By Piero Priorini
Originally Posted Thursday, September 29, 2011
Riflessioni di un impenitente viaggiatore africano
America e Africa 2011
Foto di Raffaella Maia
Le vacanze dell’agosto 2011 avremmo dovuto passarle tra Sud Africa e Botswana. A Johannesburg avremmo dovuto prendere a nolo un 4×4 ben allestito, passare per il Kgalagadi Transfrontier Park, attraversare una piccola parte del Kalahari, arrivare a Maun e, di lì, tornare a visitare il delta dell’Okavango, la Moremi Gaime Reserve, Savuti e, attraverso il Chobe River Front, raggiungere Kasane. Poi ridiscendere fino a Gaborone e, di lì, ritornare a Johannesburg.
Ma il 20 febbraio 2011 i campsites della Moremi, di Savuti, e del Chobe per il periodo di agosto sono già tutti prenotati. Dopo aver provato a fare miracoli di slalom gigante per cercare di passare in ogni modo… alla fine rinunciamo. Imbufalito contro il turismo di massa gestito dalle agenzie di viaggio – che prenotano tutto in anticipo nella speranza di avere poi clienti – incapace di rinunciare del tutto alla “Nostra Africa”, convinco la mia compagna a spostare le prenotazioni per natale 2011. Detto fatto… Tuttavia le mutate condizioni stagionali che troveremo ci impediscono di programmare lo stesso identico percorso; e così finiamo per architettare un itinerario circolare che, sempre iniziando da Johannesburg, passerà per il Kruger National Park, lo Swaziland, St. Lucia Wetland Park, l’Umfolozi National Park, Lesotho, Bloemfontein e terminerà infine là dove è iniziato: Johannesburg.
Tutto questo prenotato con quasi un anno di anticipo. Un’autentica follia! Ma come si fa a sapere con un anno di anticipo dove ci si fermerà il 22 dicembre, se il luogo sarà di nostro gradimento o se, invece di un solo giorno, vorremmo passarcene due o tre? Una follia… davvero una follia. In special modo per noi che abbiamo ancora fresco il ricordo di Transafrica, realizzata viaggiando senza avere alcuna meta predefinita, fermando “Chicca” (la nostra Toyota Land Cruiser) dove ci sembrava più opportuno e così assaporando il gusto di un viaggiare a misura d’anima.
Abbiamo il terrore di dover ammettere che tutto questo presto scomparirà definitivamente, sacrificato agli interessi economici delle migliaia di agenzie che del viaggiatore autonomo se ne fregano bellamente e che, anzi, vorrebbero veder sparire per sempre dal proprio territorio di “caccia”.
Ora non vorrei dare una impressione sbagliata… quella cioè di ignorare le necessità economiche di popoli che, dopo aver subito la schiavitù e il colonialismo, per loro fortuna hanno trovato nel business turistico una fonte di dignità e di sopravvivenza. Quello che denuncio, piuttosto, è l’ingordigia, l’avidità, la bulimia “accaparra tutto” che la cultura occidentale ha importato quasi ovunque nel mondo. E che ovunque nel mondo, compresa l’Africa, è stata accolta in maniera passiva e acritica. Perché, in fondo, di viaggiatori autonomi ce ne sono e ce ne saranno sempre pochissimi se confrontati con la massa di turisti incapace di progettare la più piccola avventura. E dunque non credo che si avrebbero chissà quali perdite economiche se, in tutto il mondo, ma soprattutto nei parchi africani, si riservassero sempre due o tre posti liberi per il viaggiatore autonomo occasionale che fosse stato spinto fin lì dallo Spirito della Strada.
Volenti o nolenti, tutti oramai viviamo in una società di massa. Sarebbe scandaloso ignorarlo. Milioni di persone hanno bisogno di essere portate per mano e rassicurate prima di accostarsi alla periferia della Natura Selvaggia (o, almeno, di quel che resta di tale Natura). Aiutarli ad avvicinarvisi potrebbe rivelarsi un’opera giusta e, per tutti loro, una esperienza molto salutare. Ma dubito che sia questo lo spirito di chi fornisce questo servizio. Altrimenti non sarebbe così feroce il tentativo di escludere ed eliminare dal circuito dei parchi qualunque tentativo di libera iniziativa.
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Insomma: per questo agosto niente Africa.
Panico! E allora dove andiamo? Agosto è un periodo sfigato… dopo tanti anni di viaggi abbiamo esaurito le mete raggiungibili in questo periodo dell’anno. Tutte quelle da noi ambite e non ancora realizzate – Guatemala, Belize e Yucatan, Laos, Nepal e Bhutan, India – sono sconsigliabili durante questa stagione. Si profila l’incubo di Torvaianica.
È solo allora che Raffaella (la mia compagna) e Giulia (sua figlia) osano avanzare le loro richieste:
– E se andassimo nei Grandi Parchi dell’Ovest americano?
Sanno che l’idea non mi arride. Ho sempre detto alla mia compagna che ci saremmo andati… un giorno… quando saremmo stati più vecchi. Dopo aver riempito i nostri occhi e le nostre anime di quel poco che oramai resta nel mondo di “diverso” e di “originale”. Sanno che sono prevenuto. Però sanno pure che sono in grado di riconoscere le mie prevenzioni come tali e, come tali, di combatterle. Di mia spontanea volontà, per esempio, non sarei mai andato a New York… però poi, lo scorso anno, pressato dalle “mie donne”, ci sono andato e l’esperienza non solo mi ha incuriosito, stimolato e interessato: mi è anche piaciuta moltissimo. Sanno che i miei dubbi e le mie perplessità non si rivolgono al popolo americano in quanto tale – semmai solo alla sua classe politica e ai grandi magnati della finanza che la controllano – quanto piuttosto a un che di vago che non accende il mio desiderio e non fa trepidare la mia anima.
Tuttavia stento a trovare una valida alternativa di viaggio.
E così, alla fine, un po’ per pigrizia, e un po’ per amore, mi strappano un: “E va bene… Si! Ok…” svogliato e incerto.
Fatto sta che per la prima volta, in tanti anni, non sono io ad organizzare il viaggio ma lascio che Raffaella se la sbrighi da sola. Alcuni sviluppi positivi del mio lavoro occupano tutte le mie giornate e, in pratica, giustificano la mia latitanza. Tuttavia sono contento di assecondare la mia compagna e prometto solennemente a me stesso di non essere prevenuto. In pratica arrivo al giorno della partenza senza quasi accorgermene. Mai sono partito per un viaggio con così poca antecedente preparazione interiore. Nello zaino, però, infilo due grossi libri sui parchi americani e un vecchio testo – comprato più di venti anni fa – di John Muir, edito dalla casa editrice Vivalda, intitolato: “La mia prima estate sulla sierra”. Muir fu un avventuriero, scienziato e naturalista dei primi del ‘900, fondatore e primo presidente del “Sierra Club” di San Francisco che, a tutt’oggi, resta una delle voci più autorevoli in difesa e soccorso della wilderness americana. Erano anni che mi ripromettevo di leggerlo. Da quando ero giovane, ancora arrampicavo a buoni livelli e sognavo perciò di poter andare un giorno nella Yosemite Valley dove, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, in pratica era nato il grande alpinismo moderno.
Il 5 agosto 2011, alle ore 11 il nostro aereo decolla diretto a Chicago. Qui faremo sosta due giorni per poi prendere un volo che ci porterà a San Francisco. Passeremo due giorni anche in questa città, per poi ritirare l’auto noleggiata e partire: il giro di massima prevede appunto Yosemite, la Death Valley, Las Vegas, il circuito del Gran Canyon, Zion, Bryce, Monument Valley, Mesa Verde, Arches, Canyoland, forse le Rocky Mountain e, per finire, Denver.
Riassumendo le nostre impressioni di fine viaggio potrei dire così:
Chicago: città meravigliosa, fantastica, stupenda! Forse, da un punto di vista architettonico, quasi più bella della stessa New York, perché incentrata su linee liberty-moderne-futuristiche molto sofisticate e ricercate. Città giovane, piena di giovani, con un auditorium – nel Millennium Park – che sposa le forme architettoniche più azzardate e avveniristiche con il verde di un esteso prato naturale che ricorda tanto l’isola di Wight.
San Francisco: forse la città americana meno americana di tutte. Straordinaria, calda (non certo da un punto di vista climatico, anzi… tutt’altro) e accogliente. Mischia con disinvoltura rioni ricchi ed esclusivi con altri poveri e trasandati. Il cuore della città è rappresentato dalle ripide colline sui cui fianchi scoscesi si abbarbicano le stupende ville di legno che risalgono all’epoca vittoriana, e dalle cui antiche finestre la vista si getta sulle acque gelide della baia, sull’isola di Alcatraz e sul modernizzato quartiere del porto. Pochissimi e moderatamente bassi (per via della faglia sismica) i grattacieli nella parte nuova della città. Delizioso il quartiere gay con le sue villette colorate e le mille astrusità fantasiose che vi si concentrano. Immerso nella nebbia, come da copione, il celeberrimo ponte che unisce gli stipiti rocciosi dell’unica porta di comunicazione tra il Pacifico e la baia.
La vita qui sembra scorrere tranquilla, pur presentando le solite, immense discrepanze tra una umanità abbiente e l’altra derelitta. Il traffico scorre educato e ordinato. Molte le occasioni culturali e di più ampio interesse.
Una città – insomma – dove potrebbe essere bello anche vivere…
Yosemite Valley: perché non ho osato quando – come maturo alpinista – ne avevo ancora le capacità? Perché ho ritenuto che l’esperienza sarebbe stata per me improponibile? Anche soltanto accontentandomi di salite minori rispetto a quelle che hanno decretato la fama della valle, oggi posso dire che il viaggio sarebbe valso la pena. Yosemite: una valle incantata che serpeggia tra quattro giganti di granito (El Capitan, Half Dome, Cathedral Rock, Sentinel Dome) che si elevano con una verticalità impressionante (fino a 1200 metri) da foreste di abeti, pini odorosi e sequoie giganti. Il tutto ingentilito dallo scorrere placido di un fiume verde-azzzurro (il Mercedes) e allietato dalla voce squillante di vertiginose cascate. Praterie verde smeraldo. Laghi azzurri dalla superficie immota. Animali in libertà… Neanche le centinaia di migliaia di persone che affollano il luogo riescono del tutto a distruggerne la magia. Arrivo alla base di El Capitan, con le mani sfioro il suo mantello granitico, mi arrampico per i primi dieci metri della sua via più famosa – the Nose – ci lascio il cuore e poi ridiscendo. Ah… se solo avessi osato.
Solo adesso riesco a leggere e a comprendere la prosa elegiaca con la quale Muir ha descritto il suo primo impatto con la valle. Solo adesso intuisco il perché della sua esperienza estatica e del profondo sentimento religioso che lo legò alla valle per tutta la vita.
Death Valley: una delle depressioni desertiche più amate dagli americani… ma ben misera cosa se paragonata al Sahara o al Sahel africani. Percorrere la valle non ci entusiasma più di tanto. I suoi 48° non ne facilitano certo il gradimento. La strada asfaltata e il flusso continuo di auto ne distruggono il fascino residuo. Interessanti le numerose piante di Yucca. Inaspettate le palme.
Las Vegas: un giocattolo stupido e molto costoso per “bambini” deficienti. Non ci sono parole per descrivere lo sfarzo, lo sperpero inutile, la vacuità che qui ben rappresentano le miserie dell’anima dell’uomo. Non posso fare a meno di chiedermi se le deformità corporee che affliggono la maggior parte dei frequentatori dei casinò non siano le risultanti psicosomatiche di ben più gravi deformazioni del loro spirito.
Gran Canyon: uno scenario di una grandezza indescrivibile e di una maestà senza pari. Difficile goderne appieno: bisognerebbe sorvolarlo in elicottero, oppure discenderlo in canotto. È quello che parzialmente facciamo nel Glen Canyon, la spaccatura più bassa che, dal lago Powell, riversa le acque del Colorado River nel Gran Canyon vero e proprio. Navighiamo per tre ore tra verticali pareti di arenaria rossa e arancione. Sublime una delle sue anse: Horseshoe Bend.
Antelope Canyon: imperdibile… anche se visitata tra centinaia di migliaia di persone che si accalcano lungo le sue strettoie e non certamente nell’ora migliore per cogliere la verticalità dei raggi del sole.
Lago Powell: surreale e suggestivo come sanno esserlo solo i grandi bacini artificiali creati dall’uomo. Vagamente potrebbe ricordare il lago Nasser, in Egitto… solo i colori sono diversi: il giallo ocra delle sabbie per il lago Nasser, il rosso-arancio dell’arenaria per il lago Powell. Diversa anche la frequentazione: quasi assente per il primo; diffusa per il secondo, frequentato da House Boat, motoscafi, barche a vela, moto d’acqua, canoe e quant’altro. Trecentocinquanta e passa chilometri di baie, canyon, torri, spiagge di ciottoli, torri e improbabili pinnacoli. Bello! Nonostante la sua natura artefatta. Davvero bello e vagamente onirico… bello nonostante tutto.
Zion National Park: strepitoso parco di arenaria rossa del tutto diverso da quanto fin’ora visto. Il fiume che percorre la valle è l’anima del parco. Splendide tutte le passeggiate possibili, soprattutto nei narrows, dove è necessario camminare immersi nell’acqua fino alle caviglie, alle cosce o addirittura al petto.
Bryce National Park: che dire? Uno spettacolo forse unico al mondo. Migliaia di pinnacoli verticali, alti e sottili, affastellati gli uni sugli altri, la cui diversa composizione rocciosa, con la complicità della diversa incidenza della luce solare, fa sembrare ora chiari e diafani in alcuni loro punti; rosso fuoco in altri. Si potrebbero passare ore e ore in muta contemplazione di questo singolare paesaggio roccioso. È quello che, almeno in parte, riesco a fare…
Monument Valley: panorama vasto, di ampio respiro, caratterizzato dall’ergersi solitario di spettacolari forme di pietra. Mani aperte, dita svettanti, colonne alte, ardite e presuntuose… Mi siedo all’ombra di un enorme masso e, in silenzio, contemplo il paesaggio: dapprima mi sembra di veder passare John Wayne o i carri in fuga di “Ombre rosse”… poi la mente si libera della memoria e si lascia irretire dalla nuda e pura bellezza del luogo. Sublime…
Mesa Verde: bella! Bisogna riconoscerlo. Interessante la cultura espressa dagli indiani Arrapaho nel 1200 d.C.
Penso, tuttavia, che se i Dogon, in Africa, valorizzassero le dimore dei Tellem, costruite come quelle degli indiani Arrapaho sulle cenge della loro immensa falesia, anche soltanto la metà di quanto hanno fatto gli americani, il risultato sarebbe sicuramente superore a quello ottenuto da questi ultimi. Si parlerebbe in oltre di costruzioni del 600 o 700 d.C.
Arches National Park: non c’è che dire… ognuno di questi grandi parchi è diversissimo da tutti gli altri. Qui le masse di arenaria sono state prima separate a lame più o meno sottili e poi scavate a ricavare infine archi naturali più o meno arditi. Sembra come se, il giorno della creazione, bambini diversi si siano messi a giocare con la sabbia, e lì uno ha scavato canali con la paletta, là un altro ha fatto colare la sabbia bagnata creando una foresta di pinnacoli merlettati, qui invece un altro ancora si è dilettato a realizzare scaglie, archi, ponti e volte appena accennate.
Rocky Mountain: ci deludono un poco. Sembra di essere sul nostro Gran Paradiso ma il paesaggio, alle basse quote, è deturpato da migliaia e migliaia di abeti e pini morti. Scopriremo che la moria è causata da uno scarafaggio lillipuziano al quale il riscaldamento globale sta consentendo un ciclo riproduttivo incontrollato. Lo “zero termico” in questi ultimi anni si è spostato verso l’alto e così, nonostante i 3000 e passa metri toccati dalla foresta, miliardi di questi disgustosi esserini si infiltrano nella corteccia degli alberi sani, si nutrono della loro linfa e liberamente si riproducono. Colonizzando poi l’albero vicino. È un disastro ecologico gravissimo che, se non si troverà il modo di arginare, rischia di distruggere uno dei più importanti “polmoni” verdi del medio west americano.
Denver: piccola, quieta e deliziosa città universitaria il cui unico polo di attrazione è rappresentato da un lungo e largo viale realizzato cose fosse una replica in miniatura delle Ramblas di Barcellona. Ovviamente senza il fascino della storia e dell’arte espressa da quest’ultima.
E per finire due parole sul Popolo Americano: gentile, accogliente e molto disponibile – almeno per quello che è stato possibile sperimentare in un mese di viaggio. Con una fortissima coscienza civile; rispettoso delle norme sociali pur senza essere rigido, come ad esempio lo Svizzero.
Guidare l’auto, nelle strade americane, è sempre stato un piacere.
Il provincialismo, il bigottismo religioso e il nazionalismo sfrenato che – sappiamo – tanta parte rappresentano nella cultura americana, non sono direttamente percettibili. O, almeno, non in questo tipo di viaggio… Perciò ci si chiede come sia possibile che questo popolo accetti supinamente un sistema sanitario tra i più iniqui del mondo.
Un’altra stranezza: dopo il Tibet, l’America è il secondo paese al mondo dove è quasi impossibile mangiare in una maniera anche soltanto vagamente sana. Quale involuzione è responsabile di un tale decadimento alimentare?
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Allora: siete soddisfatti del vostro viaggio?
Ni!
Come: ni?
Vogliamo dire che… Siiii… bello, molto bello… Ma, come dire: insomma… Si, ma con riserva…
Ma come? Avete contemplato paesaggi naturali di una bellezza indescrivibile, avete ammirato creazioni originali e inimmaginabili da parte degli elementi che costituiscono questo nostro mondo… vi siete stupiti e commossi di fronte all’ingegno e alla estrosità inventiva che la mente umana ha espresso nelle grandi città che avete visitato. E allora, perché: ni? Perché: insomma?
Per giorni mi tormento con queste domande immaginarie. Da parte mia sono sicuro di non aver avuto alcuna chiusura preconcetta, di non aver cercato di “tenere un punto” che, oltre tutto, non avrebbe avuto alcun senso tenere. Le città mi sono piaciute moltissimo. Yosemite mi ha incantato. Ogni altro parco è stato una rivelazione. E allora, perché: ni?
Circuisco Raffaella e trovo il bandolo della matassa:
– Soddisfatta del viaggio, amore mio?
– Molto – mi risponde sorridente.
– Ti è piaciuto?
– Oh si… davvero tanto.
– Ci torneresti?
– Béh… no… sono soddisfatta così.
– Ma come? Siamo stati in Africa decine di volte…
– In posti sempre diversi – mi fa lei.
– Béh… allora una prossima volta potremmo andare a Yellowstone, o più su fino al Montana.
– No… va bene così. Sono soddisfatta.
– Ma in Mali ci torneresti, nevvero? O anche in Tanzania, o in Kenya, o in Botswana?
La mia compagna comincia a mangiare la foglia:
– Si, è vero… Ma…che c’entra?
Non voglio ingannarla ulteriormente:
– Oh nulla, così… chiedevo. Sto cercando di capire perché questi posti bellissimi che abbiamo appena visto non ci hanno toccato il cuore. Perché all’apprezzamento estetico non ha fatto seguito la commozione dell’anima.
– E lo hai compreso?
– In parte… credo.
La verità è che le bellezze naturali o quelle prodotte dall’ingegno umano sono sempre state solo una minima parte dell’attrattiva e del fascino di un viaggio. Almeno per noi. Se pensiamo all’Africa, infatti, il nostro cuore si strugge. Perché? Credo per molti motivi di cui in parte ho già parlato in “Maldafrica”. In primo luogo, di sicuro, c’è il fascino dell’autonomia e della libertà. Per me e la mia compagna, infatti, viaggiare in Africa ha sempre significato studiare per mesi e mesi un territorio, immaginare un percorso plausibile e tentare poi di realizzarlo, superando l’incognita dell’ignoto, dell’imprevedibile o del rischio moderato. Viaggiare in Africa ha sempre significato libertà fisica di movimento in un territorio naturale, senza eccessivi mezzi di supporto, valutando quanto più oggettivamente possibile le proprie capacità o quelle del proprio mezzo. Viaggiare in Africa ha sempre significato prendere le distanze dalle regole, dai limiti imposti dal vivere sociale, dagli obblighi, dalle norme, dalle consuetudini…
In secondo luogo c’è la relativa scarsità di affluenza turistica. Fuori dalle città principali o dai parchi le strade spesso sono deserte, poco frequentate… e questo contribuisce non poco a creare quel senso di responsabilità e di affidamento a se stessi che altrove è impossibile sperimentare. E anche nei luoghi di massima affluenza turistica è sempre stato facile, almeno fin’ora, discostarsi e curiosare lontano. Si… credo che la solitudine e la vastità degli spazi di riferimento siano elementi di fondamentale importanza. Vagare con una mappa aperta sul cruscotto, seguire una traccia che si dipana sul GPS, ascoltare ogni più piccola variazione nel ronzio del motore dell’auto dalla quale, in buona parte, può dipendere la propria vita. Non si tratta del piacere del rischio… oramai l’ho dichiarato e scritto non so più quante volte. Piuttosto si tratta di un affinamento dei sensi, di una riattivazione di facoltà sopite nella vita cittadina di tutti i giorni, di una riappropriazione della misura e del senso di ogni cosa.
In terzo luogo, spesso, anche se non sempre, in Africa c’è la presenza del vasto regno animale. Per carità… anche nei parchi americani abbiamo potuto realizzare degli incontri entusiasmanti: un orso a Yosemite, cervi e scoiattoli a Zion, bufali nelle praterie contigue a Bryce, e poi un’aquila lontana sulle Rocky Mountain e tanti falchi e sparvieri. Ma tutti questi magnifici animali sommati insieme non fanno l’ombra del leone che, in Tanzania, dormì sotto la nostra air camping. O dell’elefante innervosito che, in Namibia, non voleva farci passare nell’unico punto dove la pista solitaria superava un muro roccioso. Degli ippopotami che ci attraversarono la strada in Kenya, delle iene irridenti sulla pista del Serengeti, della giraffa impaurita che beveva nei rivoli dell’Okavango, delle zebre, degli gnu o degli impala dello Zimbabwe o dei coccodrilli giganti nello Zambesi. Scendere dall’auto, in Africa, per espletare un bisogno irrefrenabile… e percepire, netta, la propria nuda vulnerabilità di creatura mortale. Bucare una gomma, in un parco… e intuire la pericolosità implicita nella più semplice delle operazioni che in una nostra qualsiasi città potremmo compiere a occhi bendati.
E poi, forse, il fascino di ripercorrere il “luogo” delle nostre comuni origini, percepire più intenso il legame che ci unisce a questo nostro pianeta ed entrare a far parte di una comunione che, nella vita ordinaria, il pensiero magari sa formulare ma il cuore non è in grado di sentire.
Si! Tutto questo è presente in Africa e, forse, anche di più. Ma tutto questo sarebbe ben poca cosa se non fosse amplificato, arricchito e vivificato dalle diversità culturali espresse dai popoli che la abitano. Tuareg, Dogon, Bantu, Mursi, Hammer, Samburu, Turkana, Masai, Zulu, Sami e Himba sono solo una piccolissima parte di tutti coloro che da sempre la abitano. Una parte piccolissima di tutti quegli uomini e quelle donne che, con i propri sogni, le proprie speranze e le proprie specialissime visioni hanno creato quel puzzle irrisolvibile di costumi e rituali che, con una superficialità ingiustificabile, alcuni chiamano “culture primitive”. La verità è che sono appunto tali diverse interpretazioni della Realtà e della Vita a dare senso e significato ad ogni viaggio realizzato in territorio africano. Sono proprio tali “Culture Altre” a completare la dimensione dell’anima.
Perché, alla fin fine, la verità è che a lungo andare la cultura di appartenenza limita: obnubila la coscienza, appiattisce il pensiero, spegne il sentimento e annichilisce la volontà. E come se non bastasse, annoia! Sia detto al di là di qualunque critica alla cultura occidentale moderna; fuori da qualsiasi giudizio su di essa; al di là del bene e del male che ha finito per esprimere in questi ultimissimi anni. Se è vero che viaggiare dovrebbe poter arricchire la nostra coscienza allenandoci a cogliere inusitati punti di vista e abituandoci a convivere nella relatività irrisolvibile della Realtà, allora potrebbe risultare irrinunciabile – oltre che gratificante – scegliere mete di viaggio nelle quali penetrare come timidi intrusi, desiderosi di apprendere diverse e sconosciute arti del vivere.
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Ecco: in definitiva questi sono i motivi per cui un viaggio bellissimo, realizzato visitando alcuni dei luoghi più belli del mondo, pur avendoci autenticamente interessato e molto colpito, non ha lasciato tracce significative e indelebili nel nostro animo. In fondo ci siamo spostati solo nello “spazio”, ma non nel “tempo” che è, invece, il “luogo” dove le culture affondano le proprie origini. La verità è che, pur visitando alcuni dei più bei parchi del West americano, siamo rimasti pur sempre all’interno della nostra stessa cultura occidentale. I nostri occhi si sono riempiti di meraviglia, ma non abbiamo imparato nulla di nuovo, nulla di diverso, nulla di originale. Non abbiamo dovuto mettere in discussione noi stessi, non abbiamo dovuto cambiare noi stessi, non abbiamo migliorato noi stessi. In definitiva c’è mancato l’incontro con l’Altro, il Diverso da Noi… l’Altro con la propria originalità, la propria visione inaspettata del mondo e della vita.
La riprova – ammesso che ce ne sia bisogno – sta nel fatto che viaggiando all’interno di queste città e di questi meravigliosi parchi, abbiamo incontrato migliaia e migliaia di concittadini italiani. Fatto che, all’inizio, ci ha stupito non poco… non avendone mai incontrati, in Africa, più di due o tre in ogni viaggio. L’italiano medio, si sa, è pavido, viziato, pretenzioso, “comodone” e un po’ “cagone”. In Africa non va. Ha paura. Non lo ammetterebbe mai ma ha paura: dei neri, dei disagi, della sporcizia, della malaria, del cattivo cibo, degli animali… in pratica di ogni cosa. L’America, invece, è pane per i suoi denti: l’avventura liofilizzata, la Natura Selvaggia addomesticata, usi e costumi non diversi dai propri… quanto di meglio per realizzare i propri più sfrenati desideri senza muoversi da casa propria. Senza mai uscire da se stesso.
Perciò, potrei concludere queste mie riflessioni riprendendo le parole che Max Troiani ha usato nella prefazione del mio libro “Maldafrica” e aggiungere che, se è vero che la “Bellezza” in Africa non è mai “estetica”, in America invece è come se fosse “solo” estetica. O ancora, con altre parole, potrei paragonare la natura americana a una donna bellissima e desiderabile, sempre pronta però concedere le proprie grazie e i propri favori a chiunque glieli richieda. La natura africana, allora, potrebbe essere immaginata come una donna molto meno bella… ma di sicuro più misteriosa, ricca di fascino e di seduzione. Una donna che non si concede a chiunque e – comunque – mai facilmente. Per “conoscerla” occorre impiegare tutte le proprie energie, tutte le proprie risorse e, ciò nonostante, solo sperare di essere accolti. Con la consapevolezza, però, che se e quando questa donna “aprirà e concederà” il suo ventre umido e oscuro, allora il piacere che sarà in grado di offrirci risulterà unico e ineguagliabile.
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Ancora Africa, allora! Si, certo… ma per quanto?
Se questo processo di modernizzazione scriteriato, acritico e incontrovertibile che tutti noi occidentali ci sforziamo di promuovere e che tutti gli africani si industriano di realizzare arriverà a compimento, dell’Africa di cui stiamo parlando ben presto non rimarrà che un pallido ricordo. Già quella di oggi non è più quella che era soltanto cento o ancora cinquanta anni fa. Eppure ancora molto si potrebbe salvare…
Perché non viene fatto?
La verità, la nuda e cruda verità, è che manca un “Pensiero Nuovo”, un “Pensiero Forte” capace di opporsi all’insulso “pensare superficiale” a cui il mondo moderno ci ha abituato. Ci hanno insegnato a credere che il progresso non solo sia irrinunciabile ma che debba inevitabilmente passare per tutte quelle “forme” nelle quali l’occidente è passato; e che tappe inderogabili di questo cammino siano il vantaggio personale del singolo individuo, la crescita continua della produttività e lo sfruttamento immediato di qualunque risorsa, umana o territoriale. Il pensiero superficiale annichilisce terrorizzato alla sola idea che tutto questo potrebbe essere messo in discussione e rifiutato; e, se anche riesce a prendere atto degli effetti devastanti che il progresso di stampo occidentale ha fin’ora realizzato, gli hanno insegnato a considerarli “danni collaterali” ineliminabili e insopprimibili. E questo anche perché, per il pensiero superficiale, l’unica alternativa al processo di globalizzazione resterebbe quella dell’ostinato arresto su condizioni di primitività o di barbarie. Anche soltanto “immaginare” un progresso diverso da quello che l’occidente ha sempre proposto sembrerebbe essere uno sforzo di creatività eccessivo per il piccolo e asfittico pensiero borghese.
Ci vuole coraggio e molta, molta spregiudicatezza intellettuale per chiedersi – come ha fatto Tiziano Terzani – se distruggere la cultura degli Shan tagliatori di teste, in Birmania, favorendo la loro permanenza stabile di fronte ad un televisore a colori sia davvero un segno di progresso. Ci vuole leggerezza di pensiero, creatività e anticonformismo per chiedersi se la nuova diga sull’Omo River, che in Etiopia distruggerà la cultura dei Mursi, degli Hammer o dei Banni, per loro sarà davvero un passo in avanti verso il futuro o non, altrimenti, una dissoluzione nell’uniformità senza volto del cittadino globale.
Ah… dimenticavo: è ovvio che per tutte le classi politiche, gli industriali e gli speculatori che di queste innovazioni si fanno promotori – perché ne ricaveranno guadagni incalcolabili – il problema della spregiudicatezza di pensiero non si pone. Loro sanno benissimo quello che fanno e, in un certo senso, sono giustificabili. I banditi sono quello che sono: banditi, appunto. Fanno il loro lavoro. La loro azione non mi sconcerta più di tanto. No! Sono tutti gli altri che mi spaventano. È la coscienza collettiva, soprattutto quella degli intellettuali occidentali, che sembra come addormentata, appiattita, incapace di “immaginare” qualcosa di altro o di diverso da ciò che le varie classi politiche, appunto, propinano loro. Sembra come irretita in tematiche vecchie e “scamuffe” quali la destra o la sinistra, la ripresa economica o il problema demografico… sembra incapace di “osare” verso soluzioni davvero innovative.
Quando “Maldafrica” fu pubblicato ne regalai alcune copie ad amici e colleghi. Nessuno di loro è mai stato in Africa. L’idea che ne hanno è astratta, più o meno romantica ma, comunque, filtrata. Ciò nonostante le critiche rivolte alla mia dichiarata nostalgia verso forme di vita psicologicamente più sane della nostra non furono poche. Una cara collega, addirittura, mi chiese se non fossi impazzito nell’elogiare la pratica delle donne africane (e di ¾ delle altre donne nel mondo) di portare i bambini sulle spalle per i primi tre anni di vita; e se, con la scusa dei suoi innegabili vantaggi, non mi aspettassi per caso che la donna moderna occidentale facesse altrettanto.
Non era quello che intendevo in quel capitolo. Nel modo più assoluto. Ma se si potesse “ri-pensare” tale usanza e, con le dovute modifiche, se ne potesse trovare una qualche modificata forma di moderna applicazione di certo non me ne sconcerterei. Così come non mi sconcerterei se l’uomo occidentale tanto evoluto riscoprisse il più profondo e autentico significato della maschilità e – sempre con le dovute modifiche dovute alla diversità dei tempi – tentasse di realizzarle.
Ma quello che manca, lo ripeto, è un “Pensiero Nuovo”, un pensiero realmente “Moderno”, capace di rinunciare a tutto ciò che oggi sembra essere scontato e irrinunciabile e “Rifondare” il futuro sulla base di tutto ciò che di valido e di sano il passato ha espresso.
Il cemento – in Egitto come in Libia – non è un materiale adatto per le nuove costruzioni, a meno di non doverlo poi supportare con condizionatori d’aria di considerevole costo ed elevato consumo. I tetti tradizionali delle case, realizzati in canna palustre, modernamente rielaborati sono ancora la migliore soluzione possibile per il clima del Ghana, del Togo, del Benin, dell’Angola o della Namibia… ma solo in rari centri (Walvis Bay, ad esempio) sono stati usati in sostituzione delle tegole o degli ondulati di lamiera. Gli abiti originali del Kenya, della Tanzania, del Marocco, del Senegal, della Mauritania e così via, sia maschili che femminili, sono più consoni del doppio petto o dei tailleur europei al clima tropicale. La coltivazione dei prodotti tipici della terra è l’unica che, se incentivata, potrebbe risolvere i problemi della fame e della povertà, mentre le coltivazioni intensive di canna da zucchero o di girasoli – realizzata per soddisfare le aspettative dei business economici occidentali – non solo affama il popolo ma distrugge l’humus della terra. La caccia grossa a pagamento è criminale (oltre che patognomonica dei disturbi psichici di chi la pratica). La cessione a multinazionali straniere dei diritti di sfruttamento delle risorse minerarie o petrolifere, arricchisce pochi eletti e ghettizza la maggior parte delle genti aventi un atavico diritto. I poteri dei capi clan o delle varie tribù, alla cui base ci sono le “famiglie allargate” africane, non potrebbero e non dovrebbero essere delegittimati, derisi o ignorati da capi politici “democratici” la cui elezione è stata promossa e voluta dagli interessi delle grandi nazioni interessate. E il progetto economico futuro non necessariamente dovrebbe basarsi sulla “crescita” esponenziale del PIL o sull’aumento indiscriminato del consumo di oggetti inutili. E – di sicuro questa sarebbe la minor cosa – una piccola percentuale di ingresso ai grandi parchi dovrebbe sempre essere lasciata a disposizione della libera ed improvvisa iniziativa dei viaggiatori occasionali. Con i loro racconti potrebbero contribuire ad alimentare il fascino antico dell’Africa.
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Siamo così tornati al punto da cui sono partito. Per il prossimo natale mi sono adeguato: ho prenotato con un anno di anticipo i campsite del Kruger e di tutti gli altri National Park del Sud Africa e del Leshoto.
Ma quanto rammarico, quanta nostalgia per tutti i viaggi fatti nel passato nei quali non sapevamo mai in anticipo dove avremmo passato quella notte o per quanti giorni ci saremmo fermati.