita fra la spessa coltre di nuvole. Costeggiamo coltivazioni di miglio, canna da zucchero, patate dolci, angurie; incrociamo grosse mandrie di vacche e tori ben pasciuti ostintamente piazzati in mezzo alla strada. Sulla nostra sinistra si stende e si allunga la piana nigeriana, sconfinata distesa di verde.
Arriviamo a Tourou verso le undici, procedendo quasi a passo d’uomo. Il mercato è già iniziato, ma il cattivo tempo ha di molto ridotto l’affluenza dei visitatori: spiccano fra tutte le donne kirdi con le calebasse in testa, strano e inusuale copricapo che le fà assomigliare a tanti funghetti.
La parola kirdi vuole semplicemente significare pagàno ed indica in modo generale le popolazioni che abitano questa zona. All’interno dei kirdi si distinguono i vari ceppi (ad esempio i Mafa ed i Fali). Il colore e la decorazione delle calebasse indicano lo stato sociale della donna: la calebasse neutra, senza decorazione, indica che la donna ha perso marito e figli mentre la calebasse dai colori accesi e dalle molte decorazioni indica un matrimonio felice. Inoltre, la primogenita ha il naso forato lateralmente da una paglia, la secondogenita ha un osso tondo infilato sopra al labbro superiore. Le donne che portano una collana con un ciondolo di osso circolare bianco hanno partorito dei gemelli.
Rallegrato da questi gruppi di donne coloratissime, agghindate con lustrini, perline e collane varie, il mercato di Tourou vale la pena di essere visto: dopo aver fatto un giro conviene mettersi seduti in un buon punto di osservazione, indicativamente nei pressi del settore dove si vendono frittelle, sotto all’albero vicino alla bancarella delle calebasse. E’ un passaggio obbligato che vi permetterà di ammirare, senza dover correre a destra e a sinistra, la toeletta multicolore di queste madame dall’aria fiera che si riuniscono in assembramento per le contrattazioni.
Dimenticavo di scrivere che durante la stagione delle piogge Tourou e la zona circostante sono letteralmente invasi dalle mosche: centinaia, migliaia di noiosissime mosche che si posano dappertutto e che devi stare attento a non ingoiare quando parli. Le foglie del miglio sono puntinate da migliaia di mosche e in alcuni punti il verde delle foglie quasi non si vede. Sbattono sui vetri del pulmino e anche se cerchi di salire e scendere prendendo la forma di una sottiletta non puoi impedire che queste insolenti creature si catapultino all’interno e si facciano dare un passaggio sino a valle.
Moussa dice che questo succede solo durante la stagione delle pioggie: meno male, perchè non oso immaginare come si potrebbe vivere con un tormento del genere dodici mesi all’anno.
Verso le 2 del pomeriggio riprendiamo la via del ritorno sperando che il tempo tenga quel tanto che basta per ridiscendere a valle.Gruppi di bambini sono affacendati a riempire di terra e rami i buchi formatisi sulla pista dissestata dalle pioggie: approfittando della velocità di marcia molto limitata, rincorrono le poche automobili chiedendo qualche soldino o qualsiasi altra cosa si voglia dare loro per il lavoro svolto e lanciano pietre se l’autista fà orecchio da mercante.
Ad un certo punto scorgo una piccola tartaruga che sta cercando di uscire da una pozzanghera, proprio sulla dirittura della nostra ruota. “Arrête!!” grido verso Moussa “C’è una tartaruga proprio qui davanti”. Lui frena giusto in tempo e la tartarughina esce indenne dalla pozzanghera, rifugiandosi in mezzo all’erba.
Moussa mi sorride, poi scuote la testa e aggiunge con un sospiro: “Il y en a plein partout et je ne sais pas d’où elles sortent. Peut-être elles tombent du ciel avec la pluie”.
(Traduco per chi non sa il Francese: “Ce ne sono dappertutto e non sò da dove escano. Forse cadono dal cielo con la pioggia”.)
Lo guardo e gli sorrido, ma non riesco a rispondergli.
Oggi Moussa, di solito abbastanza taciturno, ha voglia di parlare e finiamo con l’intavolare una discussione su un argomento che gli sta molto a cuore.
“Sai” inizia lui di botto ” per il momento ho una sola moglie, ma è ormai tempo che mi decida a risposarmi”
“Non te ne basta una?” replico io
“No, una non è abbastanza. Cosa succede se io mi limito ad una sola moglie e lei si ammala? Un disastro. Bisogna ci sia un’altra donna che possa accudire i figli, cucinare e tenere in ordine la casa al suo posto. Io sono sempre via per lavoro, non posso occuparmi della casa, non posso mica cucinare. Mia moglie venne scelta per me da mia nonna: lei aveva 14 anni e mia nonna la considerava giusta per me. La fece venire a casa e me la presentò, dicendo che era ora ch’io mi ammogliassi. Di sicuro non potevo rifiutarmi di prenderla, sarebbe stato un affronto per mia nonna. Ora lei ha 22 anni ed abbiamo quattro figli, ma dovrei almeno arrivare a sei e per questo devo prendere un’altra moglie. Qui non sei considerato un buon padre di famiglia se non hai almeno sei figli”
“Ma cosa succede se la tua prima moglie è gelosa e si oppone al matrimonio?”
“Nulla, io sono libero di fare ciò che voglio. Però lei può rendermi le cose difficili; ad esempio, se io compro qualcosa per la nuova moglie devo comprarlo anche a lei e se lei non vuole che io lo compri, io non posso. E poi le donne costano: quando hanno bisogno di vestiti vogliono le stoffe che vengono dall’estero, le stoffe più costose: non si accontentano certo delle stoffe fatte qui in Cameroun, piuttosto quelle le usano per i vestiti del marito. La donna può essere un vero e proprio salasso per il marito e di tanto in tanto mi chiedo anch’io se sia proprio il caso di accollarmene un’altra, poi però penso che ora il mio lavoro mi dà una certa sicurezza e tutti, comunque, si aspettano che io mi risposi. Non capisco come gli europei possano accontentarsi di una sola moglie: mi hanno anche detto che da voi molte coppie non hanno figli, non so proprio come fate. Bisogna pur che dopo di noi ci sia qualcuno a cui lasciare l’eredità”
Io penso fra mè e mè che molti uomini europei si considerano fortunati a non avere una moglie, così come molte donne si considerano fortunate a non avere un marito. Ma è troppo complicato da spiegare.
Poi Moussa corona il suo disquisire con un’affermazione da vero macho africano che farà senz’altro sorridere e riscuoterà l’approvazione dei maschi europei:
“Comunque, una donna che è riuscita ad avere un marito, una casa e dei figli ha l’obbligo di sentirsi soddisfatta e realizzata. Cos’altro può volere?” e continua “Se poi non riesce ad avere dei figli bisogna andare dal sorcier, dallo stregone. Lui ti dirà cosa fare, quanti e quali animali sacrificare affinchè tua moglie resti incinta: chiaro che se nonostante tutto la donna non partorisce, il marito può sempre ripudiarla. Se invece tua moglie ti tradisce con un altro bisogna andare dal lamidò: lui deciderà la punizione.”
Come un lampo mi torna in mente una frase pronunciata da Victor Touko, mentre tornavamo da Wangay: “A quoi ça sert une femme qui n’accouche pas?” (a cosa serve una donna che non partorisce?). A niente, proprio a niente.
Riusciamo ad arrivare a Mokolo poco prima che inizi a piovere e la serata viene inaspettatamente allietata dalla notizia che, apparentemente, il mio zaino sembra essere stato ritrovato ed ora è depositato alla Lasal Voyages. Come al solito non si sà bene chi, come e quando abbia passato l’informazione, ma il fatto che il messaggio sia arrivato fino a Mokolo mi fà ben sperare.
Torno in camera più allegra e vedo che l’amico Gambalunga è tornato al suo posto sopra la porta: probabilmente durante il giorno si rintana in una fessura dello stipite ed esce verso sera per catturare gli insetti. Non gli passa proprio per la testa di passeggiare per la stanza. Mentre sto frugando nello zainetto vedo comparire da dietro la testiera del letto un ragno del tutto simile a Gambalunga, ma più piccolo, che sale lungo il muro e si ferma vicino al bordo del letto: è lui il morsicatore solitario, non ho dubbi.
Così, quella sera commetto un omicidio controvoglia e appiattisco a malincuore il ragno sulla parete.
14 agosto 1998
Salita al monte ZIVER
Ore 6.00: diluvio universale.
Ore 7.00: il diluvio continua. Partenza rimandata in attesa di un raggio di sole.
Ore 10.00: tregua. Decidiamo di andare al monte Ziver a dispetto dei nuvoloni neri: perso per perso decideremo sul posto se il sentiero è troppo sdrucciolevole per poter salire.
Il monte Ziver si trova in territorio Mafa. Arriviamo presso il villaggetto alle pendici della montagna verso mezzogiorno, accompagnati da una guida consigliataci da Moussa. Vengono con noi alcuni ragazzini del villaggio e si offrono di portare le bottiglie d’acqua e gli zainetti di chi ha più difficoltà a salire perchè fuma troppo e non ha abbastanza fiato.
Il tempo è magnanimo: un sole brillante riesce a squarciare il cielo ed asciuga in un battibaleno le rocce lisce sulle quali ci dovremo arrampicare. La prima parte del percorso si snoda attraverso coltivazioni di miglio altissimo che si stendono sino ai piedi della salita vera e propria: poi il miglio lascia gradatamente il posto a lastroni di roccia levigata sulle quali ora è facile camminare e dopo i lastroni arriviamo ad un sentierino che si inerpica fra le rocce e segnala l’inizio della salita vera e propria. Guardo sù, e mi passa la voglia: il sentiero è quasi invisibile, ingoiato per la maggior parte dai massi e dalle erbe. Penso che ha tutta l’aria di essere una delle solite faticate, ma non può sicuramente essere peggio dell’Alantika. Quindi tanto vale muoversi.
La salita alterna brevi tratti piani che permettono di riposare le gambe e riprendere e fiato a semi-arrampicate e gimcane fra enormi massi precipitati dalla sommità del monte. Fà caldo e le mosche che abbiamo raccattato camminando fra il miglio non ci abbandonano un istante; di tanto in tanto mi fermo ad aspettare gli altri e ne approfitto per ammirare il panorama e la vegetazione lussureggiante che ci circondano. Dopo circa un’ora raggiugiamo una cima intermedia e la nostra guida ci conduce presso un agglomerato di capanne abbarbicato sul crinale antistante la piana della Nigeria.
Il capo del minuscolo villaggio ha quattro mogli e undici figli: tutti vivono nella capanna centrale dalla quale si diramano corridoi che sfociano in stanze adibite a granaio, ovile, dormitorio per i bambini, stanza delle donne, cucina. Appena entrati si è nella stanza del capofamiglia: a lui solo spetta il diritto di sedere e riposare sul tavolato polveroso sistemato sul lato sinistro dell’entrata, mentre le donne e i bambini siedono al centro della stanza, attorno al focolare. Gli ambienti interni della grande capanna sono illuminati dal filo di luce che filtra da finestrelle non più grandi di un uovo: in questo modo il capo protegge la sua casa e le sue donne da ladri e malintenzionati.
La visita della casa si svolge alla luce fioca di una lampada a petrolio, con la quale il capo ci conduce lungo gli stretti e angusti corridoi. Sembra quasi di visitare una catacomba, ma forse è meglio così, è meglio non vedere ciò che veramente ci circonda, perchè con la coda dell’occhio ho intravisto ragni grossi quanto il palmo della mano pendere dal soffitto a pochi centimetri dalla nostra testa. Entriamo nella cucina e ruotiamo in circolo attorno al focolare, per permettere a tutti di entrare: non si vede quasi nulla e proprio non riusciamo a capire come le donne possano cucinare lì dentro. Torniamo nel corridoio e il capo ci indica la stanza in cui vengono custodite le capre; in fondo alla stanzetta si apre un altro vano buio, alto più o meno mezzo metro: lì dormono i bambini.
Mentre esco e il sole mi acceca mi chiedo perchè questa gente abbia scelto di vivere quassù, in una capanna perennemente buia che sembra tenersi aggrappata alla montagna con le unghie e con i denti, quando a circa 300 metri si stende una pianura verdissima, ricca di acqua. Mi torna alla mente il villaggio Galeb che visitai in Etiopia, poche capanne costruite in una landa desolata con temperature che sfioravano i 50° gradi: sarebbe stato sufficiente spostare le capanne di qualche centinaio di metri per raggiungere l’ombra offerta dagli alberi che crescevano in riva all’Omo. E invece no, per qualche inspiegabile ragione, loro, i Galeb, così come questi Mafa, scelgono il modo di vivere più difficile.
Dovremmo ancora continuare a salire per circa tre quarti d’ora, ma il tempo non promette nulla di buono. Dalla piana nigeriana stanno arrivando immense nuvole viola e il sole sta già scomparendo a tratti: le mosche si sono fatte più insistenti e il vento porta odore di pioggia. Decidiamo quindi di abbandonare l’impresa e scendere il più rapidamente possibile per arrivare almeno sino ai campi di miglio, dove il pericolo di scivolare è minore.
Salutiamo e ringraziamo il capo, gli lasciamo qualche CFA ma non diamo le penne ai bambini: non vanno a scuola, non sanno neanche a cosa servano.
“Nemmeno i padri missionari sono riusciti a convincere questa gente ad abbandonare le loro montagne per scendere a valle, dove sarebbe più facile assisterli ed aiutarli. Sono testardi, e orgogliosi.” dice Moussa mentre scendiamo ” E’ la gente delle montagne che dà il segnale d’inizio della festa per la raccolta del miglio: sino a quando loro non hanno ultimato la raccolta del loro miglio e preparato la birra, nessuno, nei villaggi a valle, può iniziare i festeggiamenti. Loro preferiscono starsene quassù, lontani da tutti, lontani da tutto”.
Visto che gli altri scendono più lentamente mi aggrego ai due ragazzini che hanno portato le bottiglie ed impiego circa mezz’ora per arrivare al miglio. Poco prima di raggiungere il villaggio dove abbiamo lasciato il pulmino incrociamo un pastore che sta lavando una grossa capra bianca, servendosi dell’acqua piovana raccolta in una conca della roccia: l’animale è insaponato dalle corna agli zoccoli e il pastore si dà un gran da fare a grattare, sciacquare, strizzare. Chiedo il perchè del lavaggio e mi viene risposto che non c’è nessuna particolare ragione: semplicemente il pastore vuole che le sue capre siano pulite.
Che stupida sono, come ho fatto a non pensarci?
Inizia a gocciolare nel preciso istante in cui raggiungo il pulmino. Fortunatamente il resto del gruppo è arrivato al miglio e al massimo faranno qualche bel ruzzolone nel fango, senza però rompersi niente. In loro attesa, la nostra guida distribuisce gomma da masticare a tutti i bimbi e regola i conti con la mamma dei due ragazzini che ci hanno accompagnati sino in cima dandole sale, fiammiferi e CFA 200. Come al solito, la vista dei soldi scatena un putiferio perchè tutti esigono venga regalato loro qualcosa, senza aver fatto nulla: alla fine, dopo aver inutilmente tentato di riportare la calma e la ragione, ci arrabbiamo e gridiamo più forte di loro provocando un attimo di esitazione che ci permette di salire sul pulmino e scappar via. Una pioggia torrenziale ci accompagna sino a Mokolo.
La sera si cena tardi, alle otto, nel tentativo di non andare a dormire alle otto e mezza. Moussa non cena con noi: ieri ha agganciato una damigella locale e ora si intrattiene con lei al bar, vestito e profumato di tutto punto, probabilmente già accarezzando l’idea di un secondo matrimonio.
Alle nove meno un quarto Gaia saluta tutti e và in camera per tornare circa dieci minuti dopo ed annunciare che “c’è un serpente nel nostro bagno”. Tutti crediamo si tratti di un serpentello insignificante e pensiamo sia sufficiente spingerlo fuori, ma appena apriamo la porta del bagno e vediamo il serpente nero, dormiente e tutto arrotolato vicino al water, il guardiano che è con noi richiude in tutta fretta, ci fà allontanare e corre a prender un lungo bastone con quale lo colpisce due volte sulla testa, uccidendolo. Io scappo via, mi fà troppa pena. Ci viene poi comunicato che il defunto è uno dei serpenti più pericolosi, cosa confermata anche dal fatto che il guardiano e un collega ispezionano e battono a tappeto sino a notte fonda tutto il circondario del campement. Si fanno varie ipotesi su come quel poverino abbia avuto la malaugurata idea di entrare in stanza (strisciando dentro dalla porta che non si chiude, oppure scivolando da una fessura del tetto di paglia dopo essere caduto dall’albero lì vicino); supponiamo persino che fosse già stato nella stanza al momento del nostro arrivo, nascosto sotto all’armadio o sotto ai letti. Ma come aveva fatto ad entrare nel bagno, considerato il fatto che la porta veniva sempre tenuta chiusa per le zanzare e lui era troppo grosso per passarci sotto? E nel bagno non ci sono mobili sotto i quali nascondersi. Quindi alla fine non si conclude niente, ma riusciamo a “tirar tardi” ed andiamo a dormire alle dieci. Gambalunga è tornato al suo posto di osservazione, unico testimone multioculare che non ci dirà mai come sono andate veramente le cose: lo guardo bene, dal letto. E’ veramente grosso, una vera fortuna che sia troppo pigro per andare a zonzo sui colli degli umani.
Intanto ha ripreso a diluviare e noi, domani, partiamo per Rumsiki. Bella roba!
Buonanotte Gambalunga, e buona fortuna. Spero per te che ti lascino in pace, in fondo mi sei anche simpatico.
15 agosto 1998
Rumsiki / Kapsiki
Piove, piove, piove. Partiamo alle otto, ma la giornata non promette bene e una fitta nebbia ci accompagna per buona parte del percorso: fortunatamente la pista è molto buona e non risente dei continui acquazzoni. Prima di arrivare a Rumsiki, Moussa ci chiede di fare una breve tappa a Mogodé, dove vivono i suoi genitori e i suoi parenti.
Grazie al suo lavoro da autista Moussa guadagna bene e può permettersi la bella casa in muratura che sta facendo costruire proprio vicino alla casa dei genitori, dove verrà a passare le vacanze. In paese è considerato con molto rispetto e ammirazione visto che è uno dei pochi ad avercela fatta: tutti lo fermano per salutarlo, gli vogliono parlare, stringergli la mano, sapere del suo lavoro e della sua famiglia. Lui si scuserà in seguito con noi per averci obbligato ad una sosta così prolungata, “ma se mi fermo a parlare con uno devo fermarmi a parlare anche con l’altro, altrimenti poi si offendono e vanno a lamentarsi con mio padre” sospira, stanco anche lui del fiume di parole.
In tarda mattinata, mentre il sole torna a fare capolino e la nebbia pian piano si dissolve, riusciamo a seminare l’esercito di parenti e conoscenti che spuntano da tutti gli angoli e riprendiamo la pista per la zona di Kapsiki, dove arriviamo accompagnati da un sole sfavillante e incantati da un paesaggio definito a ragione dalle guide “uno dei più belli d’Africa” . Imponenti picchi di roccia frastagliata si ergono qua e là come enormi denti: poggiano su un mare verde che ne fà risaltare le tonalità di grigio, nero, marrone, mentre un pittore pazzo sembra essersi divertito a dipingere il cielo di rosa, viola, indaco, arancione. Di fronte a noi si apre una valle rigogliosa che è già Nigeria, delimitata su ciascun lato da due giganti di roccia che segnano una linea di confine immaginario fra Rumsiki e i villaggi nigeriani sottostanti.
Forti del fatto che siamo gli unici clienti, dopo blande contrattazioni prendiamo alloggio al campement governativo proprio all’entrata del paese, che a prezzi più che modici ci offre colazione e cena, bei bungalow con doccia e aria condizionata (acqua calda solo teorica), lenzuola pulite e poche zanzare (nelle camere, perchè fuori sembra un’invasione). Il tutto unito ad un panorama spettacolare.
Accompagnati da Ahmed, un amico di Moussa, organizziamo un breve trekking nella zona con puntata finale sino ai villaggi nigeriani giù a valle, visto che ci viene assicurato che si può sconfinare senza problemi. Partiamo puntuali alle due (sotto a un sole cocente, tanto per cambiare) e la nostra guida ci conduce sino all’arbre à parole del villaggio, da dove inizia la sua spiegazione.
“Ogni villaggio ha un albero delle chiacchiere per le donne e uno per gli uomini: una donna non può stare sotto all’arbre à parole degli uomini e viceversa. Solo gli anziani hanno il diritto di sedere sotto all’albero, quindi all’ombra delle fronde: i più giovani ed i bambini devono rimanere ai lati estremi della piazzuola nella quale si trova l’albero. Di solito le donne si riuniscono sotto al loro albero per sbucciare le arachidi, filare, cucire, ma ora sono tutte fuori a lavorare nei campi o a raccogliere legna. Fanno anche 20 Km al giorno per cercare la legna da ardere. Ma ora ditemi, sapete da dove il villaggio di Rumsiki ha preso il suo nome?”
No, non lo sappiamo.
“Seguitemi. Dobbiamo scendere e arrivare di fronte alla nostra montagna”
La Montagna Invincibile di Siki, il Cacciatore.
“Nel suo girovagare in cerca di prede, Siki il cacciatore arrivò un giorno nei pressi di questa grande montagna. A quel tempo qui c’erano moltissimi animali selvatici e alberi grandissimi e Siki, cammina cammina, perse la via del ritorno. Allora salì in cima alla montagna e da lì scrutò in lontananza e scorse, dritto di fronte a lui, il suo villaggio. Calavano le tenebre e allora la montagna protesse Siki dalle belve feroci offrendogli riparo per la notte nella sua grotta sacra. Il giorno dopo Siki fece ritorno fra la sua gente e disse che se lo avessero seguito lui avrebbe garantito loro cibo in abbondanza, pascoli e terreno fertile. Essi ebbero fiducia in lui e lo seguirono, cosicchè Siki divenne in breve tempo signore incontrastato del suo popolo. Fù così che Siki e la sua gente si stabilirono ai piedi della montagna e prosperarono. Col tempo, però, la fama del suo regno valicò le montagne e suscitò l’invidia degli arabi Choi, che dalla piana della Nigeria cavalcarono contro di lui per depredare la sua terra e rendere schiavi le sue genti.
Il vento veloce portò la notizia a Siki, che incitò le sue genti a trovare rifugio sulla montagna invincibile: poi salì sino in cima con i suoi guerrieri più valorosi e da lì scagliò pietre e frecce contro i predoni, costringendoli alla ritirata.
Fù così che la Montagna Invincibile salvò il popolo di Siki il Cacciatore e diede il nome al villaggio di Rumsiki.”
Le Sorcier aux Crabes ovvero l’Indovino dei Granchi
L’indovino di Rumsiki è un vecchietto di 98 anni che riesce a stento a camminare: ereditò dal padre la capacità di predire il futuro attraverso i granchi e, vero o non vero che sia, egli è un punto di passaggio obbligato per tutti coloro che visitano Rumsiki.
Ci riceve seduto su uno sgabello di pietra, all’entrata della capanna. Tiene vicino a sè la calebasse con i granchi e un contenitore tondo in terracotta pieno sino a metà di sabbia bagnata. Alcuni cocci di terracotta sono sistemati vicino alla calebasse.
I bastoncini di bambù piantati nella sabbia, tutto attorno al bordo della terracotta, rappresentano i villaggi nella zona di Rumsiki i cui abitanti si sono rivolti allo stregone per risolvere i loro problemi. Sono veramente tanti.
Mentre prendiamo posto attorno a lui arriva una paperetta dal cortile interno della casa e si accuccia vicino al suo padrone, decisa a presenziare al consulto. Tramite Ahmed, l’Indovino chiede se abbiamo interrogativi da porgli, ma, tutto subito, nessuno osa farsi avanti. Poi Dorella rompe gli indugi e chiede se in ambito lavorativo ci saranno per lei dei cambiamenti. Ahmed traduce la domanda: l’indovino sistema i cocci di terracotta nel mezzo del recipiente con la sabbia, tira fuori un granchio dalla calebasse, ci sputa sopra, lo tiene in mano facendolo girare tre o quattro volte sui cocci e poi lo ripone sulla sabbia. Copre il recipiente con un’altra mezza calebasse, vi tiene una mano sopra, chiude gli occhi e si concentra: il silenzio è totale e devo ammettere che, volenti o nolenti, c’è anche un po’ di emozione. Dopo circa mezzo minuto l’indovino toglie il coperchio ed esamina lo spostamento dei cocci eseguito dal granchio: il responso è “fra non molto ci sarà un cambiamento, in bene. Avrai un nuovo lavoro e guadagnerai due volte la somma che stai guadagnando ora”. Dorella allibisce: tornata in Italia cambierà effettivamente lavoro, guadagnando esattamente il doppio dell’attuale.
A questo punto tocca a me e faccio l’unica domanda che mi sta a cuore. Stesso procedimento, ma granchio diverso. Dopo qualche attimo di concentrazione, l’indovino scopre il recipiente: mentre il primo granchio aveva spostato tutti i cocci sui lati del recipiente, il mio granchio, che inizialmente si trovava sul bordo, ha ammucchiato tutti i cocci nel centro e ci sta seduto sopra. L’indovino lo guarda e si fa una gran risata: in cuor mio penso “sta ridendo delle disgrazie altrui”. Contrariamente alle aspettative il responso è positivo: devo solo avere pazienza, riferisce l’indovino indicando il granchio che continua a stare seduto sul mucchio di coccetti, tenendo addirittura le chele tese su di loro.
Dopo di me è la volta di Gaia e anche con lei l’indovino non fà che confermare cose già note. Dopo Gaia si fà avanti Renato, ci ritenta Dorella, la seguono Roberta, Andrea e Stefano. L’unico astenuto totale è Francesco.
Sinceramente detto non ce ne saremmo più andati anche perchè pian piano, inizio a capire come lui faccia ad interpretare i movimenti di quei granchietti che, a seconda dei casi, spostano, sparpagliano o ammucchiano i cocci sulla superficie della sabbia. Fra noi ci sono gli scettici, è chiaro, ma se fosse tutta fantasia come avrebbe potuto questo vecchietto che vive in Camerun, fra le montagne, dare risposte così precise ed esaurienti, indipendentemente dal soggetto? Forse vogliamo credergli perchè ci sta regalando una piacevole illusione, o forse gli crediamo perchè, in fondo, potrebbe anche avere ragione. Chi lo sa. Soltanto il tempo potrà dire se il sorcier aux crabes di Rumsiki ha avuto ragione, soltanto il tempo dirà se l’illusione può diventare realtà.
Terminate le domande lasciamo un’offerta all’Indovino e sostiamo a turno di fronte a lui, per salutarlo e ricevere la benedizione dello stregone che consiste in un’unzione di saliva sulla punta delle scarpe (meno male che nessuno di noi ha i sandali). Terminata la passeggiata nel quartiere dei tessitori, degli scultori e dei vasai, i quali non mancano di venderci cri-cri piumati, vasetti di terracotta, statuine e simili, lasciamo il villaggio e scendiamo a valle per sconfinare in Nigeria valicando l’invisibile linea di confine che parte dal monte sacro Zivi e si congiunge con la montagna di Siki.
“Il monte Zivi è sacro perchè è un monte sacrificale.” ci spiega Ahmed mentre scendiamo ” Ad esempio, se una coppia non riesce ad avere figli l’indovino dei granchi dice loro di sacrificare sul monte Zivi tre animali di colore nero, vale a dire un montone, una capra e un pollo. Devono sgozzare gli animali e mischiare il sangue alla birra di miglio: poi, siccome l’indovino è vecchio e non potrebbe mai arrivare sino al monte, il suo aiutante beve la birra in sua vece e la risputa tutto attorno al luogo sacrificale. Quindi, l’uomo e la donna devono fare il giro del monte cantando inni propiziatori: se la donna non si procurerà ferite alle gambe passando fra le erbe e i rovi, allora rimarrà in cinta. In caso contrario non avrà figli. Se è l’uomo a riportare ferite alle gambe, significa sterilità da parte sua.”
Arriviamo a valle dopo una discesa abbastanza ripida e procediamo fra campi di mais, miglio bianco, arachidi e patate dolci. Raggiungiamo alcuni villaggetti nigeriani poco distante e visitiamo la capanna di uno scultore, il quale si prodiga a mostrarci come si modellano le piccole chitarre a forma di animale che cercano di venderti in tutti gli angoli di Rumsiki. Ci fermiamo più per gentilezza che per interesse e gli lasciamo un’offerta equivalente al prezzo di due chitarre che, però, preferiamo non comprare.
Quando guardo l’orologio mi accorgo a malincuore che sono già le cinque e bisogna proprio tornare, anche perchè sull’altro costone della montagna si stanno ammassando nuvoloni minacciosi e i colori si fanno via via più caldi, ad indicare che il sole sta per finire l’autonomia. Alla discesa segue sempre e inevitabilmente una salita e terminiamo la bellissima giornata con l’arrampicata finale per tornare al campement.
Di tanto in tanto mi fermo per riprendere fiato e soprattutto ammirare un’opera d’arte di Madre Natura che a parole è molto difficile descrivere. In un azzardo di poesia penso che ciò che ho di fronte potrebbe essere paragonato alla Valle dell’Eden, oppure alla Terra Promessa che Mosé vide dall’alto prima di morire.
16 agosto 1998
Rumsiki Pitoa
Partiamo da Rumsiki alle sette ed impieghiamo sei lunghissime ore per arrivare a Pitoa. Sulla strada incontriamo sempre più sovente gruppi di bambini che chiedono l’obolo per la riparazione della strada, ma Moussa tira sempre dritto e ogni tanto qualche pietra colpisce il retro del pulmino.
Purtroppo, la pista sconnessa ci rallenta molto ed arriviamo a destinazione a mezzogiorno inoltrato, quando le donne Bororo se ne sono già andate. Il mercato è senza dubbio il più grande che abbiamo visitato, ma è senz’altro anche il più pericoloso: appena scendiamo dal pulmino veniamo circondati da individui con facce da galera che mirano apertamente a orologi, marsupi e macchine fotografiche. La tattica è simile a quella che avevo visto usare dalle bande di ragazzini di Antananarivo, in Madagascar: il malcapitato turista, che si è dimenticato di nascondere l’orologio o và in giro con la macchina fotografia al collo, viene accerchiato da cinque o sei ragazzini che lo distraggono. Il settimo, approfittando della confusione, gli taglia il cinturino dell’orologio, del marsupio nascosto sotto alla maglia, o della macchina fotografica. Il tutto in non più di mezzo minuto. Qui si usano anche altre tattiche del tipo: “tu turista hai fotografato senza permesso, quindi io ti prendo la macchina fotografica”, questo detto minacciosamente da un energumeno pelato alto circa un metro e novanta che desiste solo quando si becca un sonoro ceffone sulla mano e sente pronunciare la parola “police”. Oppure si viene seguiti per un po’ da due o tre mafiosetti che cercano di mischiarsi alla folla e approfittano di un momento di inattenzione per scippare zaini e qualsiasi cosa sia a portata di mano. Inoltre, mai tirar fuori dei soldi di fronte a tutti, altrimenti è finita.
Quindi, onde evitare guai, procediamo compatti in gruppo (io rinuncio alla macchina fotografica, che lascio a Moussa) e facciamo un giro in quell’enorme mercato africano senza però poterne apprezzare veramente la bellezza e la varietà in quanto dobbiamo prestare più attenzione al turbinio di mani che arriva sempre troppo vicino ai nostri averi. Non è una bella atmosfera: percepisco nell’aria troppa tensione e ostilità, vedo troppa gente guardarci male, vedo troppi guai latenti e pericolosamente vicini. Mentre gli altri gironzolano ancora un po’ io torno al pulmino a far conversazione con Moussa, che non si era fidato a lasciare tutti bagagli incustoditi, anche se sotto chiave, e parlando del più e del meno vengo a sapere che le donne Bororo, le stesse che vanno a vendere il latte al mercato di Garoua, partecipano al mercato di Ngong il lunedì di ogni settimana. O meglio, il mercato di Ngong è proprio un mercato Bororo.
Dato che Ngong dista da Garoua solo 45 Km, consigliati da Moussa decidiamo con piacere di non tornare a Guider e puntare direttamente su Garoua, in modo da poter visitare il mercato l’indomani. “Ngong è un mercato molto tranquillo” ci dice Moussa “è più piccolo di questo e molto meno conosciuto, ma la gente è simpatica e nessuno vi darà fastidio”.
Basta questo per autoconvincerci di aver preso una saggia decisione.
A Garoua torniamo ad alloggiare al Relais St. Hubert e quando Moussa torna a prenderci per andare a cena annuncia trionfante che il mio zaino è alla Lassal Voyage e possiamo passare a prenderlo. Non credo alle mie orecchie, ma devo credere ai miei occhi perchè il mio zaino c’è veramente, intatto e con il suo carico di thè solubile (che tanto mi sarebbe servito sull’Alantika), scatolette, scarpe da ginnastica, magliette da regalare e soprattutto da indossare. Recupero finalmente il mio prezioso coltellino a serramanico, probabilmente l’unica cosa, insieme allo zaino stesso, che mi sarebbe spiaciuto non ritrovare più.
17 agosto 1998
Partiamo da Garoua verso le nove per arrivare a Ngong in circa tre quarti d’ora e subito ci rendiamo conto che l’atmosfera è ben diversa di quella di Pitoa. Uomini e donne Bororo affollano il mercato che sfavilla di colore e vivacità: i giovani, sia ragazzi che ragazze, vestono per l’occasione i loro abiti migliori e, i ragazzi specialmente, amano essere guardati, ammirati e fotografati. Le ragazze hanno il viso tatutato, alcune hanno un labbro blu, l’altro rosso, tutte sono adorne di collane, braccialetti, anelli. I capelli sono intrecciati con cura e tenuti insieme da nastri colorati e tessuti dorati. Vediamo ragazze molto belle, ma il viso è talmente tatuato da risultare deturpato, almeno agli occhi di noi occidentali. Mentre le ragazze si schermiscono e acconsentono a farsi fotografare solo dopo qualche debole protesta, i ragazzi si fermano con noi e chiedono la fotografia: sono orgogliosi, e belli. Fra di loro si distinguono due gruppi, che io chiamo “i seri” ed i “piumati”. I “seri” non si mischiano ai “piumati” e viceversa, senza peraltro essere ostili gli uni verso gli altri: essi si distinguono fra loro non solo per il modo in cui sono vestiti, ma anche per il comportamento. I seri sono tutti rasati, hanno il viso tatuato, portano un berrettino ricamato, indossano pantaloni di tela lunghi e belle tuniche che arrivano sino al ginocchio; i piumati sono magrissimi e altissimi, indossano tuniche variopinte lunghe fino ai piedi, portano lustrini, perline e piume intrecciate nei capelli (per questo decido di chiamarli “i piumati”), nonchè braccialetti, anelli e lustrini. Sembrano spiriti liberi, distaccati dagli altri, più interessati alla musica e alle danze che non alle cose terrene: non mi sembrano nemmeno interessati alle ragazze, splendide nei loro abiti sfavillanti, che si pavoneggiano e scoccano sorrisetti e occhiatine ai gruppetti dei “seri” che fanno le vasche su e giù per i vicoli del mercato.
Certo i piumati sono belli, ma oltre alla bellezza emanano un sò che di fascinoso e affascinante, un qualcosa di ignoto e misterioso che rapisce la tua curiosità di straniero e ti porta, o quasi ti costringe, a guardarli, seguirli se non inseguirli. Mentre i “seri” ci accolgono con grandi sorrisi e hanno piacere di parlare con noi, “i piumati” sono schivi e la maggior parte delle volte si dileguano nella folla per poi rispuntare dall’altro lato della piazza del mercato, ben lontano da noi.
Ngong è un mercato giovane, fatto di giovani. Nell’aria percepisci cordialità, curiosità, vivacità, il tutto avvolto in un turbine di colori che ti avvolge e non ti permette d’andartene. Ragazzi e ragazze sono al mercato per ammirare ed essere ammirati, i primi apertamente vanitosi, le seconde più discrete, ma ammaliatrici come solo le donne sanno essere.
Vaghiamo per ore in quel fantastico mercato senza il minimo problema, divertendoci ad inseguire questa o quella ragazza che non vuole farsi fotografare, ma che non esita a seguirci non appena interrompiamo l’inseguimento e facciamo finta di tornare sui nostri passi. Riusciamo a circondare un bellissimo (nonchè altissimo) “piumato” che si sta intrattenendo con alcuni venditori di bestiame e loro stessi scoppiano a ridere quando lui si allontana stizzito (ma non troppo).
La fine della giornata di mercato è allietata dalle danze, alle quali ci viene concesso di assistere e fotografare pagando giustamente un obolo al capo-villaggio.
Al ritmo dei tamburi, le ragazze sono chiamate a raccolta e si sistemano una di fianco all’altra di fronte ai piumati i quali, a gruppetti oppure singolarmente, corrono verso di loro, cercano di toccarle e poi scappano. A questo punto è il turno delle ragazze. E’ un inseguirsi a vicenda, ogni ragazzo sceglie una ragazza e viceversa, in un corteggiamento vorticoso e frenetico. Cerco di fotografare, ma la mia macchina impazzisce: non riesce a mettere a fuoco nulla perchè nessuno dei partecipanti alle danze riesce a star fermo per più di due secondi. Alla fine desisto e mi lascio inghiottire da quel marasma di musica, canti, colori, polvere: sulla mia destra c’è un “piumato” mica male che oltre a sfoggiare piume e lustrini sapientemente e molto pazientemente intrecciati nei capelli, ha inforcato un modernissimo paio di occhiali da sole a specchio ed ora sta aspettando il suo turno per andare a scegliersi la dama. “Riuscirà a vederci qualcosa?” mi chiedo mentre tento inutilmente di inquadrarlo prima che schizzi via: sono le cinque passate, il sole se ne sta andando e inoltre siamo sotto a fitti alberi. Però gli donano, su questo non ci piove.
Alle sei ce ne andiamo e per strada salutiamo, ricambiati, i ragazzi e le ragazze che avevamo incrociato più volte al mercato. Anche loro stanno tornando ai villaggi in brousse e quando ci riconoscono, sul pulmino, sorridono e continuano ad agitare la mano sino a quando non li vediamo più.
18 agosto 1998
Come da programma, oggi ci si sposta nuovamente a Guider, per organizzare un ultimo trekking nella zona dei Fali. Non abbiamo informazioni dettagliate che garantiscano la riuscita della “spedizione”: sappiamo solo che i villaggi segnalati come molto interessanti si trovano fuori Guider e ci si arriva prendendo la pista che sta al bivio in prossimità di una scuola non molto ben identificata e identificabile, pista che dovrebbe valicare il crinale di una montagna e portare dritta agli agognati villaggi. Unica guida in grado di portarci sino a lì è un ragazzo che vive a Guider e di cui conosciamo solo il nome (che io ora ho dimenticato). Quindi, forti di questo pacchetto di informazioni molto dettagliate ed esaurienti, ci accingiamo all’impresa.
Prima di arrivare a Guider facciamo una breve deviazione verso le Gorges de Kola, le cascate. La pista per arrivarci è oltremodo brutta e più di una volta il pulmino arranca, esce a fatica dalla melma e riaffonda nelle voragini formatesi sulla pista erosa dalla pioggia. Tuttavia, fra un buco e l’altro arriviamo a destinazione accolti dal boato della massa d’acqua che precipita nel canalone sottostante: durante la stagione secca il grande fiume non è altro che un rivolo d’acqua e solo allora è possibile scendere sino al Salone del Diavolo, una grotta che si trova sul fondo del canalone e viene usata per il sacrificio degli animali e per togliere il malocchio.
“Qui in Cameroun la magia è ovunque” mi dice Moussa mentre torniamo verso la strada asfaltata “Il marabut è potente, e pericoloso. Lui può farti morire soffiandoti addosso la malattia, perchè così hanno voluti i tuoi nemici.”
Buco, sobbalzo, gran botta sulla barra di trasmissione dovuta a masso semi-sommerso dal fango: scappa una parolaccia, poi Moussa prosegue:
“Ci sono mali che la medicina non può guarire e allora la gente si rivolge al marabut, allo stregone. Lo so che tu non mi credi, perchè forse da voi in Europa lo stregone non esiste.”
“E qui ti sbagli caro mio” penso io senza interromperlo
“Anch’io ho dovuto rivolgermi ad uno stregone per aiutare mio fratello minore. Stava diventando cieco e il medico non riusciva a trovare una spiegazione e quindi un rimedio per la sua cecità: allora lui stesso mi ha consigliato di consultarmi con un marabut. E così ho fatto: mi è costato caro perchè per togliere il malocchio il marabut ha voluto 50.000 CFA, ma già dopo una settimana mio fratello aveva riacquistato la vista da un’occhio ed ora sta bene. Se io lo avessi lasciato in ospedale ora lui sarebbe cieco e non potrebbe lavorare, non potrebbe mantenere la sua famiglia. Il brutto è che qui per una sciocchezza la gente non esita a servirsi della magia del marabut: devi sempre stare attento a come parli, come tratti la gente. E’ brutto, molto brutto”.
Arrivati a Guider facciamo tappa a Le Mayo Louti, l’albergo a cinque stelle con gli uccellini dipinti alle pareti (ve lo ricordate?), e tentiamo inutilmente di rintracciare l’unica guida esistente per arrivare dai Fali. Dopo molteplici ricerche, veniamo informati che questo ragazzo se n’è andato alla ricerca di mondi migliori, ma alla fine non siamo nemmeno sicuri che sia lui la persona che cerchiamo.
Che fare? Visto che, comunque, una meta certa non esiste e non abbiamo o non possiamo fare null’altro per ingannare il tempo prima di ripartire per Douala, decidiamo d’andare a cercare la fantomatica scuola con il bivio che valica il crinale della montagna.
Usciamo da Guider e percorriamo qualche km alla ricerca di un segno che ci rincuori e ci dica che siamo sulla buona strada: incrociamo sulla nostra sinistra una casetta in muratura abbandonata che ci dicono essere stata una scuola, peccato però che secondo le nostre informazioni avremmo dovuto trovarla sulla destra. In quanto al crinale, beh, siamo circondati da montagne, quindi ce ne sono in abbondanza: basta solo trovare quello giusto (facile, no?).
Siamo allo sbando totale: col passare del tempo il caldo aumenta e causa una rapida diminuzione della voglia di rimettersi a camminare, con tanto di zaino sulle spalle. Anche se nessuno ha il coraggio di ammetterlo apertamente, di questi benedetti Fali, in fin dei conti, ci importa proprio poco (vergogna, vergogna, vergogna).
E’ Moussa, stanco di portarci a zonzo senza meta, a dare una svolta alla situazione: ferma il pulmino in prossimità di un gruppo di nullafacenti che stazionano sotto ad un grosso albero e chiede loro se sanno dove siano i villaggi Fali e se sono in grado di accompagnarci. Io mi abbasso la visiera del cappellino sugli occhi e mi lascio scivolare sul sedile pensando “vi prego, dite di no, vi prego, vi prego, vi prego”. Il pensiero è sicuramente comune a tutti, ma resta un pensiero, e il danno del non detto, ma solo pensato, è belle che fatto. Fra lo sconforto generale la partenza per il trekking, con guida e portatori improvvisati e raccattati per strada, è fissata per l’una e mezza, ora freschissima e sicuramente consigliata per chi ha intenzione di smaltire dieci chili in dieci minuti. Mentre armeggio con il mio zaino sotto al solleone invidio di cuore Moussa che torna a Guider a bersi una Coca ghiacciata e mi chiedo dove andremo a finire noi, invece.
Salutiamo Moussa quasi piangendo e gli diamo appuntamento per le dieci del giorno dopo, stessa strada, stesso albero. Lui ci saluta, ci augura buon divertimento (e come no?!) e se ne và, lasciandoci in balia di questi volenterosi, ma alquanto scombinati accompagnatori.
Il trekking alla Don Chisciotte ha inizio percorrendo a ritroso un km di strada asfaltata, in direzione Guider: ci accompagna anche un passante in bicicletta che, fermato da uno dei portatori, ha accettato di portare per un po’ la bombola del gas. Finalmente, dopo la strada asfaltata (avrebbe potuto venire Moussa col pulmino) imbocchiamo una pista che si inoltra fra i campi di miglio, cotone, arachidi e mais: ma non ci illudiamo, non è nulla di trascendentale e di difficile, visto che il volontario in bicicletta continua a seguirci.
Mentre costeggiamo un campo di cotone una donna Fali ci chiama, fà segno di fermarci: arriva correndo, porta in braccio un bimbo di circa 2 anni. Subito pensiamo sia malato, chiediamo al nostro interprete qual’è il problema per sapere quale medicine lasciarle. La risposta ci lascia a bocca aperta:”La donna chiede se potete allungare la gamba di suo figlio”
Guardiamo il bimbo attentamente: è vero, la gamba destra è di un palmo più corta rispetto alla sinistra. La donna insiste, ci porge il bambino, è convinta che le medicine dei massarà possono fargli allungare la gamba, possono strapparlo ad una vita da storpio. Noi siamo attoniti: nessuno si sarebbe mai aspettato di dover far fronte ad una tale richiesta. Abbiamo chili di pomate, pastiglie, unguenti, antibiotici, abbiamo fasce, aghi da sutura, ogni tipo di cerotto, anestetici, ma non sappiamo come aiutare quella povera donna. Non possiamo far altro che restituirle il bambino storpio, già inconsapevolmente e definitivamente condannato ad una vita di stenti.
Camminiamo circa tre ore per arrivare ad un minuscolo villaggio circondato da campi di miglio, arachidi e mais nei cui pressi scorre un bel fiume in grado di assicurare acqua in abbondanza per il bagno e per cucinare. Incontriamo subito il capo-villaggio, alquanto sorpreso e confuso per questa visita inaspettata e inusuale: è un bell’uomo sui 35, ha quattro mogli e dieci figli, ma non è soddisfatto della prole perchè, dice, dieci figlio sono troppo pochi. Sfortunatamente non possiamo comunicare direttamente nè con lui, nè con la sua gente perchè qui nessuno parla Francese: è un peccato, chissà quante domande avrebbero voglia di farci tutte queste donne che scrutano ogni nostro movimento, ogni cosa che tiriamo fuori dagli zaini . Tramite il nostro interprete chiediamo al capo il permesso, subito accordato, di piantare le tende a ridosso delle capanne di terra battuta: il dolce e allettante scorrere dell’acqua poco distante, il molto caldo e la poca voglia di piantare picchetti, uniti ad un cielo limpido libero da nuvole, ci convincono a non perder tempo per montare il doppio telo e in men che non si dica siamo tutti al fiume. Poco distante da noi ci sono due ragazze del villaggio ed una di loro è intenta a lavare il figlio, un bimbetto di circa tre anni che, a giudicare dalla foga con cui la mamma lo sta strofinando e insaponando, può benissimo essere eletto come bimbo più pulito di tutto il Camerun.
Quando torniamo dal fiume il sole sta già calando ed in men che non si dica è buio pesto: il cielo è stellato, ma l’orizzonte è illuminato dai lampi, brutto segno. Chiedo se possiamo aspettarci pioggia e la risposta è come sempre ben precisa e dettagliata: “Forse sì, forse no, dipende dal vento”.
Ok, ho capito, bando alle ciance Paola e sbrigati a montarti il doppio telo. Al buio o quasi, visto che le pile della torcia sono alla fine. In fondo è colpa mia, rimugino mentre sudata marcia con il telo in testa cerco di trovare al tatto le cerniere dell’entrata. Hai voluto fare il bagno? Beh adesso fai la sauna! Comunque alla fine riesco nell’impresa, pianto al meglio i picchetti e spero che i lampi cambino direzione. In lontananza, però, ora si sente anche il tuono.
La cena è rapidissima, il ritiro in tenda ancor di più: sono stanca, il caldo è soffocante, le zanzare sono troppe e non si vede nulla che stia al di fuori della luce della fiamma del fornellino a gas. Quindi, dò la buonanotte a tutti e mi addormento cullata dal concerto offerto da rane e cicale.
Mi sveglio all’una: sta piovendo “tranquillamente”. Tutto sotto controllo Paola, torna a dormire.
Alle quattro mi sveglio di soprassalto: il vento ruggisce, i tuoni squassano un cielo da paura. Alle quattro e un quarto ho già infilato tutto nei sacchi di nylon: lascio solo il materassino gonfio per potermi stendere, tanto è di plastica e si può bagnare senza problemi. Siamo tutti svegli.
Nel buio della tenda ascolto il boato dei tuoni e il mugghiare del vento: dev’essere l’orco di Douri-Di che, rabbioso, và e viene sopra al nostro piccolo accampamento, senza riuscire a toccarlo. Probabilmente i muri delle capanne ci proteggono perchè le poderose folate di vento lambiscono solo in parte le tende, le sfiorano facendole tremare, ma scaricano tutta la loro potenza sulla vegetazione circostante. Non sento più le rane, le cicale sono fuggite al riparo dall’orco che si sta divertendo a sradicare gli alberi ed a piegare sino a terra gli steli del miglio. Devo uscire, bisogna che controlli i picchetti altrimenti rischio che voli via tutto: apro la cerniera il minimo indispensabile per sgusciar fuori, e lo vedo. L’orco, la tempesta, è proprio di fronte a noi, sopra di noi, tutto intorno a noi: i lampi sono i sui occhi, il tuono la sua rabbia. Fà paura.
Sistemo i picchetti, ci metto sopra qualche pietra, mi guardo attorno ancora una volta e mi infilo in tenda. Speriamo in bene, speriamo che se ne vada.
Poi, forse esaudendo la mia richiesta, piano piano l’orco esaurisce la sua rabbia e lo sento allontanarsi, accompagnato dal tuono e dal lampo: tranquillizzata, mi assopisco per un’oretta, ma appena c’è abbastanza luce esco e smonto la tenda prima che ricominci a piovere.
Prima di andarcene dò al capo tutte le magliette che mi rimangono, affinchè le distribuisca ai bambini. Gli lasciamo le posate, i bicchieri, le tazze di plastica, la Diavolina per accendere il fuoco e tutte le provviste rimaste nella cassa cucina, insieme a olio, sale e zucchero. Quando gli porgo il vasetto di marmellata il capo mi chiede a cosa serve: gli dò un cucchiaino e gli dico di assaggiare, il resto vien da sè. A questo punto punto mi assale un dubbio: meglio che gli mostri a cosa serve la Diavolina, onde evitare che assaggino anche questa.
Lasciamo il villaggio alle otto, in ritardo di un’ora rispetto ai tempi prefissati: ci incamminiamo sotto ad un cielo plumbeo, minacciosamente bagnato, e viene spontaneo adottare un’andatura da maratoneta con la speranza di arrivare all’appuntamento se non asciutti, per lo meno non fradici. Per fortuna, i nostri portatori hanno la brillantissima idea di prendere una scorciatoia che ci fà risparmiare un’ora di cammino: appena mettiamo piede sulla strada asfaltata, qualche centinaio di metri dall’albero dell’appuntamento, intravvediamo il pulmino di Moussa, puntuale come un orologio svizzero.
Paghiamo e ringraziamo i nostri portatori, lasciando loro le provviste e le magliette che erano rimaste sul pulmino. Intanto ripiove, governo ladro. Ma non importa, la vacanza è finita. Domani c’è l’aereo che ci riporta a Douala e dopodomani si torna a casa.
19 agosto 1998
Eliminata la maggior parte del vestiario e la totalità delle vettovaglie, riesco ad infilare tenda, sacco a pelo e pantaloni nello zaino così posso fare solo bagaglio a mano ed evito di riperdere tutto un’altra volta. Avvolgo in una maglietta puzzolente anti-controllo doganale l’unica maschera che ho comprato, la sistemo in una borsettina di nylon e la lego allo zaino. Fatto, sono a posto.
I miei compagni stanno affogando in un mare di statuine di tutte le forme e dimensioni, maschere, pipe, stoffe, vasi. Si spinge, si lega, si schiaccia, il tutto nel vano tentativo d’impacchettare il più possibile nel minor spazio.
La mattina Moussa arriva in albergo alle nove, in ritardo di un’ora per via di un guasto alla macchina. Siamo già tutti in allarme: abbiamo sicuramente tempo perchè l’aereo è previsto a partire per l’una, ma consci della pessima fama della Cameroon Airlines vogliamo arrivare in aeroporto ampiamente in anticipo ed ogni minuto perso può risultare in un dramma.
E’ proprio vero che il buongiorno si vede dal mattino: infatti la giornata iniziata male ha un epilogo pessimo perchè la Cameroon Airlines non si smentisce e ci lascia a terra per motivi di overbooking. Ed ecco la cronologia dei fatti:
Siamo tutti in fila in attesa che inizi il controllo doganale per poi accedere alla zona check-in. Appena si ha una parvenza d’inizio, si scatena il finimondo: la gente si accalca davanti al posto di polizia, spinge, cerca di passarti davanti per arrivare primi al check-in. Visto che siamo turisti, nel tentativo di estorcere denaro non dovuto, la polizia ferma Gaia e le chiede di aprire la cassa di plastica dove sono imballate le maschere e i vasi di terracotta. Il fiume di persone ci spintona e ci scavalca mentre Gaia discute ancora con il poliziotto, che ora la convoca nel suo ufficio e le chiede di pagare dazi doganali esorbitanti destinati a finire nelle sue tasche e in quelle dei compari. La discussione si protrae alla lunga, invano: Gaia non scuce un soldo bucato e finiamo per essere noi a minacciare il poliziotto. A questo punto non gli resta che lasciarla andare, ma ecco che scatta la vendetta: i bagagli di quasi tutto il gruppo vengono aperti e ispezionati minuziosamente uno per uno, senza permettere agli altri di andare al check-in. Risultato: quando porgiamo i nostri biglietti, il capo-scalo farnetica che non ci sono più posti disponibili, nel senso che “chi tardi arriva male alloggia”. Ribatto subito che i biglietti sono stati riconfermati quattro volte all’Agenzia Cam Air di Garoua e lui risponde che non può essere al corrente di quello che fà l’agenzia. D’altra parte non capisce perchè ci preoccupiamo tanto visto che la coincidenza internazionale parte solamente l’indomani e quindi noi possiamo tranquillamente partire con l’aereo previsto (forse, ma non si sà bene a che ora) da Garoua su Douala il giorno stesso. A queste parole ci tornano in mente le relazioni degli sventurati che a causa di un overbooking avevano perso il volo internazionale ed erano stati catapultati dal Camerun in Sudan, dal Sudan all’Egitto ed erano rimasti bloccati al Cairo per oltre 5 giorni in attesa di un volo per l’Europa.
Non vogliamo fare la stessa fine, proprio no.
Dopo una discussione infinita ed improduttiva mi faccio dare la lista dei passeggeri e le carte d’imbarco rimanenti: sono solo quattro. Questo vuol dire che tutto il gruppo non può partire, ma non è pensabile dividerci perchè chi rimane è fregato: due secondi dopo le carte d’imbarco sono già sparite nel marasma di mani e un quarto d’ora dopo sentiamo il rombo dei motori del Boeing. L’aereo se ne và senza di noi.
A questo punto la pazienza dell’occidentale si esaurisce e lascia posto al metodo africano: la minaccia. Chiedo, anzi esigo di parlare seduta stante con il responsabile Cam Air dell’aeroporto ed obbligo il capo-scalo a darmi il suo nome e cognome: non mi serve a niente, ma lui inizia a prenderci sul serio. Inoltre, per nessun motivo i nostri bagagli devono essere tolti dal nastro trasportatore del check-in, cosicchè mentre io e Gaia andiamo a parlamentare, gli altri ci si siedono sopra. Se non riusciamo a partire oggi bisogna avere la certezza matematica di salire sull’aereo di domani, altrimenti adiós. Come mi aspettavo, il responsabile Cam Air non sà che pesci pigliare e alla fine la butta sull’offesa personale e sul solito discorso (che io odio) al quale gli africani in difficoltà fanno spesso ricorso, vale a dire “voi turisti bianchi venite qui a pretendere e vi comportate così solo perchè siete in un paese sottosviluppato”.
“Se c’è qualcuno qui di sottosviluppato e male organizzato è proprio lei, Monsieur, e con lei tutta la Cam Air”
Lui si volta, livido di rabbia, e se non fossi una bianca intoccabile mi picchierebbe volentieri.
“Ed ora è meglio per lei che ci compili i voucher per vitto e alloggio sino a quando non avrete l’amabilità di farci partire. Chiaramente tutto a carico vostro”
Lui rifiuta, stizzito. Mi par quasi di vedere il fumo uscirgli dalle narici, ma sò che l’unica certezza che questo nano malefico ci metta sull’aereo di domani sta nel fatto di obbligarlo a sborsare un bel po’ di soldi per mantenerci in hotel sino alla partenza. Quindi non demordo e dopo qualche sottile, velata minaccia che però arriva dritta al segno, lo sento mormorare: “Non ho detto che rifiuto di pagare il vostro soggiorno in hotel. Devo solo pensarci sù”.
I voucher arrivano puntuali e con loro l’assicurazione congiunta di capo-scalo e responsabile Cam Air di essere imbarcati sull’aereo del giorno dopo. Unico neo: la nostra coincidenza su Parigi parte alle 23.00. L’aereo Da Garoua dovrebbe partire verso le 20.00 (orario non comprensivo di ritardo), il che vuol dire che forse forse perdiamo la coincidenza. Anche qui, però, veniamo doppiamente rassicurati: ci sono parecchie altre persone che partono con noi il giorno dopo e sono prenotate sul volo internazionale. Quindi il volo internazionale aspetta. C’est sur.
Lasciamo tutti i bagagli nell’ufficio del capo-scalo (ad ulteriore assicurazione della nostra partenza l’indomani) e Moussa ci accompagna al bell’albergo proprio vicino al Relais St. Hubert, di cui ho scordato il nome. Ci tornerà a prendere il giorno dopo alle 15.00.
Probabilmente il concierge sà già come funziona, perchè ci accoglie con un gran sorriso e mi dice “Non ti preoccupare, Madame. Se è la Cam Air a pagare, allora domani ve ne andate. Sicuro”. Ricambio il sorriso e penso con perverso e sottile piacere a come farà il nano malefico a rendere conto di questo esorbitante esborso dovuto alla sua negligenza. Cavoli suoi, sbagliando s’impara….
Pranziamo in albergo e quando la cameriera porta il conto facciamo con gioia un rapido calcolo di quanto costerà alla Cam Air lo scherzetto di averci lasciato a terra: due camere singole e tre doppie (non ci avevamo pensato prima, altrimenti avremmo preso tutte singole), 3 pasti e una colazione incluse bevande moltiplicati per 8 persone ammontano e sorpassano l’esorbitante cifra di novecentomilalire. A questo punto non abbiamo più dubbi: domani partiamo, altrimenti la Cam Air fà bancarotta. Tuttavia, se siamo più o meno sicuri di riuscire ad arrivare fino a Douala, la grande incognita rimane il volo internazionale: avranno fatto overbooking anche lì? Anche a Douala si ripeterà la storia del “chi tardi arriva male alloggia”?
Nel pomeriggio arriva al nostro stesso albergo il gruppo di italiani demoralizzati che avevamo incrociato più volte durante il giro nell’estremo Nord. Sono stati molto sfortunati perchè la pioggia li perseguita dall’inizio del viaggio ed ora, visto che è impossibile raggiungere Foumban perchè la pista è affogata e a Ngaounderé non ci si arriva, sono costretti a ripiegare su Douala in aereo da dove sperano di salvare il salvabile e passare qualche giorno al mare (e anche qui sfortuna nera perchè la sera dopo, in aereo, leggo sul giornale locale che vengono segnalate inondazioni nella zona di Douala. Ma andiamo con ordine, ora non siamo ancora in aereo).
Se anche loro vanno a Douala, vuol dire che vengono con noi. Peccato però che, anche se di aereo ce n’è uno solo, l’orario stampato sui loro biglietti anticipi di qualche ora l’orario confermato sui nostri: stesso numero di volo, stesso giorno, stessa agenzia di Garoua, ma ora diversa. Come si spiega? Ma certo, che stupidi a non pensarci: l’impiegata Cam Air che ha stampato i loro biglietti non è dotata di poteri paranormali, mentre quella che ha riconfermato i nostri ha seguito dei corsi di formazione ed ora riesce a vedere nel futuro e quindi stampare biglietti con un orario già comprensivo di ritardo. Semplice no?
Siccome oggi il tempo non passa mai, sapendo di poter contare sull’aiuto dell’altro gruppo elaboriamo il piano di guerra che domani ci permetterà non solo di dire addio a Garoua, ma anche di salire sul Boeing che ci riporta a Parigi. Chiaramente l’aiuto è reciproco, perchè si prevede che un gruppo di 16 bianchi arrabbiati e determinati a “fare casino” sia una forza d’urto troppo forte sia per il blocco della subdola polizia doganale, sia per il già provato nanerottolo della Cam Air che rischia sicuramente la testa se da un giorno all’altro i suoi datori di lavoro vedono raddoppiare la quantità di bianchi da mantenere a tempo indeterminato. Una volta concordato il piano siamo tutti più tranquilli: pazienza, civiltà e fiducia nelle altrui capacità sono volate via con il Boeing di stamani. Ciò che resta, e che ci farà tornare a casa, sono la prepotenza e le maniere forti. Su questo non ci piove.
L’essere ormai alla fine della vacanza, la giornata sfibrante prima ed uggiosa poi, unita all’incertezza di cosa succederà domani, tolgono a tutti la voglia di parlare ed abbassano il morale ai minimi termini. La sera si cena tanto per spendere un altro po’ dei soldini dell’ormai odiata linea aerea e tanto per far qualcosa in attesa che le lancette dell’orologio riescano finalmente ad arrivare alle otto e mezza, ora della ritirata. Mentre aspetto gli altri, mi siedo sul bordo della piscina a guardare i pipistrelli che si lanciano in picchiata sullo specchio d’acqua per far scorpacciata d’insetti: più di una volta, virando di colpo dall’acqua dopo aver catturato l’insetto, i topolini alati mi sfiorano il viso.
20 agosto 1998
Calma piatta, noia infinita. Mi sveglio alle 6 e mi chiedo cosa farò fino alle nove, ora di colazione e, molto peggio, cosa farò fino alle tre di oggi pomeriggio. Per disperazione termino di leggere l’orribile libro che Renato mi ha prestato ieri, storia confusa e confusionaria di tre ragazzi adolescenti che vivono alla periferia di Roma: mi chiedo come si possano pubblicare certe schifezze, dove l’ottanta per cento del testo non è altro che parolacce e il venti per cento è incomprensibile.
Alle otto non resisto più ed esco, forse c’è già qualcuno in giro. Trovo Francesco e Stefano che stanno facendo colazione: il resto del gruppo ci raggiunge nel giro di dieci minuti. La mattinata passa grazie ad una lunghissima e lentissima passeggiata a Garoua, che ormai conosciamo come le nostre tasche e che nulla offre se non venditori di pesce, brochettes, limoni, pane. Pranziamo all’una e per le due siamo già tutti fuori ad aspettare Moussa.
Ore quindici e quindici: il gruppo di 8 bianchi arrabbiati arriva all’aeroporto di Garoua ed entra direttamente nella zona check-in, già oltre il blocco della polizia. Gli altri 8 bianchi non ancora arrabbiati bloccano l’entrata del controllo doganale con zaini e casse, in modo che nessuno possa passare.
Ore sedici e trenta: compare il capo-scalo, sorridente. Ci riconsegna i bagagli e ci chiede i biglietti, comunicandoci che l’aereo arriverà e partirà in orario. Tutti i bagagli vengono spostati al banco del check-in.
Ore diciotto: il capo-scalo è al banco del check, ha già compilato le nostre carte d’imbarco, ma non ce le ha ancora consegnate: noi facciamo barriera attorno a lui. Oltre alle transenne del controllo doganale si agita già una marea di gente che litiga, spinge, sgomita nel vano tentativo di scavalcare la massa di bagagli dei nostri amici, primi al controllo doganale.
Ore diciotto e dieci: inizia il controllo doganale, si apre il check, inizia la battaglia. Approfittando della confusione, mentre il loro Schwarzenegger (culturista tatuato che pesa 100 Kg per un metro e novanta di altezza) si piazza davanti alla porta a braccia conserte e tiene tutti lontani, gli altri fanno scivolare dentro alcuni zaini e permettono alla polizia di controllare solo quelli dove non c’è effettivamente nulla. Uno di loro, con fare indifferente, sgattaiola verso di noi e riesce ad infilare i biglietti al check subito dopo i nostri. Nel giro di qualche secondo dietro di lui si ammassa un’orda di gente che sbraita, gesticola, continua insistentemente a spingere e cerca di buttare il proprio biglietto sul banco, sopra ai nostri. Bisogna fare attenzione anche ai facchini: fanno il gioco di chi li paga e con molta indifferenza, nel marasma totale, tentano di togliere i bagagli dal nastro trasportatore per metterci i loro. A questo punto, l’unica è farsi rispettare: mentre i ragazzi si occupano dei facchini, noi agguantiamo per la collottola chi cerca di superarci, facciamo partire gomitate nello stomaco e calci negli stinchi. Siamo donne bianche, siamo intoccabili, specialmente in un aeroporto.
Alla fine compaiono le nostre carte d’imbarco e i bagagli sono sistemati sul carrello di carico: noi ci spostiamo compatti vicino al controllo passaporti. Pare quasi fatta, ma Moussa mi prende da parte per dirmi che la polizia vuole comunque la stecca per l’altro gruppo, altrimenti causerà problemi a tutti i suoi clienti. Riferisco al loro capogruppo e così seimila CFA scivolano nelle tasche del poliziotto.
Siamo a metà dell’opera, ma ci rimane ancora il controllo passaporti e la corsa finale sino all’aereo, per accaparrarci i posti. Infatti sappiamo che l’avere la carta d’imbarco non garantisce il posto in aereo: molti fiduciosi passeggeri si sono ritrovati a terra, con la carta d’imbarco in mano, solamente perchè qualcuno li ha battuti in velocità. Secondo il nostro piano, io e Gaia dobbiamo essere le prime a schizzare fuori dalla sala d’aspetto appena i soldati aprono la porta, protette dal blocco degli altri che ci guardano le spalle. Salite in aereo dobbiamo assolutamente sederci il più avanti possibile ed occupare per gli altri i posti subito dietro a noi: appena l’aereo atterra a Douala, loro hanno il compito di bloccare tutti i passeggeri facendo cadere nel corridoio zaini, statue e tutto ciò che può ostacolare la corsa al Boeing 747 che aspetta all’altro gate. Le speranze di riuscire ad arrivare a Parigi sono riposte nelle gambe mie e di Gaia, perchè dobbiamo arrivare per prime al check-in e farci assegnare i posti per tutti.
Ore diciannove e quarantacinque: apre il controllo passaporti. Salutiamo Moussa rapidissimi, passiamo per primi ed io e Gaia arriviamo alla porta di uscita che immette direttamente sulla pista dell’aeroporto: dietro di noi c’è il gruppo compatto e in assetto di guerra. Dietro al gruppo c’è il caos. Per tenere lontani gli intrusi che tentano una sortita per intromettersi fra mè e la porta, infilo lo zaino pesantissimo e comincio a girarmi a destra e sinistra, colpendo chiunque mi si avvicini troppo. La tensione e la confusione aumentano con l’avvicinarsi del momento dell’apertura della porta: un tizio si catapulta su di noi con tutto il peso del corpo per tentare di sorpassare, ma io faccio solo in tempo a vedere una mano che lo prende per il bavero della camicia e lo tira indietro, buttandolo addosso ad una signora africana alquanto baldanzosa che gli sferra un gran ceffone e lo spinge ancora più indietro. E man mano che il tizio viene strattonato indietro c’è sempre qualcuno che gli sferra un pugno, uno schiaffo, un calcione. Un signore portoghese con tanto di valigetta ventiquattrore chiede se può stare vicino a noi e ci consiglia di correre a più non posso non appena viene dato l’OK all’imbarco. Parla per esperienza, visto che lavora in Cameroun come consulente e sa bene di cosa sia capace la Cam Air. Accidenti, se corre lui, che viaggia in business, noi dobbiamo volare.
“Inoltre” dice “una volta conquistato il posto in aereo non alzatevi mai, nemmeno se vi offrono un posto in prima classe. Sovente la compagnia usa questo stratagemma per trovare i posti ad amici e parenti e il malcapitato che si è alzato viene sbarcato”.
Nell’istante in cui il portoghese termina la frase, il soldato apre la porta e ci lascia uscire: fra noi e l’aereo ci sono circa duecento metri e mentre corro mi volto a guardare la fiumana che mi rincorre. L’assurdo della situazione mi fà scoppiare a ridere: vedo il signore portoghese correre a perdifiato con la sua ventiquattrore, dietro di lui una donna spinge a razzo la carrozzina del figlio mentre un’altra sta strattonando il tizio che le vuole passare davanti. Mamma mia, una cosa così non mi era mai capitata: sembriamo tanti matti, altro che procedura d’imbarco privilegiato per donne, bambini e anziani. Qui ogn’uno si arrabatta come può!
Giunta in dirittura di arrivo vedo una hostess che corre (anche lei!) giù per la scaletta facendo segno di rallentare e di calmarci perchè c’è posto per tutti. Arriva di corsa (ti pareva) a darle manforte uno steward e poi esce anche il pilota: “c’é posto per tutti, l’aereo è vuoto”. Vuoto o non vuoto io e Gaia saliamo per prime e occupiamo i posti come da programma: almeno fino a qui ci siamo arrivati, finalmente schiodiamo da Garoua!
Raggiunta la quota di crociera l’hostess passa a distribuire giornali, panini e bibite. Decido che non devo più guardare l’orologio e mi concentro sul gazzettino di Garoua, dove si riporta in prima pagina la notizia di una madre che ha colpito la figlia in testa con uno sgabello perchè la ragazza continuava a rifiutare il marito scelto per lei. In seconda pagina si notificano inondazioni e crolli di case dovuti a piogge torrenziali nella zona di Kribi: mi sporgo dal sedile e faccio segno ai nostri amici demoralizzati di dare uno sguardo all’articolo, può sempre servire per evitare di finire a bagno un’altra volta.
Dopo circa un’ora e mezza si illumina il segnale di allacciare le cinture di sicurezza: stiamo atterrando e siamo relativamente in orario. Mentre ci avviciniamo al gate, dal mio oblò riesco a vedere il Boeing dell’internazionale parcheggiato al nostro stesso terminale di arrivo: sono certa che l’aereo è quello perchè è l’unico di tutto l’aeroporto, altrimenti deserto. Mi volto a salutare i nostri amici che non hanno fretta di scendere e che se la prenderanno molto, molto comoda anche perchè hanno avuto l’accortezza di portare molto, molto bagaglio a mano.
Ci siamo. Quando agganciano la scaletta noi siamo già tutti in piedi, il bagaglio a mano è sparso lungo il corridoio: chiunque volesse sorpassare dovrebbe cimentarsi in una corsa ad ostacoli. Io e Gaia usciamo per prime ed inziamo a correre verso la zona transiti indicataci al volo dal signore portoghese: ad un certo punto non sò bene dove andare e corro trafelata (le bretelle dello zaino mi stanno tagliando le spalle) verso un uomo che tiene in mano un fascio di documenti, per chiedergli dove devo dirigermi. Lui mi sorride e mi dice: “Vieni con me, Madame. Sono io che rilascio le carte d’imbarco per Parigi”. A quanto pare ho beccato l’uomo giusto.
Andiamo al banco del check e fortunatamente i miei compagni arrivano subito dopo di me, il che vuol dire che i demoralizzati hanno fatto un buon lavoro. Agguanto la carta d’imbarco e vado di corsa al controllo passaporti attraversando un aeroporto praticamente deserto: il poliziotto mi chiede cos’ho nello zaino e se posso lasciargli un regalino, del tipo carta moneta. Non lo lascio nemmeno finire di parlare, richiudo la zaino all’istante e gli dico che, se vuole, posso lasciargli dei vestiti sporchi. Altro non ho. Lui non insiste e mi lascia andare, ma io torno indietro ad avvertire gli altri.
Giornata magra, oggi, per il tipo.
Finalmente arrivo al gate e mi faccio assegnare gli otto posti per i quali abbiamo tanto combattuto e tanto corso. Qualche minuto dopo arrivano alla spicciolata anche gli altri, e ci imbarchiamo. L’ultimo avvertimento, mentre siamo già tutti seduti e con le cinture allacciata, è: “Oh, mi raccomando, non alzatevi per nessuna ragione al mondo sino a quando l’aereo non sarà decollato”
Torniamo a casa. Siamo in volo verso Parigi, l’aereo ha raggiunto i diecimila metri, nessuno può più rubarci il posto.
Sono esausta, ho schiena e spalle massacrate dallo zaino, ho fame, sete, sonno. Mentre mi sto facendo rapire dalla stanchezza mi tornano involontariamente in mente i vari momenti di questa giornata battagliera e scoppio a ridere. Penso al signore portoghese che corre con la sua ventiquattrore, alla donna col passeggino, al capo-scalo di Garoua che con noi ha visto decollare un incubo e al nanerottolo della Cam Air che adesso sarà probabilmente trasferito in Siberia. E’ tutto così grottesco, inverosimile. Rido io, ridono i miei compagni, ridiamo fino alle lacrime, fino a quando anche lo stomaco fà male. Come abbiamo potuto, come abbiamo osato fare ciò che abbiamo fatto? Abbiamo minacciato poliziotti, picchiato, abbiamo praticamente sequestrato i passeggeri di un aereo. Ora mi dispiace per quel tipo che ho fatto piegare a metà con una gomitata, o per quell’altro, che adesso avrà una caviglia grossa come un palo della luce. Mi dispiace, ma non potevo lasciare che mi passassero davanti, io volevo solo tornare a casa…
Pazzo, pazzo Camerun.
Sei favola e magia, sei paese di sultani e potenti marabut.
Sei un calderone di razze, colori, odori, sensazioni.
Sei caldo, in tutti i sensi.
Sei Africa.
Paola
12.11.1998