By Robogabraoun
Posted Tuesday, April 1, 2003
La musica di Bach inonda la hall dell’Acropole Hotel, mentre il solito via vai di archeologi da tutto il mondo movimenta i corridoi in una babele di lingue, sottofondo costante in questo che è il punto di raccolta dei più grandi nomi della cultura occidentale.
In poche ore ho incrociato i direttori dei più importanti musei del mondo, dal british museum al berlin museum, dal Toronto Archeological Museum all’Accademia di Francia.
Su queste scale sono saliti Hnkell, Bonnet, Vercouttier, Tim Kendall, July Kamptown, Andrea Roccati, i fratelli Castiglioni ed infiniti altri luminari dello “scavo”…
E’ buffo che, con queste persone che sono veri e propri pezzi di storia, non solo di questo Paese, ci si saluti come vecchi amici, ci sieda magari a tavola insieme, chiacchierando come compagni di viaggio di vecchia data…Mi impressiona, se mi fermo a pensarci un attimo, che chi mi chiama “ ehi Robo, how are you?” sia magari chi ha scoperto i resti dell’Armata di Cambise, o chi ha appena scavato dalla terra ardente le rovine di un Tempio meroitico celato da 2500 anni…
Eppure, anche in questo angolo di mondo, alla fine le facce del girotondo sono sempre le stesse, si fa parte di una sorta di circolo, come avviene per noi viaggiatori della sabbie che ci ritroviamo, sempre i soliti, ai moli dei porti, là dove salpano le navi per l’Africa…
Io sono qui a trafugare emozioni e colori, per scrivere nuove pagine, per continuare a prolungare il mio viaggio infinito, e per ampliare questi miei orizzonti , con la mia mai sopita sete di nuovo, di altra sabbia, di altre piste.
Sette viaggi attraverso il nord del Sudan, eppure non è nulla, è solo una lacrima all’interno di un mare, questi 12000 chilometri sono solo parte di un tutto che non avrò mai modo di colmare.
Ho attraversato questi deserti lungo tutte le direttrici, toccandone gli angoli più nascosti, vivendo la gioia della scoperta e l’ira della tempesta, tornando bambino tenendo in mano una macina neolitica o un frammento di tronco fossile.
Ho vissuto con la più bella gente d’Africa, un popolo che ancora non è stato inquinato dal contatto deleterio con il turismo occidentale, per il quale l’ospitalità è ancora un valore sacro e scevro da secondi fini.
Ho mangiato con persone mai viste, pescando dal loro piatto con le mani, accovacciato in un campo di fave o sdraiato sotto l’ombroso portico di una casa imbiancata a calce.
Ho bevuto l’acqua dei pozzi, rinfrescandomi pelle ed anima sotto il getto copioso del liquido vitale, strappato alle viscere della terra da pompe diesel che potrebbero essere pezzi da museo…
Ho ascoltato le storie dei pastori Bicharin ,la sera, vicino ai miei campi, a tentare di toccare l’anima di questo popolo sovrano degli spazi e del vento.
Ho sentito scorrermi dentro le vene polvere, onnipresente piaga del Sudan, polvere sottile e bianca che impregna ogni cosa, ogni persona, ogni animale. La mangi, la bevi, la respiri, e divieni anche tu di polvere, ne riconosci l’odore, quello stesso strano odore che ti coglie quando scendi dall’aereo in Khartoum la prima volta, e non sai cosa sia, da dove provenga, così diverso dall’odore acre delle spezie che veste le città più a nord, in Sahara…
Ho vissuto la gioia di giungere nei villaggi ed incontrare persone che mi chiamano per nome, non straniero e non sconosciuto, ma parte del tutto, parte del clan, amico.
Sudan è Africa Nera, non c’è nulla del mondo Arabo che conosco: è il Paese dell’approssimazione, del caos, dell’anarchia in tutto ed in tutti, cuscinetto naturale tra le culture sahariane ed i tam tam delle foreste equatoriali.
E’ un mondo a parte, in cui ti puoi perdere; donne vestite di sgargianti colori, dal portamento regale e orgogliosamente fiere di mostrare il loro splendido volto sfilano tra altre ricoperte di veli neri, a celare completamente la figura, il volto, le forme stesse del corpo.
I bus colorati sanno di Senegal, di Mali, i taxi sgangherati sono fuori luogo a fianco dei piccoli motocarri sferraglianti a tutto gas per le vie, eppure ci sono , come c’è il carro con l’immancabile asino e la Mercedes ultimo modello del ricco signore locale.
7 milioni di abitanti brulicano tra le strade della capitale, un mondo nel mondo.
Buona parte sta in mantega, il quartiere dei meccanici, in cui i rottami delle auto fiancheggiano le vie sterrate, in un viale di ruggine e oleosi liquidi nerastri, piccoli ouidian nella polvere che sa di grasso, di unto.
1000 botteghe, forse di più, una a fianco all’altra, e decine di uomini in tuta blu affaccendati su migliaia di cofani spalancati, il rombo dei motori in prova a riempire l’aria, i richiami soffocati dalla cortina eterna dei fumi di scarico di asfittici diesel che ti chiedi come ancora possano funzionare…
Khartoum dei militari, dei blocchi armati ad ogni incrocio nella notte, vestigia di un coprifuoco ufficialmente abolito ma che ancora perdura, volti di ragazzini troppo giovani con il loro AK47 in spalla e la paura negli occhi di ritrovarsi faccia a faccia non con me ma con un fanatico rivoluzionario…Ed il grido “kawajia”, uomo bianco, che ti raggiunge ovunque tu vada, in città, fuori, in deserto, nei villaggi, tanto che diventa il simbolo stesso di un viaggio in queste terre…
Sudan senza ponti, con il Nilo attraversato da vecchi traghetti che diventano passerelle per film d’autore, in un tripudio di colori e grida, tra le centinaia di carri che si accalcano intorno alle poche auto in un marasma che se non vivi non potresti mai immaginare.
Sudan delle piramidi, mio Dio quante piramidi, che l’Egitto al confronto sembra una barzelletta…Piccole ma meravigliose, dai fianchi scoscesi a bucare il cielo sempre terso, senza nuvole, scacciate dal sempiterno vento, respiro stesso della Nazione.
Sudan dei templi, culla di grandi civiltà che precedettero i Faraoni, e di altre che li soggiogarono…
Ho visto i faraoni neri, quella xxv dinastia che cambiò la storia d’Egitto, ho camminato per le vie delle loro città, sfiorato le colonne dei loro templi, visitato i loro sepolcri bui affrescati con i più bei dipinti che la mente umana possa immaginare,toccato la sabbia che essi toccarono, calpestato sacrilego i cocci sparsi a miliardi tutt’intorno, vestigia di uno dei più grandi imperi del passato.
Sudan del Nilo, linea di verde e di vita a tagliare il deserto e l’arsura, meravigliosamente selvaggio e non ancora contaminato dai grandi scafi del turismo di massa, acque torbide di limo prezioso in cui è facile incrociare feluche condotte da uomini vestiti di bianchi burnus, oggi come 4000 anni fa, e passare con la prua tra stormi di oche egiziane, aironi, cicogne, gru, coccodrilli sonnecchianti tra i canneti, a pochi passi dal contadino che sciacqua la sua “riglah” nella corrente lenta, sonnacchiosa…
E Sudan delle persone che vi ho accompagnato, italiani,tedeschi,francesi,spagnoli, americani…un mondo di volti diversi, anime diverse, gioie e delusioni, persone con cui ho diviso lunghi giorni, notti, emozioni, passate nella mia vita come meteore. Ed a ciascuno di loro ho lasciato frammenti di me, e non solamente nelle loro fotografie, nei loro ricordi: ognuno ,andandosene, si è portato via qualcosa di me, insieme al profumo di questa terra arida e splendida, nei loro bagagli, nei loro occhi,lasciandomi ogni volta svuotato, indifeso, perché quando vivi per 20 giorni con le stesse persone ti entrano dentro, diventi parte di un insieme…ed è una sensazione illusoria, perché poi tu resti, e ricominci daccapo, spazzi la mente e cerchi di renderla nuovamente linda e pulita, pronta a ricevere nuovi nomi, nuovi caratteri, nuove emozioni…
Ed alla fine ,se a chi parte qualcosa di te resta, ti rendi conto che tra le dita a te non resta che la polvere di 2 o 3000 chilometri, e qualche briciola di tempo per riposare prima di riprendere la via del deserto.
Sono come questo Toyota rosso che è stato la mia casa per 4 mesi, un frammento di questo paese, io stesso parte della sua polvere di cui ora ho l’odore, il colore.
Ho migliaia di storie da raccontare, giorni da ricordare…altri da dimenticare.
Momenti di vissuto che regalerò a chi vorrà leggerli, altri che terrò nel cuore, altri ancora che ho dimenticato nel turbine di ore e minuti che mi è scivolato addosso tenendo stretto tra le mani il volante lungo piste infernali o tra le dune soffici. Ho poco tempo, dannazione a questo concetto così occidentale che faccio fatica a sentire mio dopo aver vissuto in luoghi in cui esso è solamente scandito dalle parole “inch Allah”…Ma non posso sfuggire all’ingranaggio di questa cultura che in fondo è la mia, il mio mondo.
Ripartirò per l’Africa Australe, a breve.
Ma ora ho ancora addosso e dentro, giù nel profondo, l’odore del Sudan;
E ve lo voglio raccontare.