By Annuska Grisendi
Originally Posted Monday, January 20, 2003
ALGERIA Gennaio 2003
Da Oasi a Oasi
Da Djanet a Iherir
Testi e foto a cura di ANNUSKA GRISENDI
Prima notte nel deserto. Forse è per questo che mi sveglio molto presto, a notte ancora fonda; o forse è per il freddo intenso, da cui nemmeno il sacco di piumino riesce a difendermi. Passo i minuti (o le ore?) a guardare le costellazioni. Orione e le Pleiadi sono ormai basse sull’orizzonte, mentre sulla mia testa, un po’ verso nord, risplendono vivissime le due Orse con la stella Polare chiaramente distinguibile. Intanto da est sale lentamente un astro di una lucentezza mai vista, più grande e luminoso di qualunque altro. Non ho mai visto una stella così chiara e lucente. Sarà Giove? O Marte?
Siamo in quattro su un unico fuoristrada; alla guida Djaba, con l’abito azzurro e il shesh bianco che ormai ben gli conosco.
Usciamo dall’oasi di Djanet e prendiamo verso nord, in direzione di Zaouatallaz e Iherir.
Per ora seguiamo l’asfalto. Alla nostra sinistra scorrono le dune morbide e sinuose dell’erg Admer, dietro le quali si intravvede ben presto il profilo acuto di due bassi roccioni isolati, che i Touareg chiamano “Ifafan Tajet” (“le mammelle dell’asina”), fra i quali passa una pista che conduce a Tamanrasset.
A destra la piana di Ioufasaouad, limitata ad est dai massicci dell’adrar Adjeloho. In corrispondenza dell’oued Sersouf la strada piega verso sud per aggirare i monti; l’abbandoniamo e prendiamo a seguire l’andamento delle rocce e le tracce delle carovane, che proseguono a zig zag su un vasto pianoro in direzione della fila di acacie e tamerici dell’oued Tanahr.
Il fondo dell’oued è occupato dagli eresouten (sing. eresou), grovigli di radici , che spuntano contorte come grosse serpi brune dai monticelli di sabbia accumulatasi al di sopra.
Shesh: lunga banda di stoffa variamente colorata che i tuareg si avvolgono intorno al capo.
Erg: distesa di dune.
Adrar: massiccio roccioso.
Oued: letto disseccato di un antico corso d’acqua.
Ci fermiamo alla ricerca di legna per il fuoco di questa sera. Con un po’ di fatica riesco a dissotterrare alcuni pezzi abbastanza grossi che mi paiono adatti, ma Djaba dice che no, non vanno bene.
Non è la prima volta che accade, ma questa volta non mi accontento di abbandonarli; voglio capire perché. Il Sahara non è più per me un paesaggio di cui godere esteticamente; io lo sento come terra amata, la cui lontananza crea il vuoto, l’inquietudine e l’ansia di tornarvi, per sentirsi di nuovo in pace. E quando ci sono, sento il bisogno di entrare anche nei suoi più piccoli segreti, per sentirmi sempre più compenetrata della sua grande anima.
“Questa legna è bagnata!”. Per un attimo mi pare un’assurdità: come può essere bagnata, se qui non piove mai? La guardo e capisco: la polpa del legno è di color verde pallido, striato di venature rosse; questa radice è ancora viva! E’ il miracolo della vita che resiste alle condizioni più inospitali; è la vita segreta e tenace del deserto, che si manifesta, a chi ha occhi per vederla, nelle acacie, nelle tamerici e nei cespugli che popolano gli oued, nei topolini che si avvicinano senza paura ai bivacchi, nei fenek e nelle gazzelle che fuggono veloci, nella peluria verde che spunta sulle dune appena cade un po’ di pioggia, negli oleandri rigogliosi che fanno corona alle guelta, nei fiori che spuntano qua e là persino fra le rocce del Tassili, nei piccoli scarabei scuri (iglehan) che trasportano con fatica e lentezza sulla sabbia una preda più grande di loro.
Attraversiamo l’oued Tanahr, lentamente, cercando i passaggi praticabili fra gli eresouten, poi continuiamo a procedere sul pianoro, aggirando da est Zaouatallaz (Fort Gardel durante la dominazione francese). Un tempo qui la gente moriva di fame, perché vi crescevano soltanto delle piccole tamerici (izaouaten); per questo il paese è stato chiamato Zaouatallaz.
Fra le rocce che orlano ad est la piana se ne distingue una, che ha la forma di un dito puntato verso il cielo; i touareg la chiamano daher, dito (in arabo: adaouda). La leggenda narra che, quando, in tempi lontani, il kell Ahaggar veniva ad attaccare il kell Djanet, questa roccia faceva da punto di riferimento: daher in tamashek è “ciò che indica”. Allora i guerrieri più forti di Djanet vennero tutti insieme per tentare di abbatterla, portandosi una grande quantità di datteri, che dessero loro le energie necessarie ad affrontare l’immane sforzo; ma per quanti datteri mangiassero, le loro forze non furono sufficienti, e il “dito” si erge ancora, solitario, inconfondibile.
Procediamo ora lungo l’oued Ouareren, passando vicino a capanne di nomadi apparentemente abbandonate; gli abitanti sono con le pecore o i cammelli al pascolo. Lo lasciamo per imboccare in direzione nord l’oued di Zaouatallaz, ampio e verde di acacie e tamerici, racchiuso fra due cordoni di rocce massicce, fra le quali emerge qua e là qualche roccione appuntito, poggiante su coni di detriti. Anche qui tanti eresouten e al limite ovest della vegetazione altre zeriba, questa volta abitate. Una donna si nasconde al nostro obiettivo. E anche tante piante di tora, con le loro foglie carnose, ma senza i bellissimi fiori violacei, così puntualmente e teneramente descritti da Th. Monod (Th. Monod, Méharées. Ed.Babel): ancora non è stagione.
Calotropis procera
Fenek: volpe del deserto.
Guelta: piccolo bacino di acqua piovana incassato fra le rocce
Kell: tribu
Tamashek o tamahak: lingua berbera parlata dal popolo tuareg
Zeriba: capanna tonda di fango con il tetto di foglie di palma.
Tora: Calotropis procera
Raggiungiamo di nuovo la strada quasi sotto la falesia Tin Taharadjli, la falesia “dell’artemisia”; la strada ora si inerpica fino a arrivare in quota sull’altopiano del Tassili.
A mano a mano che saliamo la vegetazione si fa più abbondante e rigogliosa: cespugli verdissimi, costellati di fiori di diversi colori, in questo passaggio di rocce che avanzano da est come prue e ciminiere di grandi navi. E tanti nomadi con le loro bestie al pascolo.
In ottobre è piovuto e l’altopiano è rifiorito.
Anche l’oued Dider appare tutto verdeggiante e ospita cammelli e pecore in quantità, vigilati da tuareg, visibili a distanza per i loro abiti colorati e i loro immancabili shesh.
Lo percorriamo fino al grande roccione, accucciato come il dorso di un enorme animale, sul quale pastori di un’epoca remota hanno inciso uno splendido esemplare di bue col corpo fittamente decorato di spirali, simbolo frequente nei graffiti del Tassili, ma di significato oscuro. Molti altri graffiti, non tutti altrettanto evidenti, si intersecano e si sovrappongono, perché cacciatori di un’epoca ancor più remota hanno lasciato su questa roccia le tracce della loro vita e della loro spiritualità.
A piedi scalzi, per non danneggiarli, cammino lentamente, assorta nella scoperta e nella decifrazione dei segni che solcano la roccia in tutte le direzioni. Qui tre giraffe, due di profilo, affrontate, la terza al centro frontale: sono esili, altissime, hanno il corpo maculato. Appena discosto un rinoceronte: la roccia è scheggiata nella parte superiore, ma la parte anteriore del corpo e la testa danno l’idea dell’energia dell’animale che avanza con impeto.
Due gazzelle riposano accucciate e raggomitolate; una appoggia l’elegante testina sulla zampa anteriore allungata e pare che mi guardi con grandi occhi tondi.
All’estremità nord-est c’è un gruppo di figure umane disegnate con pochi tratti sobri e incisivi: sono diversamente atteggiate e sembrano parlare fra loro.
Pranziamo fra le rocce, a ridosso del grande sasso, a metà fra sole e ombra, perché il sole scotta, ma l’aria è frizzante.
Quindi ripartiamo in direzione di Iherir, lasciando ben presto la strada principale, che conduce a Illizi, e inoltrandoci su un altopiano roccioso e scarno, di color bruno uniforme, solcato da canyon, come profonde ferite scavate dall’unghia di un animale preistorico.
La durezza e la pietrificata solitudine del paesaggio esercitano un fascino inquietante: mi pare che in esso si annidi una segreta, incombente minaccia. E’ una sensazione analoga a quella che ho provato la prima volta che ho percorso il Teneré, faccia a faccia con quel “nulla” che dà un senso di vertigine, estraneo com’è alla finitezza della nostra natura.
E’ con un sentimento di sollievo e di apertura dell’anima che scopro in fondo ad un canyon il corso verdeggiante di un oued, che ospita un villaggio di zeriba: Idaran.
Dall’alto di un terrazzamento roccioso seguo con gli occhi la linea verde delle palme e scopro le capanne tonde col tetto di foglie di palma, che a mala pena si distinguono dal colore della terra e della roccia. Di fronte un altro terrazzamento roccioso a fitta stratificazione orizzontale chiude il solco profondo della valle.
Si sta avvicinando il tramonto; la luce si fa più calda, i colori più pastosi; anche la durezza del paesaggio si stempera un poco, e quando siamo in vista di Iherir, l’anima è pacificata e rivede con gioia apparire in fondo all’oued le zeriba accovacciate sulla polvere del loro stesso colore e come protette dalle alte rocce piatte che bordano la vallata. All’ingresso del villaggio un ragazzino gioca facendo rotolare un vecchio pneumatico
sulla sinistra un piccolo campeggio di zeriba disposte a cerchio e chiuse da un muro; già ci ho dormito nelsettembre scorso ed è con piacere che rivivo l’atmosfera dolce e protettiva che si respira racchiusi nello spiazzo tondo, mentre si fa buio e le stelle si accendono e la cena cuoce.
Ténéré: nome con cui noi designiamo una distesa desertica completamente piatta; in tamashek il termine significa “nulla” e designa il deserto tout-court.
Come sempre un tuareg arriva a farci visita; si siede con noi, ci prepara il chai e scopro che ci conosciamo già: è la stessa persona che venne a farci visita dopo cena in settembre; si chiama Ibrahim e si ricorda di quella serata e delle patate che abbiamo cotto sotto le braci.
Ibrahim è una guardia del parco di Iherir e questa mattina ci accompagna lungo l’oued Aouharit, lo stesso che ho visto dall’alto e che ospita il villaggio di Idaran: lo potremmo raggiungere a piedi, ma occorrono ore di marcia e il nostro itinerario ci porta altrove.
E’ un peccato! Questo oued si svela a poco a poco come un Eden perduto: il fondo stretto fra le rocce che scendono a terrazze è percorso da un ruscello, che si fa più ricco di acqua a mano a mano che ne risaliamo il corso, e si allarga in piccoli bacini verde-azzurri, limpidissimi.
Palme, oleandri ed “erbe della pampa”, coi loro alti steli coronati da leggeri piumini, ne riempiono il letto; bassi ciuffi di erbe palustri fioriscono di batuffoli bianchi, cotonosi e soffici; la luce è trasparente e chiara e sbianca le rocce, che degradano fino ad essere lambite dalle acque, per specchiarsi in esse.
A malincuore ci lasciamo alle spalle questo paradiso, per riprendere il viaggio a ritroso.
Quando raggiungiamo di nuovo l’altopiano, all’altezza dell’oued Dider Djaba abbandona la strada e si addentra nel corso dell’oued in direzione ovest.
Non so il motivo della deviazione, ma non faccio domande; da tempo mi sono abituata a non chiedere il perché di questi inattesi cambiamenti di rotta: mi fido dei miei amici tuareg e della conoscenza che hanno del “loro” deserto, e so che ogni uscita dai percorsi abituali non può che condurre alla scoperta di un paesaggio che non conosco e che, oltre che nuovo, non potrà che essere bellissimo.
Ma qui il terreno è piatto, non pare proprio che questa deviazione abbia una meta. Djaba procede senza un riferimento preciso, cambiando spesso direzione; sembra che avanzi come un cane da caccia, seguendo il fiuto, alla ricerca di qualcosa che da qualche parte ci deve essere.
E c’è! Dopo qualche minuto avvistiamo dei ripari fatti da nomadi e vicino un gruppo di persone: sono tre donne velate di nero e due bambine di circa 4 e 6 anni. Le donne sono intente a confezionare un tappeto: hanno fatto un mucchio di sabbia oblungo, vi hanno disteso sopra una coperta di lana e sulla coperta hanno teso tre pezzi di stoffa colorata, rossa ai lati, verde al centro; ora stanno trapuntandoli con grossi fili di lana di colore giallo, viola e fuxia. Un’altra stoffa leggera di colore azzurro è stesa a parziale protezione del lavoro, che richiederà diversi giorni.
Quando avranno terminato di impunturare questo lato, gireranno il tappeto e sul lato opposto stenderanno e cuciranno la leggera stoffa azzurra che ora serve da protezione. Un tappeto simile è steso sul pavimento del mio studio, dono di “Aziz”, il cuoco del trekking del marzo 2002.
Ci fermiamo a parlare con loro, facciamo qualche foto e alla fine regalo loro del collirio in confezioni monodose, mostrando loro come si usa. Le bambine seguono i nostri movimenti timide e attente; la più grandicella ci osserva col visino imbronciato e le sopracciglia aggrottate.
Una delle donne, la più silenziosa, ha bei lineamenti, regolari e dolci.
Riguadagnamo la strada ed essendo ormai mezzogiorno, ci fermiamo per un picnic, insinuandoci fra le rocce che sembrano avanzare da est come prue di navi: il posto si chiama “Teheregghelé”; siamo a circa 1436 m. di altitudine.
Chai: the
Scendendo poi di nuovo dalla falesia “dell’artemisia”, vedo allungarsi verso sud-est la piana chiamata “Tarzaroukou”; all’orizzonte vaghe forme di colline sfumate dalla lontananza e sfocate dalla luce abbacinante del meriggio. Tarz in tamashek vuol dire “spezzare” e aroukou è il basto dell’asino: la piana è sabbiosa, gli asini vi affondano e, cadendo, il basto si rompe. (f.tarzaroukou a breve on line NDR)
Lasciamo di nuovo la strada e percorriamo una piana sabbiosa disseminata di grigi sassi stondati; sulla destra, lontano, il profilo del monte Tazat; di fronte, in distanza, isolati coni rocciosi; ad est sfilano massicci che si elevano verticalmente su ventagli di detriti.
Fra piccole dune cammelli pascolano; un piccolo succhia il latte dalle poppe materne. Ancora sassi sparsi e rare acacie, mentre cominciano a profilarsi verso sud-ovest le curve morbide dell’erg Admer e lunghe nubi striate avanzano. Alla nostra sinistra le propaggini estreme dell’adrar Adjeloho si frantumano in torri mozze di colore scuro, inframmezzate da corridoi sabbiosi, che chiudono lo scenario come una barriera, mentre lo spazio sembra approfondirsi all’infinito oltre le dune dell’erg. E noi corriamo in questo spazio irreale, mentre la luce del tramonto colora di sé la sabbia e la roccia, addolcisce le forme, ridà spessore e profondità al paesaggio.
Quando puntiamo verso est, entro uno dei corridoi fra le rocce, lunghe ombre scendono dalle scarpate di sinistra e si proiettano sul fondo sabbioso. Davanti a noi una corona di massicci chiude la visuale e una duna dalla curva morbida, come il fianco di un corpo femminile, si adagia ai loro piedi.
Il fondo è cosparso di cespugli gialli che occupano la sommità di piccolissime dune e, mentre procediamo, un roccione sembra avanzare verso di noi come un’alta prua; se la duna, che ne lambisce la base, avesse il colore verde dell’erba, crederei di essere sotto il Sass Pordoi. Quando ci arrestiamo per fare il campo, siamo completamente circondati dalle rocce, ma ad ovest, all’apertura della vallata, intravvediamo le dune dell’erg.
Questa notte il deserto parla il chiacchiericcio sommesso di bimbi, che nel buio bisbigliano e ridono sottovoce, per non farsi sentire: è la voce di un’aria leggera che sfiora il viso e gioca fra le rocce e i bassi cespugli. L’ascolto distesa accanto al toyota, con gli occhi pieni di stelle.
Prima di addormentarmi ne vedo cadere tre; una saetta veloce e sottile come una freccia. A notte fonda mi sveglio; il cielo è velato.
Questa mattina lunghe striature di cirri sfumati percorrono l’azzurro. Prendiamo la via dell’erg e di nuovo assaporo il gusto di affondare i piedi nudi nella sabbia tiepida; ma ben presto imbocchiamo il grande oued Essendilene: a destra e a sinistra alte rocce verticali paiono dita scarnificate, puntate verso il cielo in uno struggente desiderio di ricongiunzione, in un gesto di pace.
Al campo, dopo il pranzo, rimango sola per poco. Sulla mia testa lunghi veli leggeri, impercettibilmente trascinati dal vento, opacizzano l’azzurro e dietro i veli naviga il fantasma della luna crescente. Cinque minuti di solitudine e di silenzio per guardare il cielo e piangere dentro di precoce nostalgia.
Poi, mentre gli altri vanno a piedi alla guelta e Djaba parla con Majid, che è venuto a salutarci, mi allontano dal campo incontro al sole che cala, fra le piante di tora e le tamerici che coronano i monticelli sabbiosi che costellano numerosi il fondo dell’oued . E subito alle mie spalle voci e rumori affondano nel silenzio; solo ronzio di insetti e gracidare di corvi.
Sulla sabbia intiepidita dal sole minuscole piante dallo stelo violaceo, con foglie piccolissime di un verde pallido e vellutato, e qualche margherita gialla su piccoli cespugli carnosi di un verde intenso, che hanno la forma di coralli marini.
Dalle capanne dei nomadi raccolgo voci sommesse di donne e balbettii di bimbi; un agnello bela in non so quale anfratto.
Questa notte il cielo è povero di stelle.
Una pecora bela ininterrottamente chiamando il suo cucciolo.
Ogni volta che si avvicina il distacco, lo soffro come una lacerazione e la solitudine mi attanaglia.
Qualche pecora viene a cercar cibo al nostro campo.
La mattina presto l’oued è tutto un belare e un abbaiare di cani. La pecora che ha chiamato tutta la notte si acquieta, ricongiunta col suo piccolo. Quando il sole spunta, le donne coi loro abiti colorati si mettono in cammino col gregge. Majid viene a salutare; mi aveva invitato a prendere il the ieri sera, ma Djaba si è scordato di dirmelo: “Dommage!….. A’ la prochaine”.
Prima di uscire dall’oued Essendilene, percorriamo un corridoio fra le rocce sulla sinistra e sbuchiamo nell’oued Ell ; ne seguiamo il corso superando l’asfalto e, prima di addentrarci di nuovo nell’erg Admer, ci fermiamo a cercare legna.
Col passare delle ore la luce fra le dune si fa abbacinante, cielo e sabbia si sbiancano, i volumi si appiattiscono; il sole scotta, ma all’ombra è quasi freddo. Dall’erg vediamo in distanza l’ingresso di Tikobaouin, un canyon fra alte pareti di roccia massiccia: l’ho percorso quest’anno per la prima volta, nell’ora del tramonto avanzato, quando la luce è diffusamente dorata e calda, senza più contrasti di luci e ombre, e ne sono rimasta affascinata.
Vaghiamo tutto il giorno di duna in duna, di gasso in gasso, insabbiandoci talvolta e soffermandoci nei punti più suggestivi; si stenta a credere quanto sia mobile e vario il paesaggio dunare: fermi nello stesso luogo basta ruotare su se stessi per vedere prospettive totalmente diverse, e quasi ad ogni passo il paesaggio si modifica. Al tramonto percorriamo un esteso pianoro sabbioso, che era il letto di un grande lago, chiuso per tre lati fra le dune, ma aperto verso ovest, dove a chiudere l’orizzonte si profila la falesia del Tassili. Ci fermiamo in un avvallamento che ci nasconde in parte il pianoro sabbioso e dà risalto al profilo fortemente arcuato di un’alta duna, ai cui piedi siamo accampati.
Il cielo è di nuovo terso; la notte le stelle sono smaglianti. Vorrei dormire in disparte, lontano dal campo, in un punto da cui gli occhi spaziano a 360°, ma la temperatura che scende rapidamente consiglia di ripararsi vicino al fuoco; la visuale è comunque ampia nonostante la massa scura della duna.
E’ l’ultima
Stelle cadenti attirano continuamente lo sguardo, che cerca di spaziare per le profondità buie per non perdersene nessuna, da quelle grandi e lucenti come una cometa, alle più piccole, saettanti con la velocità di un fulmine. Ne conto almeno cinque prima che la cupola buia del cielo cominci a impallidire .
Gassi: corridoi sabbiosi che si insinuano fra le dune e permettono di aggirarle
Di solito non formulo desideri, affascinata dal miracolo di questo cielo, ma questa notte, l’ultima qui, sento l’emozione gonfiarsi dentro, vivo con anticipo il dolore del distacco e prepotentemente si fa strada il desiderio di tornare, di venire qui anche solo per morirvi, e questo chiedo ostinatamente alle stelle che filano in cielo.
La temperatura scende ancora; Djaba dorme con due coperte sopra il sacco a pelo, ma io sento freddo e quando vedo impallidire l’oriente, abbandono la mia “cuccia”, mi vesto e mi incammino incontro al sole che fra non molto sorgerà. Raggiungo il pianoro aperto e cammino fra le dune che lentamente emergono dal buio e riprendono colore e plasticità, come animali accucciati, risvegliati e riscaldati dalla luce solare.
Quando torno al campo tutti sono già desti. Una rapida colazione e comincia il rientro. Una sosta, immancabile, a Tararart, per ammirarele “vaches qui pleurent”, poi di nuovo Djanet: le palme , il cielo azzurro dietro le rocce che bordano l’oued, le strade affollate di volti che conosco e che mi salutano. Faccio fatica a non prestare ascolto alla tristezza, mentre stringo le mani che si tendono e guardo gli occhi cupi o ridenti, che anche senza parole dicono: “à la prochaine!”. Poi i bagagli, il tragitto per l’aeroporto, le formalità, l’imbarco.
L’aereo decolla e sotto di me vedo scorrere a ovest le dune dell’erg Admer, a est il corrugamento del Tassili; individuo le “mammelle dell’asina” e forse la sagoma del Tazat; gli occhi cercano le moli dei torrioni di akba Aroum. La nostalgia mi attanaglia e si scioglie in lacrime silenziose, mentre l’aereo mi porta lontano da questo paese, il cui amore è più prepotente ed esclusivo di quello di qualunque amante e rimarrà depositato in fondo all’anima nello sgranarsi lento dei giorni, in una inconsapevole, ostinata attesa del ritorno.
L’aereo entra in uno spesso strato di nubi e, quando ne emerge, raccolgo l’ultimo saluto del sole africano, un globo incandescente, striato da una sottile cintura di nubi, che incendia e insanguina il cielo prima di immergersi lentamente. Lo fisso finché non scompare; la sua luce mi riempie gli occhi, li acceca, e non vedo più null’altro.
Akba: canaloni di risalita che permettono di arrivare in quota sull’altopiano del Tassili