By Barbara Werner
Originally Posted Tuesday, January 29, 2008
Alla conquista della terra dei Nandu’
Essendo il nostro viaggio di nozze, volevamo organizzare qualche cosa di speciale; soprattutto, visto che di solito i nostri viaggi in moto vanno dai sei ai settemila chilometri di percorrenza, e questo sarebbe dovuto durarne almeno diecimila, bisognava scegliere quindi una meta degna.
Il lago Bajkal, nel bel mezzo della Russia, fa al caso nostro, ma solo dopo dieci giorni dall’idea il nostro gruppo si era già ammutinato, dicendo che l’organizzazione è troppo complicata e costosa.
Così abbiamo pensato che la miglior cosa da fare, come al solito, è partire da soli: TEAM GIALLO ALLA RISCOSSA!!!
Pomeriggi in contemplazione del mappamondo… non è facile trovare un altro posto abbastanza grande, ma finalmente l’illuminazione: il Sud America. Si, si, ci sembra abbastanza fuori mano da considerarlo esotico.
Una volta fatta la cassa e spedita con i pochi bagagli e le moto, non ci resta che attendere la partenza e studiare il percorso.
Si, perché i viaggi realmente iniziano a tavolino, anzi davanti al pc consultando google-earth, il sito internet dove sono pubblicate le foto satellitari di tutto il mondo. Puoi decidere a tavolino quali strade sia meglio percorrere prima ancora di essere partito. E’ un lavoro lungo e di grande pazienza, ma ricompensa con l’assoluta certezza di poter girare per chilometri e chilometri su piste deserte senza aver il timore di perdersi, (ne riparliamo dopo..!). Così PP ha marcato i punti gps tracciando un giro ad anello sulle piste più belle del Cile, Perù e Bolivia, continuando a chiedersi se mai le moto ed i centauri ce l’avrebbero fatta a quelle quote.
17 luglio: finalmente si parte. Volo di scalo a Parigi e poi quattordici lunghissime ore per arrivare a Santiago, dove ci aspetta a darci il “benvenuto” un freddo tremendo.
Raggiungiamo in autobus la ridente cittadina portuale di Sant’Anton dove recuperiamo le moto, soprannominate “Gli Agrumi” a causa del colore giallo: limone la mia e pompelmo quella di PP, perché il ciccione ha maggiorato il motore montando un 440c.c per evitare (inutilmente!) che io continuassi a superarlo!!
Come percorriamo i primi chilometri mi rendo conto di quanto saranno preziose le nostre tute da sci, i guantoni e sottocaschi in windstopper. Ad una distanza di trenta chilometri in linea d’aria dall’oceano c’è una neblina, come la chiamano loro, che offusca l’unica fonte di calore quale il sole, e ti inumidisce fino al midollo; così il nostro piano di dormire lungo la costa viene bocciato quasi subito. Durante un trasferimento abbiamo modo di incontrare alcuni animali tipici: foche e pellicani.
Risaliamo la panamericana, con notevoli difficoltà di autonomia. Un paio di volte siamo arrivati con i serbatoi vuoti, ma d’altronde è comprensibile, visto che nel nord del Cile le distanze fra un paese ed un altro sulla Panamericana sono mediamente di 350km di puro deserto e nel deserto non ci sono gli “autogrill”!! I nomi delle località riportate sulla cartina si traducono nella maggior parte dei casi in una posada dove si può mangiare e bere the bollente, ma niente benzina e nanne.
Sulle Ande in fuoristrada i 600/700 Km sono il minimo per muoversi con un minimo di tranquillità.
Ecco una pausa pipì sulla Panamericana.
Continuiamo quindi, lasciandola solo per qualche occasionale pista lungo l’oceano, fino a Taltal, coloratissimo paesotto di pescatori. Qui prendiamo la pista che arriva quasi ad Antofagasta, praticamente un’autostrada, siamo fortunati perché non c’è nebbia ed i colori sono fantastici.
In luglio ed agosto in Sud America è inverno con la I maiuscola, ed una delle “fregature” è che le giornate sono molto corte, la mattina non si parte prima delle 9.00, per aspettare che la temperatura diventi un po’ mite e la sera alle 18.00 sembra che spengano all’improvviso la luce e soprattutto il termosifone!!
Mi ricordo che guardavo sul gps i chilometri mancanti all’arrivo quotidiano e con sconcerto facevo il conto dei minuti di luce rimasti, sempre troppo pochi. Anche ad Antofagasta arriviamo con il buio, ma finalmente ci concediamo un albergo con il riscaldamento e la doccia calda, a beneficio del tremendo raffreddore che mi sono presa. E’ quasi da non crederci, ma il nostro viaggio sarà caratterizzato dalla mancanza di benzina, cibo ed alloggi con acqua calda, almeno per tutto il Cile.
Lasciamo l’oceano ed oltrepassiamo il tropico del capricorno.
Continuiamo a salire in direzione di Calama, ma, ahimè, per visitare la più grande miniera al mondo a cielo aperto bisogna prenotare una settimana prima, così il giorno successivo ci spostiamo nell’affollatissima San Pedro de Atacama. E’ una cittadina prettamente turistica, con solo costruzioni basse di terra rossa. Le stradine sono un susseguirsi di localini, negozi di souvenir, agenzie di viaggio ed internet caffè. Chiamiamo a casa, mia mamma ha spiegato bene al mio nipotino Cristian dove ci troviamo, ovvero dall’altra parte del mondo, dove non è estate ma inverno, dove non è giorno ma notte; me lo passa e lui molto scettico mi chiede se davvero sto bene laggiù: come si fa a star bene camminando sotto sopra?
Visitiamo “la valle della luna” dove incontriamo un gruppo di BMV cilene. Ma i turisti non arrivano dove andiamo noi: infatti tentiamo la conquista del primo vulcano, il Licancabur, ma a 4.800m di altitudine ci arrendiamo.
La prima volta in quota fa un po’ impressione, sembra quasi di vedere i filmati sulla luna; ogni movimento sembra al rallentatore, invece il cuore batte velocissimo e come scendi dalla moto e fai dieci metri per scattare due foto hai un fiatone che non ti consente neanche di parlare. Come collaudo è andata molto bene, decidiamo quindi il giorno successivo di partire per la lunga pista che passa per Ollague ed arriva a Collauasi: saltando buoni 300 km di asfalto.
La pista inizialmente è larghissima, con discreto traffico che va al conosciuto Geyser del Tatio, ma come lo oltrepassiamo diventa immediatamente più stretta, sassosa ed ingombra di neve. I paesaggi sono spettacolari, li ammiriamo in completa solitudine, tolta qualche vigogna che ci guarda curiosa.
I chilometri scorrono veloci sul gps, ed il punto del non ritorno, per la ridotta autonomia di benzina, sta per arrivare. Ora è chiaro che la pista è franata ed è da tempo in abbandono, ma noi abbiamo solo quella traccia, scaricata da “san google-earth”, non possiamo far altro che andare avanti.
I guai non finiscono qui, la foto scaricata da internet deve essere irrimediabilmente vecchia, perché la pista attraversa una miniera, ma non possiamo proseguire in quanto è chiusa, interamente recintata ed in più i campi bordo pista sono minati. Un cartello ci ricorda ironicamente che la pista è en mal estado, ed i minuti passano velocemente. Inizio a domandarmi come può essere trascorrere una notte all’aperto sulle Ande cilene.
Ci hanno garantito che ad Ollague, frontiera con la Bolivia, troveremo cibo, nanne e benzina, motivo in più per non mollare. Il sole è basso, terribilmente basso. Decidiamo quindi di seguire una pista sconosciuta tentando di aggirare la montagna e riprendere la pista principale. Per interfono di solito facciamo lunghe chiacchierate, invece ora vige un silenzio di tomba.
Poco dopo incrociamo un torrente, fortunatamente asciutto, che si dirige verso la nostra traccia; in un lampo ci buttiamo dentro, disposti a tutto pur di ritornare sulla traccia conosciuta: gli anni di fuori pista africano ci tornano utili, manteniamo la calma!
Scorgiamo finalmente le sagome del paese: “olè ce l’abbiamo fatta!!!”, ed il sole sta tramontando.
E’ vero, le nanne e le pappe ci sono, ma in questo posto, che sembra uscito da un film si Sergio Leone con Morricone che fa da sottofondo ed il cespuglio che rotola portato via dal vento, di benzina neanche una goccia.
I carabineros ci garantiscono che a Collauasi, 70km da qui, ne troveremo, allora nanne. Nanne? Facile a dirsi. Avete presente cosa succede a dormire a 3.900m di altitudine, con 5.7 gradi in camera e senza corrente elettrica? L’inferno!!
Il giorno successivo, aspettiamo che il sole porti la temperatura almeno ai 6° e partiamo alla ricerca della benzina. 70km si possono fare, ma senza commettere alcun errore, i serbatoi sono quasi vuoti.
E quasi come da copione la nostra pista è quella meno battuta, sempre meno, fino a diventare quasi una mulattiera. In un tratto è completamente franata e siamo costretti a guidare sopra le rotaie del treno! No Alpitur? Ahi ahi ahi..
Quando la pista finisce le moto hanno entrambe quasi finito la riserva. Inizio ad essere nervosa e davanti a noi non c’è Collauasi, come speravamo, ma una miniera grande come una montagna. Un recinto fatto di terra lungo chilometri, ed all’interno si vedono in lontananza camion, ruspe e jeep al lavoro ma non l’entrata. Decidiamo quindi di scavalcare rischiando che ci sparino. Ricordo ancora la faccia del guardiano che ci ha visto sbucare dal nulla sporchi di polvere fino alle orecchie. Della serie “e voi chi siete?” Fortunatamente l’accoglienza è stata molto calorosa da parte del Jefe, così chiamano il loro capo. Omaggiati dei pieni di benzina e fatte due chiacchiere con chi di turisti non ne incontra spesso, veniamo scortati in convoglio, con tanto di macchina dei carabineiros e lampeggiante acceso, fino all’uscita che distava ben 24km per registrare la nostra entrata. Increduli i poliziotti telefonano ai carabineiros di Ollague per esser certi che non fossimo dei clandestini Boliviani, pare che fossero anni che nessuno percorresse quella pista!!
E’ stata una fortuna lamentarci del freddo cronico con i poliziotti, perché ci consigliano di andare nell‘oasi di Pica. Un’oasi?? E’ nostra!!
Si scende da 4.600m fino a 1.300 di altitudine in circa 40km di zig zag sterrato. Da 8 gradi centigradi si passa di botto ai 24! Olè! Olè! Via le tute da sci e su le braghette e le infradito. Restiamo qui, in questa oasi dove crescono mango, papaia e guaiaba, per tre giorni abbuffandoci di frullati, esotici gelati e torte fatte in casa a tre strati. Qui c’è la bellissima valle dei dinosauri che mi ricorda molto l’Algeria, ci divertiamo a fare lunghe esplorazioni, bisognerebbe restare qui almeno dieci giorni.
Siamo in piena zona di miniere, la foto che segue rappresenta un assale di ricambio per un gigantesco camion da cava.
Ci concediamo anche una visita alla città fantasma di Humberstone e poi ci facciamo coraggio per tornare al freddo.
Si parte verso Arica, che si trova ai confini con il Perù.
Quando iniziamo ad avvicinarci alla costa corriamo lungo un altopiano di sabbia a 1.000m di altitudine. La panamericana inizia a scendere nella foschia regalandoci uno spettacolo incredibile: le dune più alte che abbiamo mai visto, e soprattutto ripidissime. PP muore dalla voglia e fa un paio di tentativi, ma siamo solo ad inizio vacanza e non vuole “spremere il pompelmo”…, bella questa!
Eccoci in frontiera. La differenza con il Cile la si respira già; file di fumanti Chevrolet anni 50 sono in coda in senso opposto alle lussuose e moderne Toyota cilene; donne in bellissimi gonnelloni colorati e cappello chiacchierano allegramente mentre aspettano il loro turno davanti al gabbiotto della dogana dal quale arriva la tipica musica andina. Noi, anche se il nostros catalanos es perfetos, non capiamo un tubo, ma veniamo accuditi come bimbi ed in pochissimo sbrighiamo tutte le pratiche. Sembra davvero un altro mondo e sembra anche meno freddo!!
Arequipa è il nostro primo impatto con le affollate città peruviane: Napoli in confronto è una città tranquilla.
Per raggiungere l’albergo assoldiamo un mini-taxi, qui talmente diffusi che per le strade fanno da padroni. Corre come un pazzo nel traffico che quasi ci semina! Impossibile!!
Lasciamo il caos, pizzaperù, quotato fast food dove servono enormi pizze, piatti fumanti di spaghetti e cannelloni, e partiamo per la pista che conduce al canyon de Colca. Non siamo soli, ci sono le vigogne a farci compagnia e qualche condor che ci gira sopra durante le nostre pause pranzo a bordo pista a base di panini e patatine.
Qui tocchiamo il record in assoluta: 5.018m di altitudine e non c’è neanche la neve; si vede che ci stiamo avvicinando all’Equatore.
Quindi i tanto decantati 4730 mslm del famoso Kunjerab Pass sulla Karakorum Highway Himalaiana ci fanno un baffo!
A Chivay, l’ingresso al canyon, ci accolgono delle sorridenti bimbe con cappello. Qui imparo che a seconda della valle il cappello, rigorosamente indossato dalle donne, cambia di colore e stoffa, quasi come fosse un “certificato di residenza” locale!!
Colca è il secondo canyon più profondo al mondo, battuto per un soffio dal suo vicino canyon del Cotahuasi. Offre dei panorami mozzafiato, dove l’uomo dimostra il suo spirito di adattamento coltivando grano, patate ed altro in terrazze scoscese a 3.000m, è veramente un peccato che sia poco pubblicizzato.
Lungo la pista ci sono dei mirador dove si possono scattare le foto più belle. Uno dei più conosciuti è quello del condor, anche se dei volatili non ne abbiamo visto neanche l’ombra!
Proseguiamo la pista fino a Cabanaconde. Dopo il giro infruttuoso della piazza scopriamo che non ci sono alberghi ma un ostello apparentemente chiuso. Cribbio! Ma non bisogna mai arrendersi e soprattutto bisogna fidarsi della lonely planet, infatti con il nostro fantastico spagnolo, a furia di chiedere troviamo il magnifico hotel Kuntur Wassi gestito da un simpatico geologo, che ci racconta con enfasi la storia di tutti i vulcani circostanti e dalla moglie, la vera comandante del forte, soprannominata Pepita.
Continuiamo la pista ed ancora si possono scorgere villaggi
costruiti su pareti quasi verticali. Roba da non crederci.
La pista, più si avvicina la fine del canyon, meno diventa spettacolare, fino a diventare decisamente brutta; la vegetazione sparisce, neanche i cactus vogliono saperne di vivere qui; i tornanti sono così numerosi che i chilometri corrono ma in linea d’aria siamo quasi fermi; speravo in un bel lomo alla plancia e patate fritte invece mi accontento del nostro solito pranzo frugale.
Arriviamo a Camana dove ci concediamo il brivido di un giro in moto-taxi e l’indomani proseguiamo la panamericana verso Nazca; come al solito lungo la costa c’è un bel freddino ma ogni tanto il sole ci mostra un Pacifico magnificamente turchese. Alla nostra destra pareti di sabbia alte e ripide si susseguono, il vento aumenta e meraviglia delle meraviglie ci troviamo nel bel mezzo di una tempesta di sabbia in riva al Pacifico, solo che questa volta è più facile che in Africa, basta seguire la striscia d’asfalto. Ecco la fine della tempesta.
Arriviamo a Nazca quasi al tramonto, blocchiamo una camera in uno degli alberghi davanti l’aeroporto e scopriamo che l’ultimo volo sta per partire. Non perdiamo l’occasione ed entusiasti noleggiamo un quattro posti. PP, noto uomo dallo stomaco di ferro, istiga il pilota ad un volo acrobatico il quale lo accontenta subito ribaltando il velivolo da destra a sinistra in modo da permetterci una completa visione delle “linee”.
E’ molto divertente, sembrava di essere in giostra, PP si diverte forse un po’ meno, visto il colorito verdognolo del suo volto, ma molto fiero scendendo dichiara: “e vai sono salvo e non ho vomitato!”
Se si è appassionati di dune non si può mancare la visita al Cerro Blanco, apparentemente la duna più alta del mondo, la guida sostiene ben 2078m. Detto fatto PP si lancia alla conquista dopo aver alleggerito il pompelmo dei bagagli. Io lo filmo in questa ripidissima scalata; ad un certo punto è così piccolo che sul display non lo vedo più. Riesce ad arrivare quasi in cima scalando ben 450 metri di sabbia: il mio eroe!
Proseguiamo verso nord. Prossima meta isole Ballestas vicino a Pisco per vedere pinguini ed una infinita quantità di pennuti infaticabili produttori di guano, ma ahimè il brutto tempo ci perseguita così ripieghiamo su un lussuoso pernottamento e cena con spettacolino afro-peruviano all’acienda de San José. Se penso che dopo due giorni l’intera zona è stata colpita da un devastante terremoto causando 600 vittime….
Questa volta la nostra meta è Ayacucho, la città delle tremende guerriglie del “sendero luminoso”. La raggiungiamo percorrendo una bella pista che ci incanta con orti a terrazza, laghi in quota, montagne color ruggine e paesini persi nel nulla dove PP distribuisce cioccolata ai bimbi.
Il giorno successivo partiamo per un’altra avventura, non proprio come Ollague ma quasi, ovvero la Ayacucho-Cuzco. Qui forse la nostra inesperienza in quanto ad Ande ci ha resi così ingenui da fidarci della cartina. Errore fatale: la pista che avremmo dovuto percorrere in un giorno perché prevedeva circa 350km si è tradotta in uno zig-zag e sali-scendi infinito da oltre 700! I panorami meritano la fatica, ma in tanta Africa ed annessi non ho mai trovato una pista così dura; sarà forse per gli strapiombi, le vertigini, il fech-fech, le curve a gomito o le “ruare” dei pulmini?
Con nello zaino acqua, cioccolata e patatine, il solito pranzo take away acquistabile, ci mettiamo in marcia. Dal gps posso controllare l’altitudine durante il percorso, e non che non si capisse già, ma constato che mediamente viaggiamo intorno ai 3.900 metri, con picchi dai 4.600 quasi in cima alle montagne, ai 1.200 in fondo valle, ottenendo repentini mutamenti della vegetazione e forti sbalzi termici. In una di queste valli attraversiamo il primo fiume la cui direzione non è l’oceano ma l’Amazzonia. Che emozione!!
Percorrendo il ponte ho paura perché sento le assi di legno muoversi sotto le ruote; per fortuna procedo proprio in centro perché PP si accorge che di lato è rotto!!
Siamo stanchi e decidiamo di fermarci a dormire, ma non ci sono molte alternative, troviamo posto ad Anduhuaylas. A cena in una polleria, dove siamo rigorosamente gli unici turisti, famigliole con giovanissime mamme in cappello e bimbe scalze gustano piatti stracolmi di carne seppellita da patatine ed insalata, il tutto irrorato da salsa alla “palta” ovvero avocado; ma non tutti bevono l’Incacola, (la bibita nazionale giallo cedrata), per alcuni l’equivalente dei nostri venti centesimi è un prezzo troppo caro da pagare anche per i propri bimbi.
Torniamo nel nostro sicuro albergo pensierosi riflettendo sul perché delle cose.
Di nuovo in sella, ho ancora tutti i muscoli dolenti da ieri ed oggi sulla carta sono segnati fino a Cuzco tre passi: il passo Huayllaccasa a 4.100 metri, uno senza nome a 4.000 e quello di Huillque a 4.100, ma non mi fido più e temo che ce ne aspettino almeno sei! Continuano quindi gli zig-zag, su e giù, freddo-caldo.
Questa stretta pista è quindi l’arteria che dovrebbe permettere ai comuni mortali di spostarsi fra le due importanti città di Ayacucho e Cuzco. I trasporti sono affidati ai taxi o agli affollatissimi mini-bus, e sia gli uni che gli altri, sfrecciano velocissimi nell’unica carreggiata come se fosse a senso unico;
per me che in moto ho la fobia dei burroni è molto difficile procedere con tranquillità.
Attraversiamo lindi ed ordinati paesini con le case fatte di mattoni di terra, gli anziani seduti sulla soglia, flotte di bimbi in immacolate divise da college che rientrano da scuola, caprette e maialini neri dal pelo lungo che mangiano bordo strada e finalmente la pista si allarga, tra non molto troveremo anche l’asfalto e PP lo sa bene.
Infatti è così, l’asfalto arriva, e per un endurista appassionata come me, è triste ammettere che lo aspettavo con ansia, ma ciò per noi vuol dire aumentare l’andatura ed arrivare a Cuzco con la luce, in tempo per cercare un albergo. Quando dall’alto finalmente la vedo il sole la illumina ancora e noi siamo sporchi, congelati e distrutti, ma siamo finalmente arrivati: vittoria!
Ci fermiamo nel primo albergo munito di estacionamento per le moto che ci sembra degno di una rara sosta di due notti.
E’ record! Il portiere dell’albergo sostiene che nessuno ha mai percorso la Ayacucho Cuzco in soli due giorni!
Scopriamo che l’albergo è a due passi dalla plaza des armas; strategico per i giretti turistici che ho pianificato. Ma prima di pensare ai musei bisogna festeggiare; decide PP e dove si va? A cena al ristorante messicano!!!
Facciamo colazione ignorando l’infuso di foglie di coca e partiamo agghindati da comuni turisti: lonley planet e macchinetta fotografica.
Con PP ho da tempo raggiunto un accordo nel visitare le città: io entro a guardare e lui resta fuori a mangiare gelato o a fumare; così passiamo la mattinata. A pranzo questa volta scelgo io; anche se non si dovrebbe ho voglia di spaghetti, ma il “piatto forte” del locale non si mangia, è esposto sul bancone vicino la cassa, da non crederci, una mummia…
Oltre a fare i turisti ci sono delle incombenze da sbrigare qui a Cuzco, così prima di andare a cena ci dividiamo equamente i compiti: io scrivo le cartoline e lui fa manutenzione alle moto, visto che inizia ufficialmente il ritorno è bene che siano in ordine; abbiamo già percorso 7.500 km. La sera facciamo i romantici ed andiamo a cena in un ristorantino che affaccia sulla magnifica piazza.
Il piatto tipico di Cuzco è il cui, ovvero il porcellino d’india, è inutile fare quella faccia schifata, io curiosa come sono l’ho ordinato e vi assicuro che è buonissimo. Come ho già detto il locale è romantico, lume di candela, musica soft, coppiette di turisti d’ogni dove che parlano allegramente ed arriva il mio cui: silenzio di tomba e tutti che guardano con sgomento la pietanza dai dentini sporgenti . PP si esibisce in una delle sue migliori performance, scatenando ilarità generale. Dice che non mi darà baci per i prossimi anni perché ho mangiato un topo, poi mi costringe a mettermi in posa diabolica:
La sosta è finita. A fatica rinunciamo all’escursione nella riserva di Manu in foresta amazzonica, le moto hanno percorso già molti chilometri e non ce la sentiamo di rischiare, anche perché tornare a Santiago è lunga! Ripartiamo con destinazione Puno. Per arrivarci si percorre una bella strada asfaltata, ma meno pittoresca delle ultime visitate, dove la presenza Inca si nota anche dalla propaganda elettorale.
Arriviamo a Puno. Il lago Titicaca attrae i turisti quasi quanto Cuzco; tento in tutti i modi ma PP di camminare sulle isole galleggianti proprio non ne vuole sapere, riesco ad ottenere solo un giro in moto-taxi fino alla riva del lago, dove giostre e coloratissime bancarelle attirano curiosi.
Più ci avviciniamo al Cile più i colori dalle tinte verdi passano a quelle grigie e gialle; è sempre più difficile incontrare anima viva.
Rari greggi di lama ed alpaca catturano la nostra attenzione. Qui non ci sono attrattive turistiche, ma ad un certo punto PP sente uno strano odore, ci fermiamo e scopriamo una sorgente di acqua calda con tanto di geyser fumanti; ci divertiamo un bel po’ giocando ai Piero Angela.
Rispetto ai soliti dromedari, capre e scorpioni qui abbiamo una gamma diversa di animali. Quello che per me vince il premio come il più originale è una specie di mini coniglio-scoiattolo dal pelo lungo. E’ dal Licancabur che cerco di fotografarlo e finalmente ci riesco. Non è bellissimo?
La pista procede attraversando montagne colorate di porpora e poi, ad un tratto, sotto le ruote non c’è più terra ma sabbia; un altipiano interamente ricoperto di sabbia, un posto veramente spettacolare, peccato solo che la foto non rende.
La pista sbuca poi sulla strada asfaltata che i lentissimi e stracarichi camion percorrono dalla Bolivia per arrivare fino all’oceano. Tornanti infiniti ci portano verso il livello del mare; le montagne oramai sono come quelle nude e monocromatiche del nord del Cile. Sento già la mancanza dei gonnelloni colorati, quasi una sensazione di tristezza, di viaggio finito, infatti non mi va molto di tornare al freddo ed alle nebbie cilene, ma ci tocca ugualmente.
Tacna, altro giro da pizzaperù e voliamo in frontiera. Rieccoci così in Cile, ma non molto entusiasti del fatto che ci aspetti la panamericana fino a Santiago!
Ricominciano così i problemi di autonomia. Un colpo dobbiamo deviare per la miniera di Santa Elena per trovare benzina.
Propongo a PP di farci dare un passaggio da un autobus, ma poi gli agrumi dove li mettiamo? Lui mi fa coraggio, dice che presto arriveremo a Santiago, ma sa benissimo che tradotto in tempo significa correre per tre giorni. Arriviamo così all’altezza di Antofagasta, dove facciamo benzina e mentre mi scaldo con un thè gigante e divido il mio perro caliente con un pulcioso ma simpatico cane (perro anche lui), torna PP e scatta l’ammutinamento: per salvare il matrimonio ha trovato due camionisti disposti, con lauta ricompensa, a portare noi e gli agrumi a Santiago. Il clandestino appuntamento si svolge dietro il parcheggio della posada dove di solito i camionisti mangiano. Il camion è parcheggiato proprio in fondo affinché nessuno noti i nostri loschi traffici. Gli agrumi vengono sollevati a braccia dai due camionisti con PP che sorveglia e provvede personalmente all’ancoraggio.
Sulla portiera c’è scritto in grandi caratteri che la compagnia Linsa vieta il trasporto di persone non autorizzate, infatti noi ci accomodiamo in cabina con loro, sedendoci sul letto ad una piazza e mezza: questi lussuosi camion americani…
Il nostro scetticismo svanisce dopo i primi due minuti trascorsi con quei mattacchioni di Roberto y Roberto. Uno parla poco ma lavora molto e l’altro intavola delle lunghe discussioni di politica e sulle belle donne italiane come Sofia Loren, Claudia Cardinale e la Cucinotta, conosce anche “volare” a memoria e qualche canzone di Celentano ed “il mortadella”.
Durante la notte io dormo nel mio sacco a pelo dividendo il letto con uno dei Roberti e PP non smette di inventare discorsi in veneto stretto con l’altro per evitare che prenda sonno, anche perché, tanto per non perdere l’abitudine dei locali, corre come un matto. Partiamo alle quindici ed alle nove del mattino seguente ci ritroviamo 1400 Km più a sud in una candida e congelatissima Santiago.
Ci spostiamo a Sant’Anton per organizzare il rimpatrio delle moto fiduciosi di cavarcela in un paio di giorni, noleggiare la macchina e fare un giro in Patagonia. Il nostro referente locale, da me soprannominato “ci fai o ci sei?”, pare caduto dalle nuvole; continua a temporeggiare riproponendoci le ormai odiate parole non se puede e magnana. Passiamo così i giorni in camera d’albergo ad aspettare novità mentre la pioggia scende copiosa.
Al quinto giorno finalmente la questione sembra risolta: hanno capito da dove partirà la nave! Mettiamo le moto ed i bagagli nella cassa e con un camion ci portano a Valparaiso. PP non sembra molto felice di riaver conquistato il suo status di turista appiedato!
Questa volta ci affidano ad un signore che sa davvero il fatto suo ed iniziano verso le dodici le interminabili pratiche doganali. Ma dobbiamo autorizzarlo formalmente, andiamo così dal notaio per redigere l’atto e quando la segretaria mi porge un tampone resto perplessa e non so cosa farci. Come nei film americani bisogna apporre le impronte digitali accanto alla firma!! Incredibile..
A questo punto per la Patagonia non c’è più tempo e comunque siamo veramente esausti: decidiamo così, per la prima volta in vita, di anticipare il rientro dei pochi giorni rimasti, almeno a casa fa caldo!
Un ringraziamento va sicuramente a tutti gli amici e parenti che ci hanno regalato ogni attimo di questo magnifico e faticoso viaggio e a coloro che ci hanno sostenuto sul forum di soloenduro.it, che come possibile abbiamo aggiornato durante il viaggio. Ma soprattutto credo sia opportuno riconoscere il merito ai nostri agrumi; ci hanno scarrozzato ovunque senza mai protestare e senza mai tradirci.
TEAM GIALLO!!!
P.S.
Per chi non lo sapesse il nandù è lo struzzo sud americano. E’ un po’ più piccolo di quello africano e corre velocissimo nei deserti prati in alta quota. Abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo un paio di volte nel nord del Cile, ma non ho mai fatto in tempo a fotografarlo, purtroppo!
PP vi da un po’ di numeri:
La durata del viaggio e’ stata dal 17/07/07 al 19/08/07.
Abbiamo percorso 8500 Km di cui 1800 in fuoristrada, spesso impegnativo, in 26 giorni.
Il tempo effettivo di guida e’ stato di 130 ore con una media risultante di 65 Km/h nonostante i lunghi trasferimenti sulla Panamericana fatti a 100-120 Km/h.
Le moto hanno consumato 370 litri di benzina ciascuna con un conseguente consumo medio di 23 Km/litro.
Anche oltre i 4000 mslm il funzionamento è sempre stato regolare ed consumi non hanno subito variazioni.