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L’Algeria ha preso fuoco 1992 By Marius

– Posted in: Africa, Nord Africa, Resoconti di viaggio

By Marius
Originally Posted Sunday, November 8, 2009

Gennaio 1992

L’Algeria ha preso fuoco

Quell’anno volevo andare in Libia, ma avevo incontrato troppe difficoltà per mettere in piedi il viaggio. I compagni di avventura sembravano timorosi di entrare nella terra di Muammar el-Kaddafi, che in quell’epoca non aveva le porte aperte come oggi e in più erano ancora presenti i proclami “ferro e fuoco” lanciati dal rais a tutto il mondo occidentale.

Inoltre mi ero appoggiato a Kel12, l’unica agenzia che aveva agganci con la Libia, per avere tutto il supporto logistico per i permessi e quant’altro indispensabile per quel paese, ma mi pareva di non essere molto considerato da loro, forse ero troppo “piccolo”, abituati com’erano ai grossi T.O. Infatti non ottenni nessuna risposta alle mie richieste.

Fatto sta che fino all’ultimo avevo tentato di rendere reale quel mio sogno di un giro nel Fezzan, poi a novembre avevo capitolato e messo in cantiere tre settimane in Algeria, all’epoca senza nessun problema e vincolo di accesso.

Il giro l’avevo organizzato con e per il gruppo di amici “africani” di allora; Ermes e futura consorte, col Patrol 3,3 Td, Carlo, medico di Genova, e Patrizia sul Toyota LJ70 e Galluccio, LandRover 80, da Lodi. Io ero sul mio Patrol 2.8 Td 6 cilindri nuovo di pacca, in compagnia di Mauro.

Carlo mi aveva chiesto se potevano venire anche dei suoi amici liguri, di cui ora non ricordo il nome. Erano 3 coppie, marito e moglie o ragazzo e ragazza, due su due LandRover80, uno blu e uno bianco e la terza su di un Patrol 2,8 Tr, gemello del mio.

Mi avevano assicurato di essere gente scafata d’Africa, specialmente il piccoletto baffuto alla guida del Land blu, che aveva dichiarato di essere stato già più volte a spasso nel deserto.

Per me non c’è mai stato problema a viaggiare in Africa con sconosciuti, l’unica cosa che mi ha sempre preoccupato è che questi viaggiatori abbiano ben presente che stanno facendo un viaggio non dietro l’angolo di casa, niente alberghi 4 stelle, ristoranti carbonara/filetto e insalatina/dolce/frutta/caffè espresso e soprattutto siano sempre disposti ad aiutarsi l’un l’altro.

Quello che purtroppo si può verificare in questo tipo di viaggi è che si instauri uno spirito di competizione, piuttosto che di cooperazione, che penso sia lo spirito giusto per poter viaggiare nel migliore dei modi, e non solo nel deserto.

Cioè, quello che voglio dire è che quando ci si conosce e insieme si sono già affrontate e superate (o anche non superate) prove e difficoltà, non si sente più il bisogno di dimostrarsi capaci o migliori di qualcuno, ci si conosce, si sa dove si è più capaci e dove lo si è di meno, e il condividere queste tipicità non ti crea più problemi.

Invece quando un nuovo singolo entra in un gruppo già consolidato si corre il rischio che il nuovo arrivato, per il dubbio di non essere all’altezza, per la preoccupazione di non essere in grado o di non essere accettato, tenti di comportarsi “sopra le righe”, per esempio osando dove non è conveniente osare o con atteggiamenti da Super Io per dimostrare qualcosa che nessuno ti chiede di dimostrare.

Ancora di più i rischi aumentano quando due gruppi, con un retroterra di esperienze e di modi di viaggiare diversi, tentano di fondersi per fare qualcosa in comune. Se in entrambi i componenti di ciascun gruppo c’è la volontà di essere disponibili, sia fisicamente che mentalmente, all’incontro con una realtà differente, allora tutto fila liscia, ma basta una persona che opponga resistenza, per risultare come uno strumento stonato in una orchestra, che manda in palla tutta l’esecuzione.

Comunque avevano tre settimane da spendere nel deserto ed era quello che ci interessava per cui ci ritrovammo, sotto la pioggia, al molo Cotunav di Genova, la mattina del 21 dicembre 1991

Ci imbarcammo per Tunisi, naturalmente sull’Habib, che già allora sapeva di vecchio, stantio e miracolosamente galleggiante. Della traversata ricordo veramente nulla, se non il mare mosso, fotocopia di tutte quello che avevo già fatto e che avrei ripetuto negli anni a seguire, come spariti dalla mia mente sono i giorni trascorsi in Tunisia e il passaggio di frontiera in Algeria.

Ritrovai la stessa Algeria che avevo lasciato l’anno prima, freddo e pioggia e traffico inesistente.

E con lo stesso vizio. Fermi al primo paesino dopo la frontiera fummo circondati da un mucchio di ragazzini, che dopo la classica questua, bonbon, stilò, argent, ci salutò con una sassaiola quando partimmo. Mi ritrovai con due o tre bolletti sulla fiancata, nulla in confronto a quello che mi sarebbe potuto accedere qualche ora più tardi, al calar delle tenebre.

Stavamo guidando verso sud alla ricerca di un posto dove fare campo, e stava già facendo buio, quando passando sotto un cavalcavia intravidi due ombre su di esso e poi un tonfo sordo sul davanti del Patrol. Capii subito, lancio di pietre; mi fermai poco dopo e mi resi conto di essere stato fortunato. La pietra era rimbalzata sul paraurti rinforzato, che ne aveva ancora il segno, perfettamente tra i Carello Megalux di profondità, aveva sfondato la calandra esattamente al centro, dove c’era il fregio Nissan e si era incastrata tra la traversa del telaio e il supporto del radiatore.

Radiatore salvo, fari salvi, calandra ricostruita con molta pazienza, Bostik e supporti di alluminio una volta tornato in Italia.

La mattina dopo raggiungemmo Bordj Omar Driss, nafta e cibarie, presentazione alla stazione di polizia per farci registrare e poi via, verso le 4 Chemins.

4 Chemins, null’altro che un incrocio di quattro piste sterrate, da nord, est, sud e ovest. Era circa mezzogiorno e ci fermammo a mangiare un boccone, pane comperato al forno la mattina presto e qualche scatoletta di tonno, penso, dal gusto e dal disegno del pesce sulla latta doveva essere tonno.

In quegli anni senza Gps, si viaggiava a cartine, bussola e informazioni.

Cartine, prima di partire mi ero messo a girollare per librerie e negozi specializzati a Torino a caccia di cartine 1:1.000.000 della zona. Avevo trovato solo carte russe, scritte in cirillico e stavo per fare l’acquisto, quando da un amico mi diede la dritta che in Francia si trovavano mappe della stessa qualità, ma scritte in francese, dell’IGN. Avevo unito l’utile al dilettevole, ero partito quindi per Nizza, passando per gli sterrati della Via del Sale, per depredare quella libreria, ritornando a casa con tutta la parte dell’Algeria che mi interessava mappata 1:1.000.000

Bussola, il buon Ermes montava sul cruscotto del Patrol una voluminosa bussola marina a cupola, era stato un pomeriggio a regolarla per minimizzare la deviazione magnetica della carrozzeria ed era un ottimo teorico per quanto riguardava la cartografia e cartometria. Io mi arrangiavo con la mia bussola a mano, una DP6 della Recta, e con qualche nozione di navigazione.

Informazioni. Mentre si stava mangiando, dalla pista ovest vedemmo arriva un Bj42 con due tizi a bordo; riparlando del fatto non ricordiamo se fossero francesi oppure olandesi o tedeschi, comunque parlavano francese. Questi stavano salendo da Tamanrasset verso nord, cioè avevano fatto a salire quello che noi ci apprestavano a fare, scendendo a sud.

Naturale allora per loro fermarsi e per noi chiedere, e ottenere risposte. Ho scritto “allora“, perché quella naturalità oggi non la ritrovo più, mi sembra scomparsa. I due ultimi incontri con carovane non arabe che ho avuto, oggi, nel deserto sono stati con un gruppo belga in Libia, più o meno una decina di km dall’arco Fazzigiren in Akakus e con 4 fuoristrada italiani tra Ksar Ghilane e Dekanis. In tutti due i casi, dopo le domande “Da dove arrivate” e “Dove andate”, non mi era rimasto altro che ascoltare le loro sciorinate di posti dove erano stati in questo e quel deserto, della meravigliosa preparazione del loro 4×4 nei confronti della normalità dei nostri, blablabla.

Allora avevamo mangiato insieme e mangiando mi avevano istruito sulla rotta da seguire:

“Prendi da dove noi siamo arrivati, poi sud, dritto, a destra vedi, distanti, delle dune, le costeggi mantenendoti a una decina di km di distanza. Quando scompaiono, davanti ore 11, vedrai un gruppo di dune, ci punti contro e quando ci sei sotto giri un po’ a destra, dove inizia una pista larghissima, tutta in tole. La segui sempre per una ventina di km, poi a sinistra vedi un gruppo di tamerici, ci passi in mezzo, non prendi la prima pista a sinistra, dritto e poi giri a sinistra su una pista più piccola. Scendi per quella pista, entri nel parco dell’Ahaggar, poi esci dal parco, grosso cartello verde, tutt’attorno nulla finché distanti a destra vedi apparire delle montagne. Devi viaggiare con le montagne alla tua destra, non troppo vicini che è pieno di fesh-fesh, finché vedi comparire a sinistra la gran duna di Amguid. Allora prosegui sempre verso sud, ma vai il più vicino alle montagne, che se stai vicino alla duna c’è il rischio che l’esercito ti fermi per dei controlli e poi lì è la pista del Francesi che ti scassa la macchina, perché è un acciottolato durissimo. Quando sei più a sud della gran Duna, giri a sinistra come per tornare alla gran Duna, ma ci stai sotto. Qui trovi in incrocio di piste, quella da nord che arriva da Amguid, una che arriva da In Salah, una che va a est e quella che va a sud, che sbuca sulla Transahariana qualche km prima di Tam. Prendi quella a sud, dopo ci sono un mucchio di bivi e poi non c’è più pista, tu devi puntare a sud guidando sempre verso una montagna a zuccotto che vedi in lontananza. Quando arrivi contro la montagna a zuccotto, lì ritrovi la pista, ben segnata, che ti porta dritto a Tam”.

Tutto qui, tre giorni e due notti di navigazione nel deserto, descritti senza possibilità di errore in cinque minuti, col sorriso sulle labbra e un panino di tonno in mano, grazie.

E soprattutto, descritto a memoria, senza buttare l’occhio sulla carta. Ci salutammo e ripartirono.

Subito una discussione, tra noi. Il piccoletto baffuto del Land blu cacciò fuori la sua carta, accidenti, aveva come carta quella di tutta, dico tutta l’Africa, da Tunisi a Città del Capo e indicando l’Algeria, con un po’ di città sottolineate con l’evidenziatore giallo e due righe rosse che definivano il percorso che avevano concordato di fare quando eravamo in Italia, iniziò: “Secondo me, hanno detto un mucchio di ca**ate, se passi di qui, finisci la e poi di qui, di la’ non passi, bisogna fare così invece che cosà, vedi qui ho tracciato tutto, io so tutto, ma perché fidarsi di sconosciuti”.

Già nei giorni precedenti aveva offerto delle esternazioni diciamo, non molto educate rivolte a ciascuno di noi e non è che la considerazione nei suoi confronti fosse molto positiva.

Io non dissi nulla, Galluccio sgranò gli occhi, Carlo guardò prima me e poi Ermes, ed Ermes, più sanguigno di tutti, non si trattenne dal chiarirgli l’uso che avrebbe potuto fare di quella carta e di tutte le rotte e tracce marcate su di essa. Battibeccarono ancora un po’ e poi si partì.

Certo che l’umore non era quello giusto, io che mi sentivo un po’ responsabile del giro avevo sempre cercato di fare da paciere, sforzandomi di trovare nelle parole di tutti le parte positiva e provando a fare scivolare via, da tutti noi, quello che non andava.

Comunque, purtroppo, ma anche per fortuna, il deserto è un grande giustiziere, nel senso che dispensa giustizia, quello che non sa da essere non permette che sia e perché tutto viene esaltato, sia le esperienze positive che quelle negative.

Seguimmo le indicazione dei ragazzi e scendemmo a sud e tutto quadrava col loro roadbook verbale, sparato lì in un incrocio nel nulla del deserto algerino, le dune sono a destra, poi a sinistra, poi la tole, mannaggia che tole, la pista immensa e piatta per 360° e le tamerici, dove facemmo campo per la notte.

E la formazione del campo, creatosi in modo autonomo, lanciò il primo messaggio di disagio nel gruppo: io, Ermes e Galluccio da un lato, sottovento, del minuscolo boschetto di tamerici, gli altri 6, con le loro tende, dal lato opposto con Carlo e Patrizia che avevano piazzato la loro in mezzo a due campi, come per tentare di farci rimanere uniti. La cena identica situazione, due tavoli, due gruppi, due umori diversi e sempre Carlo che mangiava un boccone da noi e beveva un bicchiere di vino da loro.

La mattina dopo si continuò verso sud, l’atmosfera sembrava rasserenata, sarà com’è che si dice, che la notte porta giudizio oppure, è questo era più probabile, che rendendoci conto che tutto filava liscio, problemi non ce n’erano e le indicazioni ricevute erano esatte, qualcuno si stava rilassando.

Ricordo che la pista compariva e scompariva sotto le nostre ruote, immersa in una vegetazione di bassi cespugli spinosi, quando in cima ad una collinetta, a destra di noi, iniziammo a vedere una capanna di foglie di palma, lamiere e pezzi di legno, rotonda, minuscola col tetto a punta. Quando fummo quasi di fianco, saltò fuori un ragazzino, coperto da una specie di saio stracciato, stropicciandosi gli occhi, che si piazzò in mezzo alla strada e fece cenno di fermarci.

Je suis le gardien du Parc, il faut payer pour entrer dans le parc!”. A dire il vero avrebbe dovuto dire “Io sono un ragazzino che il guardiano del parco, che adesso è in giro a caccia di gazzelle o sotto una tenda a dormire, ha messo qui a battere cassa agli stranieri che passano”. Vabbè, 10 dinari per macchina e ci diede anche la ricevuta, devo averla ancora in qualche cassetto, come souvenir.

Gli chiedemmo se nella giornata fosse passato qualcuno, ci rispose che era lì da 3 giorni ed era passato solo un “4×4 etranger”. Il parco dell’Ahaggar me lo ricordo come un piccolo Akakus, non tanto per l’aspetto esteriore, quanto per emozione che mi aveva generato percorrerlo.

A mezzogiorno ci fermammo per un boccone e Carlo iniziò a ravanare sul motore, aveva il turbo dell’Lj70 che gli creava problemi e mentre la moglie lo imboccava, lui non mollava di lavorare sulla turbina. Per non essere di meno Ermes me lo ritrovai sdraiato sotto il Patrol che smadonnava con una balestra, l’anteriore destra mi pare di ricordare, che aveva incominciato a protestare sul pezzo di tole, il giorno prima.

Si ripartì alla spicciolata, il piccolo baffuto con la banda genovese in avanti e noi con Carlo e il suo turbo “pelandrone”, una decina di minuti dopo. Così viaggiammo da soli, lungo la pista che ci stava portando ad Amguid, tenendoci in mezzo a plateau, sulle tracce del piccolo baffuto che ci precedeva. Poi le loro tracce iniziano a spostarsi verso sinistra, verso l’inizio della Gran Duna di Amguid. Li seguimmo, per non dividerci e ci ritrovammo su quello che i ragazzi ai 4 Chemin avevano definito la Pista dei Francesi. Era e penso lo sia ancora, una striscia di circa tre metri di larghezza, lunga sino all’infinito, di un lastricato di pietre, come si lastricavano le vie delle città due secoli fa, tutte pietre più o meno rotonde conficcate nel terreno, con la loro bella faccetta concava rivolta al cielo.

Solo che una lastricatura così a senso in Europa, ma nel deserto in Africa, che ci fa e soprattutto, immaginate in che stato era, peggio del peggiore tole. Si viaggiò a lato, un po’ a destra, un po’ a sinistra, sino ad arrivare a vedere la Gran Duna svanire alla nostra sinistra e veder comparire i battistrada, fermi, qualche km dinnanzi a noi.

Il fatto fu che vedendoci arrivare, invece di aspettarci, ripartirono e imboccarono la pista verso est, invece che mantenere il cap a sud. In effetti, quando arrivai nel punto dove loro avevano sostato, notai che la pista più marcata guidava proprio verso est, ma comunque alzando lo sguardo verso sud, in lontananza appariva la morbida rotondità della montagna a forma di zuccotto, distantissima sì, ma perfettamente visibile.

Spensi il motore, Ermes mi affiancò e spense anche lui, mentre Carlo, che viveva, povero lui, nel dualismo su a chi appartenere e chi seguire, si gettò nella pista ad est. Allora Ermes ripartì e si infilò anche lui su quella pista. Io rimasi lì, fermo e solo. Con la radio provai a chiamarli, ma non riuscivano a sentirmi.

Scesi e mi misi a riordinare il bagaglio, frullato passando su quell’acciottolato “francese”, tanto ero certo che sarebbero tornati indietro.

Ad ovest iniziò a sollevarsi un turbine di sabbia, che marciava nella mia direzione. Il vento soffiava da quel punto cardinale verso di me e dopo qualche minuto, insieme all’immagine di quel turbine che si ingigantiva, arrivò sempre più distinto il rombo di un motore. Una macchia marrone all’orizzonte, sempre più imponente e sempre più dettagliata, sino a diventare comprensibile, delineando la forma di un camion Mercedes 6×6, un camion cisterna algerino che puntava dritto verso di me.

Si arrestò al mio fianco, inglobandomi nella sua ombra, emanando un puzzo di nafta, di lamiere roventi, di iniettori moribondi. Scesero i due algerini e ci salutammo.

Quattro parole di rito e mi ritrovai seduto sotto il cassone del Mercedes, il fuoco acceso per il tè.

Arrivavano da In Salah e andavano ovviamente ad Amguid, mi confermarono che avevo fatto bene a stare ad ovest della Gran Duna, che se avessi percorso la pista ad est, sarei entrato in paese, cadendo tra le braccia della gendarmeria, è che non è che ti creano problemi, ma la burocrazia è cosa lunga e ti fanno perdere un mucchio di tempo.

Il tè alla menta è sempre ottimo, qui in Italia, anche se mi impegno e uso gli stessi ingredienti che si usano in Africa, non è lo stesso. Quel tè fu veramente gradito e loro gradirono il mio pacchetto di Marlboro e contraccambiarono riempiendomi i serbatoi di nafta, quasi 200lt, e con la conferma che ero sulla strada giusta.

“Se vai a Sud” mi disse l’autista “finisci sulla pista che ti porta sull’asfalto a Tam”. Poi indicando la direzione dove si erano cacciati tutti quanti “Di la, ci sono tante piste di caccia, tanti bivi, se trovi quelli giusti arrivi a Djanet o a Illizi, ma è dangereux, beaucoup dangereux, ti perdi facilmente”.

Detto fatto, passate un paio di ore vede rispuntare il Patrol di Ermes, e dietro il LandRover del piccolo baffuto e l’uno dopo l’altro, tutta la carovana.

La mia prima impressione fu quella di vedere una mamma che strattonava fuori dall’acqua del mare il proprio figlioletto, che imprecava, protestava, si divincolava, non voleva uscire. E la mamma che lo teneva sollevato per un braccio, trascinandolo sulla sabbia della spiaggia e quello, ancora di più, a strillare, urlare, scalciare. Identica situazione.

Ermes li aveva raggiunti e aveva faticato non poco a fermarli e a convincerli a tornare.

Venni assalito dal piccoletto. Mi accusò di fargli perdere tempo, di non sapere dove dovevo andare, di sabotare il giro, di soffrire di turbe da protagonismo, un mucchio di altro che ho dimenticato. Gli dissi che mi ero fermato, perché loro stavano andando in una direzione sbagliata, quella giusta era verso sud, e gli indicai la montagna “zuccotto”.

Mi rispose di smetterla di dar credito a quello che avevano detto quei due drogati. Allora gli riferii quello che avevo ascoltato dai due camionisti algerini, i quali, come avessero capito l’italiano, ripeterono a tutti quello che io avevo già sentito dalle loro bocche. Fu tutto inutile.

E commise un errore.

Poteva mettere in dubbio la mia esperienza e anche le parole dei due ragazzi trovati al 4 Chemin, anche se le loro spiegazioni veniva confermate sia chilometro dopo chilometro, potendo tangibilmente constatare che quello che avevano affermato era vero, in quanto ci eravamo ritrovati in tutti i punti che loro ci avevano indicato, che dal fatto che si doveva andare a sud e a sud stavamo andando, come bussola e carta confermavano.

Ma non poteva dire, come disse: “Ma cosa vuoi che ne capiscano più di me di deserto, sti due stronzi camionisti arabi, che se va bene non sanno ne’ leggere, ne’ scrivere”.

Non ci rimase che ridere, la nostra metà di viaggiatori, ridere a crepapelle.

La sera arrivammo alla montagna a zuccotto, facemmo due campi, noi verso la cima alla montagna, loro in basso, vicino alla pista. Due fuochi, due cene. Carlo era con noi.

La mattina dopo, al risveglio, il Toyota bianco di Carlo e Patrizia non c’era più.

Il campo degli altri, anche quello non c’era. Erano partiti all’alba. Partimmo anche noi e poco prima di mezzogiorno trovammo la Transahariana a In Echer che ci avrebbe portato a Tamanrasset.

Ora non ricordo più bene, mi pare che le votazioni politiche in Algeria fossero avvenute il 26 dicembre del 1991. Sta di fatto che per la prima volta il partito del Fronte Islamico di Salvezza Nazionale (in francese Front Islamique du Salut), il F.I.S. di Abassi Madani (già nella resistenza antifrancese e ex membro del F.L.N., il Fronte di Liberazione Nazionale) e Ali Benhadj (più oltranzista e vicino alla Jihad afghana) aveva vinto le politiche.

L’Algeria stava vivendo un periodo non felice della sua storia recente, complessivamente comunque e ugualmente mai molto felice. Verso la fine degli anni 80 la nazione stava passando una crisi economica che richiedeva pesanti misure di austerità.

Il presidente delle repubblica, Chadli Benjedid, seguendo la stessa linea dei suoi predecessori, aveva creato dei malcontenti tra la popolazione. Questi malcontenti portarono, per la prima volta dall’indipendenza algerina, nel 1988 a dei sanguinosi moti popolari da parte di fondamentalisti islamici che portarono il presidente a modificare l’assetto costituzionale. La nuova Costituzione, approvata da un referendum nel febbraio 1989, sanciva la separazione tra stato e partito ponendo fine al sistema del partito unico. Alle elezioni comunali e provinciali del 1990 il F.I.S. si era imposto sui candidati del F.L.N..

E aveva bissato il successo con le politiche del dicembre 1991.

Due giorni prima delle elezioni c’era stato un attacco terroristico da parte di quattro integralisti vicini al F.I.S. ad un posto di polizia nelle vicinanze di Algeri.

Dunque in quei giorni c’era fermento in Algeria, si sarebbe dovuto tenere il 16 di gennaio, il ballottaggio, una seconda tornata di elezioni politiche, e visto l’umore generale sicuramente avrebbe vinto il F.I.S. orientando pesantemente la nazione verso l’integralismo stile iraniano. E si stava già dicendo che c’erano stati dei brogli elettorali, che il governo in carica avrebbe invalido le elezioni, che il ballottaggio non ci sarebbe stato.

Infatti a Tamanrasset l’atmosfera non era delle più rilassate, c’era in giro un po’ più di polizia e un po’ più tanto di esercito e la gente sorrideva di meno. La nostra richiesta di informazioni, fatta a locali, di dove passare per fare la Pista dei Contrabbandieri, quella pista che descrive un arco a sud, da Tam a Djanet, toccando quasi il confine col Niger, aveva ottenuto tutte risposte simili, tutte “Lasciate perdere”, “Andate a Djanet su altre piste”.

Restammo a Tamanrasset solo poche ore, il tempo di fare nafta, acqua e viveri. E di vedere un gruppo di ragazzi italiani, felici e sorridenti, direttamente aviotrasportati da Fiumicino al fondo del deserto algerino, accomodarsi sul cassone, ovviamente scoperto, di due o tre pickup LandRover . Sentendo la loro parlata ci avvicinammo e ci dissero che stavano partendo per andare a visitare l’Eremo di Père de Foucault, sulla Assekrem.

“Un attimo, ragazzi, siete tutti in maglietta e pantaloni leggeri, è pieno pomeriggio, se andate su all’Eremo ci mettete 4 o 5 ore, arrivate col buio, morirete di freddo”

Nessuno di loro sapeva che l’Eremo di Père de Foucault è in cima all’Assekrem a 2600 mt di quota e la notte la temperatura in quella stagione va abbondantemente sotto zero.

Una ragazza mi rispose “Ma se fa così caldo qua, siamo nel deserto, lo vedi ?”.

Mi ricordo che li guardammo partire, magliette Lacoste e pantaloni color sabbia stile Desert Storm, facendoci ciao ciao con la mano. Anche noi rispondemmo ciao ciao con la mano e Mauro se ne uscì fuori con questa frase “Mi sembra di star salutando la gente sul Titanic che si stacca dal molo”.

Svanita la possibilità di raggiungere Djanet dalla Pista dei Contrabbandieri, facemmo campo a nord del paese e all’alba riguidammo per qualche km ancora verso nord, sino a raggiungere i resti di un muretto imbiancato, coperto da scritte multicolori, perlopiù in tedesco. Da lì, partiva la pista che attraverso i villaggi di Irafok e Ideles ci avrebbe portato a Djanet.

Prima di arrivare a Ideles, Galluccio si diede da fare, suo malgrado, per movimentare il viaggio, con un incidente occorsogli che era stato sia preoccupante che comico; ci precedeva di un centinaio di metri e aveva preso un certo abbrivio su quella pista liscia e invitante. Fatto sta che era troppo veloce su un dosso e noi l’avevano visto scomparire, per poi vedere riapparire oltre il dosso, in volo nel cielo, borse, valigie e gomma di scorta. Eravamo agghiacciati, pensavano che avesse capottato. Accelerammo, ma non troppo per non ripetere l’errore e una volta scollinati, lo spettacolo aveva reso solamente comico l’accaduto. Tutti i bagagli, che aveva stivato in macchina, erano sparsi sulla pista.

Gomma di scorta, binda, borsoni, alcuni ancora chiusi, ma altri aperti, e maglie, mutande, calzini, asciugamani sparsi in scia della macchina e Galluccio, in piedi, appoggiato alla portiera semiaperta, che si teneva il capo tra le mani e ripeteva “Che botta, ragazzi, che botta !!!”

Il Rover era atterrato ammusandosi e rimbalzando un po’ di volte e lui, per simpatia, era rimbalzato dentro l’abitacolo e aveva dato un’inzuccata clamorosa sull’imperiale. Inoltre si era spalancato il portellone, vomitando fuori tutto il contenuto.

Il risultato finale è che una molla del posteriore era uscita dalla sede e aveva fatto sfilare un ammortizzatore. Manutenzione sulla pista e di nuovo in marcia.

Sostammo nel paese, ed io mi ero armato della macchina fotografica e curiosavo in giro.

Fui attratto dal rumore di un martelletto che picchiettava sul metallo.

Era un tuareg che sotto una tettoia lavorava dei monili.

Lo salutai, mi salutò e mi invito a entrare. Era di poche parole, mi aspettavo l’offerta di un tè alla menta che non arrivò, poi si interruppe e mi chiese se mi piaceva il pugnale tuareg che stava terminando di decorare.

Era molto bello e di ottima fattura. Gli chiesi il prezzo. La trattativa sul prezzo, alla moda araba, iniziò, ma stranamente lui non scendeva il prezzo, nonostante io usassi tutte le astuzie che avevo imparato nei souk. E il prezzo era alto.

Gli dissi di no, che non mi interessava. Lui non rispose, terminò la decorazione e lo pulì. Quindi fece una mossa da gran stratega, aprì una sacca per l’intenzione di riporlo, facendo però uscire i suoi manufatti, in modo che io potessi vederli e apprezzarli.

Erano tutti oggetti splendidi, notevolmente al di sopra dello standard qualitativo che avevo mai trovato per simili prodotti.

Mi guardò e mi chiese cosa ne pensassi del suo lavoro. Non spesi molte parole anch’io, comprai il pugnale e presi anche tre bracciali, uno in argento e due in rame e mi pare, anche un ciondolo. Tutto al prezzo che lui voleva, senza discutere.

Qualche anno dopo ero in Francia, a casa di amici, amanti del deserto come me. Si discuteva delle solite cose, preparazioni 4×4 estreme sì oppure no, piste proibite, confini chiusi, confini minati, quando una ragazza mi chiese dove avessi preso il bracciale in rame che avevo al polso.

Gli raccontai la storia, come l’ho raccontata ora.

Lei mi disse “Allora l’hai comperato da Alemine”. Mi pare di ricordare avesse detto Alemine, ma non ne sono certo. “Ma sai che Alemine di Ideles è il più noto e bravo artigiano tuareg di tutta l’Africa, è un artista”. No, non lo sapevo, ora lo so, peccato.

Stavamo girollando fuori dal villaggio, quando una pattuglia dell’esercito ci raggiunse. Dopo la solita trafila di documenti e controllo dei soldi e il pagamento del solito pizzo, costituito normalmente da un pacchetto di sigarette per armato, ci dissero che non potevano fare campo fuori del paese, troppo pericoloso.

Ci condussero quindi verso la loro caserma, pensavamo che ci avrebbero fatto dormire dentro, nel cortile. Invece ci indicarono il muro di cinta, lato ovest e ci costrinsero a fare campo contro il muro.

La mattina dopo andammo a caccia di un panettiere. Passammo davanti ad una specie di bar e ci venne la voglia di un tè alla menta. Entrammo, un locale spoglio che come unico arredo aveva una parete di lattine vuote di Coca e un oceano di quadri appesi. E le facce nei quadri erano sempre le stesse due, Gheddafi e Khomeini. Non ci sentimmo a nostro agio e il disagio aumentò quando la decina di avventori si volse verso di noi e non ci staccò lo sguardo di dosso per tutto il tempo che impiegammo a trangugiare i due tè. Letteralmente fuggimmo dal bar e dal paese.

Dopo km e km di pista, questa ci scomparì sotto le ruote e guidammo sempre verso est sino a che dinnanzi a noi comparvero le montagne. Sapevano di dover girare verso sudest per puntare su Djanet, ma non eravamo certi se era arrivato il momento o se si doveva proseguire ancora. Ci arrestammo ai piedi di una duna, Ermes tirò fuori gli arnesi del mestiere per fare il punto, Galluccio continuò a ravanare col suo ammortizzatore afflitto da ansia da ammortizzamento e io salii in cima per scattare qualche foto, visto che la luce era giusta, mancavano un paio di ore al tramonto.

Dalla cima della duna lo spettacolo era meraviglioso, di fronte da est a ovest un arco di montagne grigie piantate nel deserto rosso, con enormi fenditure verticali, dei canyon strettissimi, da cielo a sabbia, con tracce di piste che si infilavano nelle spaccature. Il sole alle mie spalle illuminava questo scenario e proiettava l’ombra della duna e la mia ombra, laggiù nel piano, quasi ai piedi delle montagne, e sotto, vicino alla mia ombra vidi brillare un riflesso, un luccichio che dichiarava che laggiù c’era una macchina in movimento.

Scesi col Patrol dalla duna e guidai verso l’auto, che si muoveva abbastanza lentamente. Era un Mitsubishi 4×4 camperizzato, un L300 oppure un L400, non ricordo bene, targato Germania. Ci fermammo e devo ammettere che rimasi di stucco: in quel momento avevo avuto un’anteprima del mio futuro.

Cioè vidi scendere dal Mitsubishi una coppia, lui, come mi disse poi, di ottanta anni e sua moglie, più o meno sua coetanea. Soli, solo loro due e il loro Mitsu, a spasso da oltre 20 anni per il mondo, due ghirbe appese ad ogni specchietto retrovisore esterno, tutti i loro averi stivati dietro di loro, tutto il mondo davanti a loro, il cuore aperto e tanta voglia di vivere, molta più di me. In culo alle bocciofile, taglio e cucito, ricamo, partite a scopone, telenovelas, bollette luce/gas/acqua, il Grande Fratello, la Fattoria, Amici, le beghe di condominio…………in culo.

Rimontai la duna, raccolsi gli amici e guidammo sino a Zaouatallaz, un villaggietto un bel po’ prima di Djanet. Il sole stava tramontando e noi ci eravamo informati che fino a Djanet era pista perfettamente tracciata, quindi decidemmo di fare gli sborroni, guidammo di notte fino a Djanet.

In effetti la pista era visibilissima e con i quattro fari di profondità la illuminavo perfettamente, nessun problema, almeno per i primi km, poi ci accolse un tole pazzesco che ci fece compagnia fino alla mattina. Sul tetto io montavo 2 barre portatutto collegate tra loro da una plancia di legno che ospitava due gomme di scorta. Tutto il sistema era stracollaudato, ma era al primo giro con un Patrol. Ora non so se questo era un difetto di tutti i Patrol oppure un difetto di saldatura del gocciolatoio del mio, fatto sta che dopo qualche ora di tole, successe il patatrac. Non ci arrischiavamo a lasciare la pista per viaggiare fuoripista, sia perché in alcuni punti era una pietraia immonda, che per non perderci. Così, stando sempre sulla pista, con l’assetto duro da carico, fogli di balestra supplementari e ammo tosti, a cedere fu il gocciolatoio che si strappò e mi ritrovai il portapacchi, con le due ruote di scorta, coricato sul tetto. E tre, anche io avevo avuto il ricordino africano.

Il sole della mattina ci ritrovò nel palmeto di Djanet. Io col portapacchi a terra e la chiave a pappagallo per raddrizzare il raddrizzabile, Ermes smadonnante sotto il Patrol a rendersi conto che il tole notturno gli aveva spaccato in metà due fogli di una stessa balestra e Galluccio a constatare che l’assetto ammo/molle aveva retto agli strapazzi. Doveva essere l’ultimo dell’anno, l’ultimo giorno del 1991, faceva caldo, i ragazzini si assiepavano attorno a noi, spingendo modellini costruiti con lattine di CocaCola, legnetti, fil di ferro e tanta fantasia di macchine della PaDak, tutto era ok.

Ci trascinammo coi “rottami” sino in un campeggio/albergo in centro paese, la prima cosa che notai e mi stupì è che tutto l’edificio era contornato da un alto muro di cinta e l’unico accesso chiuso da un pesante portone e presidiato da un guardiano dall’aria minacciosa. Entrammo, trovammo una varietà mista di fauna umana europea, soprattutto tedeschi, sbarcati da un pullman rosso fuoco anni ’50 che si trainava un tender gigantesco che fungeva da bagagliaio/dormitorio per i crucci. Prendemmo possesso della stanza e recuperammo la notte in bianco.

Il primo giorno del 1992 mi ritrovò un po’ rintronato per i festeggiamenti, col Patrol da una parte con gocciolatoio in parte sbilenco, in parte penzolante, un porta ruote con le due ruote imbullonate appoggiato tristemente ad una palma. Mi dissero di tornare nel palmeto, che lì c’erano meccanici e carrozzieri, per risolvere i problemi miei e di Ermes.

Anche a Djanet l’aria non era serena, anche in città troppi soldati e gente poco rilassata. Nel palmeto trovammo dapprima il meccanico. Era un omone tutto vestito di bianco candido, seduto su una poltrona, all’ombra delle palme e tutt’attorno una schiera di lavoranti, forse figli suoi, visto l’ordine crescente delle altezze, sporchi, indaffarati e incasinati. Avevano infilato un ramo di palma tra telaio e paraurti posteriore di un LandRover, poi avevano alzato il dietro sino a due metri e piantato il ramo per terra, lasciando col muso appoggiato a terra. Con la macchina in equilibrio instabile, avevano smontato la trasmissione posteriore, semiassi e differenziale che erano sparsi d’intorno, nella sabbia. E il ragazzo più giovane, ancora un bambino, aveva scaricato l’olio lurido del differenziale in una bacinella e stava tirando via planetario e satelliti, cioè quello che rimaneva di quelli ingranaggi, informi e sdentati.

L’omone si era fatto descrivere il problema dei fogli di balestra rotti e poi aveva proposto soluzione e costo. La soluzione più logica che uno si sarebbe aspettato era la sostituzione dei fogli rotti, ma a Djanet non c’erano fogli di balestra, quindi la soluzione era prendere una robusta corda di canapa del diametro di 4/5 cm e con questa avvolgere insieme e il più strettamente possibile tutti i fogli. Io e Ermes ci guardammo stupiti, ma strabuzzammo gli occhi quando chiese per il lavoro 200$.

“O così, o rimanete a Djanet”. Un’ora dopo fu trovato l’accordo per 200 dinari e il lavoro fatto domani, che oggi dovevano finire il Land. E anche per il giorno successivo presi appuntamento dal carrozziere per farmi saldare i pezzi di gocciolatoio strappati; non è che lui dovesse finire qualcosa, è che il cavo elettrico della sua saldatrice non era un cavo unico, era formato da una ventina di spezzoni giuntati alla bell’è meglio e che quando aveva preso in mano l’utensile e l’aveva acceso, tutta l’officina si era illuminata di fiammate e fuochi d’artificio, rischiando di mandare a fuoco l’intero palmeto. Tutto era andato in corto circuito e quindi io e lui avevamo passato il pomeriggio a cercare pezzi di cavo sani della sezione giusta e io a giuntarli in un modo meno “artistico” di come era stato fatto. Lui ci aveva messo i cavi e io due rotoli di nastro da elettricista, ma alla fine ne era uscito un cavo di 10 metri, abbastanza sicuro, per lo standard algerino.

E così il lavoro del giorno dopo mi costò 15 dinari e due tè alla menta.

La macchina o.k., le pitture rupestri del Tassili sopra Djanet viste, eravamo arrivati all’ultima notte in città. Prima dell’imbrunire ero uscito dal camping/bunker, sia per andare a vedere dove fosse l’aereoporto che per andare a trovare dei ragazzi tuareg coi quali avevo fatto due parole il giorno prima e che mi dicevano di essere bravi artigiani. Abitavano appena fuori città.

Erano simpatici, ma avevano le classiche cose di ogni bancarella, croci tuareg, mani di Fatima, babbucce e pendagli vari. Si era lì, fuori dalla casa, a guardare il cielo diventare nero, bere tè e chiacchierare, quando il discorso cadde sul FIS e sull’integralismo. Seduto vicino a noi c’era un anziano, che fino allora era rimasto in silenzio. Aprì bocca solo per dire, in francese “Italiano, torna a casa, che tra un po’ l’Algeria prenderà fuoco”.

Tutte queste parole, vedere Djanet quasi blindata, le notizie poco rassicuranti, tutta questa insicurezza mi rendeva nervoso e preoccupato. Poi la cosa peggiorò quando riuscii a telefonare in Italia, la mattina dopo, prima di partire verso Illizi.

Quando mi sentirono al telefono, erano felici, continuavano a chiedermi rassicurazioni su come stessi. Perchè era arrivata in Italia la notizia di un agguato teso nel deserto ad un gruppo di fuoristradisti italiani. Non era chiaro dove questo fatto fosse avvenuto, alcuni parlavano di Niger, altri di Algeria, ma la cosa che li aveva fatti preoccupare era che durante l’agguato era morto un medico genovese. Mi raccontarono il fatto, un gruppo di armati, chi diceva tuareg, chi diceva integralisti del F.I.S., aveva circondato il campo di questi turisti e il medico genovese, con un altra persona, era fuggito col suo 4×4. Scappando era capottato oltre una duna, rimanendo ucciso nell’incidente.

Ora, Carlo era genovese ed era medico e soprattutto erano giorni che non lo vedevo e l’altra persona poteva essere Patrizia. Merda !! Non avevo più notizie di loro da quando ci eravamo divisi alla montagna a “zuccotto”.

Provate ad immaginare con che spirito ripresi il viaggio

Direzione nord, Illizi. Rifacemmo la pista spaccatutto di giorno ed era tutto un altra cosa. Poi proseguimmo attraverso il plateau del Fadnoun. Ora mi dicono che la pista è asfaltata da Fort Gardel ad Illizi. Peccato, certamente è più scorrevole, ma la cosa che meno interessa quando si gira nel deserto è trovare asfalto.

L’attacco alla pista del plateau mi lasciò di sasso, tanto quanto i sassi che la pavimentavano. Tutto in prima marcia per un bel po’ di km, poi fortunatamente i sassi lasciarono spazio ad una pavimentazione più facile, in quel paesaggio da pianeta Marte.

Era tutto desolato e assolato. Nessuna anima viva, l’ultimo incontro fatto era all’uscita di Zaouatallaz, dove eravamo stati fermati da un pastore col suo gregge, che ci aveva chiesto una bottiglia d’acqua. Ad un certo punto la pista arrivò ad un pianoro e in distanza a Mauro parve di intravedere delle gazzelle.

“Mario, Mario laggiù delle gazzelle, vai che facciamo due foto!!”. E io con lo sguardo distante in lontananza cercai di scorgere quello che mi stava indicando.

“Dove, dove sono ?” gli stavo chiedendo, quando……BAM, una botta pazzesca sul davanti e il Patrol che rimase appeso su di un masso, con l’avantreno puntato verso il sole e solo le due ruote dietro poggiate a terra. Già, il masso, non l’avevo visto, guardavo distante e lui mi aspettava, lì vicino a qualche metro.

Scendemmo, sembrava nulla di grave, ci eravamo scivolati sopra, era fatto, per fortuna, a cuneo, bello rossiccio e massiccio. Ingranai la retro e molto delicatamente scesi. Pochi metri in avanti e purtroppo mi resi conto che qualcosa non quadrava, l’avantreno era “ballerino”. Mi ricoricai sotto, subito non vidi nulla di strano, poi mi resi conto che l’ammortizzatore anteriore lato guida penzolava nel nulla, strappato dal piattello inferiore. Il masso mi aveva tranciato l’attacco in basso e ora la balestra lavorava libera.

Certo, avevo un ammo di scorta, quello che prevedevo più sollecitato, un posteriore, completamente inutile.

Vabbè, facemmo campo lì, stava per far buio. Per inciso le gazzelle non erano altro che pietre, nel controluce del tramonto ci avevano tratto in inganno. Cenammo in un rottame di camion, ci rinfrancammo lo spirito e risollevammo gli umori un po’ rasoterra contemplando una stellata meravigliosa, la più bella che mi era capitata di vedere nella mia vita.

La mattina ci svegliammo col ghiaccio che aveva foderato l’interno dei finestrini, il termometro segnava un implacabile -2.

Al momento della colazione facemmo un riepilogo della situazione; io ammo rotto e dubbi sulla qualità del lavoro del fabbro djanettense, Ermes con una balestra fasciata così strettamente dal cordone di canapa bianca, da biscottino a biscottino, così da sembrare ingessata, Galluccio con l’ammo sfilato e rabberciato che aveva sì retto al tole della notte verso Djanet, ma stava dando dubbi di stabilità…mentale. E su tutti la preoccupazione che quel medico genovese morto fosse Carlo.

Ma il viaggio continua, c’est l’Afrique.

In serata arrivammo a Illizi e in un campeggio in costruzione passammo la notte affittando tre bungalows.

La mattina si ripartì, direzione nord, verso In Amenas.

L’andatura era lenta e arrivammo ai pozzi di gas nel pomeriggio. Cercammo un posto tranquillo per far campo e una volta montato, iniziò a soffiare un vento violento e gelido, la temperatura si era abbassata pesantemente dopo il tramonto e le tende venivano sbattute, con gli archetti della cupola si piegavano.

Tentammo di mangiare qualcosa, rinchiusi all’interno, ma la tempesta aumentava sempre più. Il vento si incuneava tra la tenda e il sopratelo, gonfiandolo e strappandolo dai picchetti. Uscii per tendere meglio le corde e venni schiaffeggiato dalla sabbia, con la pila accesa sulla fronte non riuscivo a vedere ad un metro da me. Cercai delle pietre per tenere a terra i lembi del sopratelo e da mettere sui picchetti, ma c’era solo sabbia, in terra e in cielo. Pensai di rifugiarmi in auto, o almeno di spostarla sopravento alla tenda, pizzicando con la ruota la falda a terra del sopratelo. Aprii la portiera con difficoltà e in un attimo tutto l’interno si riempì di sabbia, poi in un attimo di calma di vento, intravidi una luce in lontananza, una costruzione, forse la casa dei guardiani dei pozzi. Mi venne un’idea.

Andai a bussare alla porta di quella casa. All’algerino che aprì chiesi ospitalità per la notte, per me e per i miei amici, rimasti là, vicino ai mezzi. Onestamente mi aspettavo un garbato no, che non era possibile, perchè non era casa loro, perchè eravamo sconosciuti, perchè, perchè…….

Invece mi sorrise e mi disse che era contento di ospitarci. Tornai indietro e smontammo con difficoltà il campo, uno spicchettava e due tenevano la tenda che come una vela ti trascinava via e poi si cacciava tutto alla rinfusa nel bagagliaio del 4×4.

Entrammo nella casa; era una sola stanza, riscaldamento acceso e tanti tappeti sparsi per terra. L’algerino era in compagnia di un collega, dico collega perchè entrambi vestivano delle tute blu unte e logore. Mentre quello che mi aveva aperto la porta mi indicava in quale parte della stanza dormire, l’altro aveva aperto le ante di un armadio e sta riempiendo, di non notai cosa, un bacile di alluminio che teneva sottobraccio.

Stendemmo i sacchi a pelo in un angolo, tranquillizzammo la ragazza di Ermes, un po’ preoccupata in quanto unica donna e mentre parlavano su come disporci, l’altro, quello del bacile, venne verso di noi. Lo aveva riempito, e ce lo stava porgendo con un sorriso, di pomodori, olive, formaggini, scatole di tonno e di sardine, pane e arance. Anche oggi, ripensandoci, come provai allora, sento forte un sentimento di vergogna; chi tra noi aprirebbe la propria casa e imbandirebbe la propria tavola per 5 stranieri sconosciuti che ti bussano alla porta alle 9 di sera ?

Certo, si può dire che la casa e il cibo potevano non essere loro, che stavano offrendo qualcosa di proprietà della compagnia petrolifera, ma a maggior ragione, avrebbero potuto essere ripresi per questa disponibilità dalla compagnia stessa.

Non solo, la mattina, dopo una notte al caldo e protetti dalla tempesta, fummo svegliati con l’offerta di tè e caffè, caldi e fumanti, biscotti e ancora arance. Ricambiammo con quello che avevamo, sigarette e qualche vestito pesante.

Sempre a nord, su asfalto. Volevano andare a curiosare nel punto della triplice frontiera, dove Algeria, Tunisia e Libia si incontravano. Arrivammo a Bordj Messaouda e guidammo, tra le facce stupite degli abitanti, dritti sulla strada che portava a Ghadames, verso la Libia. Naturalmente non uscimmo neanche dal paese, un muro di filo spinato e un blindato militare in mezzo alla strada bloccavano l’accesso al posto di frontiera. Sapevano che quella frontiera era chiusa da tempo, peccato, ma volevamo vedere come intendevano gli algerini per frontiera chiusa.

Blindata e qualcuno dice anche minata.

Proseguimmo verso Rebaa, con l’intenzione di regalarci l’ultimo imprevisto sprazzo di sabbia arrivando a El-Oued attraverso la pista di Bir Dolmane e Bir Djedid. Attaccammo l’inizio della pista che era tardo pomeriggio. Era sabbia pura e dura, catini e dune in sequenza, il Land si piantava in continuazione, colpevole il carico e le gomme non proprio dedicate. Infatti, visto che tutto il giro era previsto su deserto duro e poco sabbioso, Galluccio aveva lasciato montate le gomme che usava in Italia e al primo incontro, non previsto, con le dune, erano entrate in crisi, anche se abbassate di pressione.

Mentre al fondo di un catino stavamo, come si dice, buttando piastre per tirarlo fuori, sentimmo un rombo di un motore oltre una duna ed un attimo dopo apparve un FJ60, un 4000 o 4200 a benzina, targato algerino.

Mannaggia a lui, volava sulle dune, entrò nel catino, ci vide, fece un traverso sul fianco della duna e ci raggiunse. Ci chiese se avevamo bisogno di aiuto. No, grazie, noi ci divertiamo così nei pomeriggi di gennaio nel deserto, a buttare piastre e tirarci con le strops.

Scherzi a parte, lo ringraziammo e gli chiedemmo solo di dirci se tutto il pezzo sino a El-Oued fosse come quello appena passato. Ci rispose che eravamo nel pezzo più facile. Grazie, ripartì facendo un 360° tutto di sponda sulle dune che contornavano il catino e proseguì oltre, solfeggiando con l’acceleratore. Guardai gli altri e dissi “Ragazzi, stanotte si dorme qui e domani si torna indietro e si prende l’asfalto per El-Oued e poi su al confine, che abbiamo la nave tra 2 giorni”.

Mugugni e qualche protesta, ma la mia teoria è conservativa, il deserto è sempre qui, possiamo tornarci l’anno dopo, e ancora quello dopo e dopo ancora, quindi perchè rischiare, con le macchine acciaccate, di star piantati in continuazione e perdere la nave? Già, lo spirito d’avventura. No, per me lo spirito d’avventura è un’altra cosa. Non si lega col rischio gratuito.

La sera del giorno dopo eravamo alla frontiera tunisina, Nefta un po’ di Km di fronte a noi. Uscire dall’Algeria fu abbastanza facile e rapido; arrivammo alla frontiera tunisina che erano circa le 22.

C’eravamo solo noi, nessun altro transitava sia in ingresso che in uscita. Pensavamo di fare in fretta e dormire nel palmeto di Nefta.

Alla nostra sinistra una costruzione in legno e dentro una luce accesa che illuminava una scrivania e una sedia.

Sulla sedia un poliziotto di frontiera.

Nessun altro. Scendemmo coi passaporti in mano e andammo alla finestra. Ci vide arrivare e ci fece cenno di tornare indietro, che sarebbe venuto lui.

Noi, seduti in macchina, fermi davanti alla sbarra abbassata e lui seduto alla scrivania, e si fecero le 22:30, si fecero le 23:00, poi le 23:30. Nessuno che transitava. Colpo di clacson per richiamare l’attenzione del poliziotto, lui fece cenno di aspettare.

Mezzanotte, uscì dalla costruzione, venne da noi e ci chiese i passaporti, poi con i documenti in mano tornò alla scrivania

Mezzanotte e mezza, l’una, l’una e mezza, qualche minuto prima delle due rieccolo e ci chiese le carte di circolazione.

Tornò alla scrivania. Noi svegli e lui sveglio, lo sorvegliavamo, non scompariva, non dormiva, era sempre seduto alla scrivania a scrivere, leggere, spostare carte, fumare una sigaretta, aprendo e chiudendo la finestra per far uscire il fumo.

02:00, 02:30……….03:00, verso le 3 e mezza, 4 meno un quarto, risaltò fuori. “Aprite le macchine, ispezione, portate qualcosa dall’Algeria ??”

Che potevano portare dall’Algeria, due bottiglie di sabbia, i manufatti di Alemine…. “e un chilo di datteri” aggiunse Ermes

“L’importazione di datteri algerini è vietata in Tunisia” ci guardò minaccioso “dovete distruggerli”.

Vabbene, li avremmo buttati via. “No, non buttarli via, distruggerli”

O.k., iniziammo a mangiarceli, appoggiati io e Ermes al muso del Patrol, facevamo a chi sputava il seme contro la sbarra di confine. Lui tornò dentro e noi a mangiare e sputare.

Alle 6 in punto rispuntò fuori, ci mise in mano i documenti, sollevò la sbarra sputazzata e ci augurò un caldo benvenuto in Tunisia.

A Nefta una felice sorpresa, Carlo e Patrizia, vivi, vegeti e attapirati con la rimanente truppa di fuoriusciti, che avevano perso più tempo a perdersi e ritrovarsi che a gustarsi il viaggio. C’est la vie, in questo caso!!!

Comunque le nostre strade rimasero divise fino allo sbarco in Italia

L’undici gennaio 1992 sbarcavamo a Genova, dopo 3 settimane in Algeria.

L’undici gennaio 1992 ad Algeri con un colpo di stato, il ministro della difesa Khaled Nezzar costringeva alle dimissioni il presidente della repubblica Chadli Benjedid. Il potere veniva preso dai generali, contrari alla scalata al potere dell’integralismo, facendo scendere in campo quasi 200.000 soldati.

L’esercito creava l’HCE, l’Alto Comitato di Stato, un direttorio di 5 militari, e eleggeva Abdelmélik Banhabilès come nuovo presidente della repubblica, la cui unica funzione fu quella di abrogare le elezioni del 26 dicembre 1991, annullare la seconda tornata elettiva e di sospendere la Costituzione. Tre giorni dopo, il 14 gennaio, spariva la carica di presidente della repubblica e nasceva quella di Presidente dell’Alto Comitato di Stato, eleggendo Mohamed Boudiaf come capo dell’Algeria.

Mohamed Boudiaf sarebbe stato poi ucciso dal F.I.S. nel mese di giugno dello stesso anno.

L’Algeria aveva preso fuoco.

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