Originally Posted Sunday, September 25, 2005
Diario di viaggio nel sud dell’Algeria, Agosto 2004
Foto di Serena Cernuschi, Federica Sasso, Monica Marconi e Patrizia Messina
Testo di Patrizia Messina
Punti gps e tracce nel n° 4 di Sahara itinerari e Passioni
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Dopo 23 ore di navigazione e cinque giorni consumati ad annullare la distanza tra Tunisi e il sud dell’Algeria, finalmente l’arrivo a Tamanrasset. Anche se un famoso detto zen recita che “viaggiare è meglio che arrivare”, la visione in lontananza della città è emozionante e improvvisamente ha il potere di cancellare ogni traccia di stanchezza e sete. Decidiamo di fare una breve sosta all’ombra di un’ imponente acacia lungo la strada, quando vediamo un contadino con un enorme cocomero in braccio venirci incontro: ci spiega che desidera farci dono dei prodotti della sua terra per ringraziare Allah per l’insperato raccolto e perché il figlio, dopo una brutta caduta da un’impalcatura, si era salvato senza riportare gravi lesioni. Infatti, tra i popoli islamici è consuetudine portare alla moschea un piatto di cous-cous per ringraziare il loro Dio di un aiuto ricevuto e, probabilmente, essendo lui troppo lontano da un luogo di culto, ha preferito rendere noi partecipi dei suoi doni. Piacevolmente colpiti e inteneriti dalla sua straordinaria generosità, accettiamo e ringraziamo commossi. Già a qualche chilometro dal centro abitato, si riesce a vedere quella che in lingua touareg viene chiamata “adriane”; è una specie di “C” coricata, una fessura che interrompe il profilo delle montagne che circondano la cittadina. La nostra guida mi fa notare che gli abitanti di Tamanrasset, la considerano il loro simbolo e questo termine indica esattamente lo spazio vuoto che viene a crearsi tra i denti. Tamanrasset, Tamanghasset in lingua touareg, oppure affettuosamente accorciata in Tam, si trova a 1400 metri sul livello del mare nel cuore della regione montuosa dell’Hoggar e da sempre rappresenta il punto di partenza per le traversate nel deserto e il luogo d’incontro dei nomadi touareg. Negli ultimi anni, Tam ha conosciuto uno sviluppo impressionante: è diventata un’ attraente località turistica le cui caratteristiche abitazioni rosse in fango sono molto suggestive e pittoresche; un aeroporto congiunge la città con la capitale Algeri e il collegamento stradale è garantito dalla transahariana, una via asfaltata lunga ben 1950 Km che tocca Ghardaia, El Golea e In Salah. Arriviamo a Tam alle prime ore del pomeriggio quando la cittadina sonnecchia cercando ristoro e fresco all’interno delle proprie case; noi, invece, ci rechiamo all’incantevole campeggio situato ai margini del centro abitato e siamo letteralmente elettrizzati all’idea di poter fare una doccia e stendere in giardino il bucato appena lavato.
Dopo allegre chiacchiere e una tazza di caffè, alcuni di noi decidono di recarsi al vivace souk della città; la tentazione di scattare interminabili rullini di foto diventa per me fortissima ma il giusto rispetto nei confronti della popolazione locale ha il sopravvento. Così mi accontento di fotografare con lo sguardo e l’anima questi occhi scuri e impenetrabili incorniciati da metri di tessuto colorato. Al calar della sera l’atmosfera è rilassata e allo stesso tempo carica di attese per le giornate a venire; il gruppo viene invitato a mangiare un tradizionale piatto di cous-cous e ha il piacere di riassaporare il gusto autentico e genuino di pomodori e uva locale acquistati a Tazrouk, cittadina rinomata per la bontà della sua frutta e verdura. Il mattino seguente, con i bagagliai stipati di taniche d’acqua, carichi di carburante e spalleggiati da Azoum iniziamo il nostro itinerario. Azoum, smilzo touareg con shesh bianco e abito azzurro, guida il fuoristrada senza l’ausilio tecnologico di “gps”; anzi, per ironizzare facilmente con una brillante e azzeccata battuta , utilizza soltanto il “tps” che sta a indicare “touareg position system”! Attraverso sentieri sconnessi e piste sassose, verso sera, quando le dune cominciano a sfumare nel cielo lattiginoso, arriviamo a El Guessour. Mentre siamo tutti indaffarati ad allestire il campo, avvertiamo un improvviso fruscio proveniente da una roccia: è una vipera lunga quasi un metro! Alcuni del gruppo accorrono curiosi e terrorizzati ma lei elegantemente si dilegua e ritorna a nascondersi veloce tra le rocce. La magia e la seduzione del luogo è indescrivibile: guglie, pinnacoli vertiginosi e immaginarie mongolfiere di roccia si stagliano verso il cielo stellato; è la notte di S.Lorenzo e ognuno di noi cerca speranzoso, con il naso all’insù, la scia di una stella cadente. Ma, in realtà, durante tutte le notti dell’anno, nel deserto africano, si possono scorgere fenomeni di questo tipo: l’assenza totale di sostanze inquinanti e di illuminazione artificiale permettono alle stelle di apparire visibili ai nostri occhi mentre attraversano la volta celeste. L’intensità delle emozioni aumenta quando il nostro flemmatico touareg comincia a preparare la cena; con gesti lenti e misurati impasta il pane che successivamente verrà cotto nella sabbia e sistema sul fuoco la pentola con le verdure mondate e tagliate accuratamente in piccoli pezzetti. Il dolce borbottio della zuppa che bolle e le braci incandescenti m’ipnotizzano e mi catapultano in una dimensione dove il tempo non esiste più. La serata si chiude con il solenne rito del tè e con la lettura di alcuni detti touareg che hanno la straordinaria capacità di infilarsi tra le pieghe più profonde del cuore. Ora mi è chiaro quanto avevo letto prima di partire: “ Dio ha creato per l’uomo paesi pieni d’acqua dove vivere e deserti di sabbia dove trovare la propria anima”.
Il mattino seguente raggiungiamo Tin Akescheker; inevitabili i primi insabbiamenti ma anche qui il paesaggio stupefacente e irreale lascia senza fiato: lunghe dita di roccia che spuntano qua e là creano un affascinante incrocio di luci e ombre sulla sabbia dorata. Riuscire a rintracciare un vecchio pozzo abbandonato di cui, da molti anni, esploratori francesi e tedeschi avevano perso i punti di riferimento, era un nostro grande desiderio; ebbene, grazie all’esperienza di Azoum, siamo riusciti a scovare tra le piante il pozzo di In Ebeggui. La gioia è davvero tanta, anche perché abbiamo portato a termine il tentativo di individuare sia il vecchio che il nuovo pozzo. Poco lontano dal pozzo, quello che a prima vista poteva sembrare un miraggio, si trasforma in realtà: appare una magnifica guelta, un laghetto formatosi dopo le piogge con ai lati centinaia di impronte di animali che formano disegni simili a geroglifici egiziani. La nostra guida cita il detto touareg: “Aman iman” ossia “L’acqua è vita”. Ma ancora altre emozioni si aggiungono: nel tardo pomeriggio, dopo aver percorso interminabili piste sassose, inaspettatamente, davanti ai nostri occhi, si spalanca l’infinito. Siamo nel oued Tin Tarabine : una distesa interminabile di cipria gialla completamente piatta arroventata dal sole. Un oceano di sabbia senza alcuna increspatura dove la linea dell’orizzonte spacca esattamente a metà la terra e il cielo e soltanto volgendo lo sguardo da destra a sinistra si è in grado di abbracciarne l’immensa vastità. Pervasi da un indicibile e contagioso senso di libertà, corriamo felici non più in fila indiana ma sfrecciando con le nostre auto una accanto all’altra. A Ti eten, ultima tappa prima del tramonto, incontriamo il sito dove possiamo ammirare le scimmie pietrificate; è incredibile: sono ancora visibili il cranio e la mandibola inferiore!
La giornata si conclude a Tahaggart; nonostante l’impegno per arrivare prima del calar del sole, a causa di alcuni insabbiamenti, ci accorgiamo che è tardi per poter scattare delle foto con la giusta luce. Tuttavia, il paesaggio è di una bellezza commovente: la luce rosata della sera sfiora guglie e spigoli di roccia nera, e l’intreccio di ombre ai piedi di mucchi di pinnacoli affastellati l’uno sull’altro, aggiunge enorme fascino e illimitata magia al sito. Tutti decidiamo di svegliarci prima del sorgere del sole per approfittare della luce morbida dell’alba ma il mattino seguente una densa ed opalescente foschia toglie nitidezza al paesaggio; risaliamo sui fuoristrada e poco dopo troviamo, allungata sui fianchi di una duna, una tomba pre-islamica risalente al periodo neolitico ossia a 6000 anni A.C. Lungo il tragitto, incontriamo spesso lenti dromedari e flessuose gazzelle che sentendo il rumore delle auto accelerano l’andatura; dal finestrino osservo in continuazione il cielo turchese dove soltanto una manciata di nuvolette, semplici e nitide come nei paesaggi delle stampe medievali, interrompe la sua lucentezza. Arriviamo presto all’Erg Kilian: sono veramente felice perché ho abbastanza tempo per riuscire a salire sulle soffici dune e godermi il tramonto infuocato del sole. All’ora di cena mi viene chiesto di cucinare un piatto italiano per le nostre guide e per Azoum; valutati gli ingredienti disponibili, decido per un risotto al pomodoro che, non sapevo ancora, mi avrebbe fatto apprezzare ancora di più la semplicità del concetto di tempo nel Sahara: accendere con fatica un piccolo fuoco con la legna, assestarvi sopra una pentolaccia di alluminio, rimestare il cibo con secolare lentezza senza tenere minimamente in considerazione i tempi di cottura attuali, sono gesti che possono suscitare attimi di rara intensità. Sarebbe magnifico assaporare sempre, in ogni viaggio, queste forti sensazioni perché hanno la capacità di spogliarci bruscamente della veste di turista spettatore: sinceramente, non chiedevo di meglio.
Come ogni sera, prima di andare a dormire, ad Azoum viene chiesto di prepararci il tè; ci sediamo a cerchio attorno al fuoco e rimaniamo incantati ad osservare la sua innata precisione nel travasare il liquido scuro dalla teiera smaltata nei piccoli bicchieri di vetro. Come ogni sera, le uniche due fonti di luce diventano le braci e le stelle; stelle talmente vicine al nostro sguardo che sembrerebbe possibile raccoglierle con la mano. Ci fermiamo il tempo per qualche piacevole risata e qualche divertente aneddoto e poi, sotto una coperta di fulgide stelle, arriverà per tutti il sonno ristoratore. I paesaggi incontrati verso l’oued Tiririne e Tin Tiririne sono un alternarsi di sabbia di un deciso color ocra che sembra racchiudere verdi e sottili striature e ampie distese di piccolissimi pinnacoli neri appuntiti. Troviamo il pozzo di Tin Tiririne; accaldati, ne approfittiamo per far scendere più volte un secchio di plastica e bagnare i panni delle ghirbe. Ci rinfreschiamo e riempiamo qualche tanica prima di riprendere il cammino verso l’Erg d’Admer. L’ultima prova prima di montare il campo consiste nello scendere da una duna ripidissima; per alcuni di noi rappresenta la prima ardua discesa mentre per altri che sono già stati nel deserto del Murzuq in Libia non è una sfida così difficile… Io scelgo di scendere a piedi scalzi: il desiderio di sentire il solletico della sabbia è irresistibile. Mentre commentiamo scherzosamente le discese di ogni fuoristrada, arriva all’improvviso un vento fortissimo; dura solo qualche minuto e poi se ne va per un’altra direzione ma ci lascia tutti con gli occhi impolverati. Ancora un campo tra le dune, mi rendo conto di non averne mai abbastanza: silenzio assoluto, pace interiore. E ogni mattino, quando la sabbia si tinge lentamente di un intenso e luminoso color arancione, in religioso silenzio assisto rapita al sorgere del sole dietro ai cordoni delle dune. Partiamo presto per la città oasi di Djanet, centro principale ai piedi dell’altipiano calcareo del Tassili N’Ajjer situato a 2000km a sud est di Algeri.
La cittadina racchiude armoniosamente quattro varianti di colori: il bianco accecante delle case, l’azzurro turchese delle porte, il verde intenso delle palme e il grigio delle alture rocciose; lungo la via principale, si alternano bizzarri empori di ogni genere, colorati caffè e bancarelle di artigianato locale. Arriviamo verso mezzogiorno al camping posto accanto all’ufficio postale della cittadina e nel pomeriggio, ritemprati da una doccia e da un delizioso pranzetto cucinato dal cuoco del campeggio, riprendiamo i nostri mezzi per andare ad ammirare alcune incisioni rupestri e in particolar modo quella raffigurante la mucca che piange per il magro raccolto. Lungo una strada sterrata e sabbiosa, individuiamo, accanto ad alcune piante di calatropis di un verde brillante, una prima incisione raffigurante una mucca; proseguendo, incontriamo una tomba a chiavistello del 6000/ 10000 A.C contenente sicuramente un uomo disteso in posizione fetale seppellito con le sue armi da guerra. E finalmente, poco dopo, giungiamo nei pressi della tanto attesa incisione della mucca con l’eloquente lacrima. Sulla strada del ritorno per Djanet, passiamo accanto ai resti di una pista costruita dai francesi nel secolo scorso per attraversare il deserto; la calda luce del tardo pomeriggio ne accarezza le pietre appuntite e alcune lingue di sabbia dorata sembrano colare giù dalle rocce vicine. Il resto della giornata viene utilizzato per i rifornimenti di acqua e carburante poiché ci aspettano tre giorni di viaggio solitario nel Tadrart. Il mattino successivo, prendiamo la pista per Ghat e nelle prime ore del pomeriggio ci infiliamo attraverso un paesaggio lunare di grande bellezza che racchiude giganteschi canaloni, gole profonde, foreste pietrificate e curiose formazioni calcaree provocate dalle erosioni. Sabbia e roccia: un coreografico alternarsi di colori e forme spettacolari. Il Tadrart è anche una regione tra le più ricche al mondo d’arte preistorica: vi sono migliaia di pitture rupestri che risalgono al 6000 – 10000 A.C circa e che forniscono una testimonianza della vita della regione quando era una zona popolata da animali come elefanti e giraffe.
Il periodo più antico a cui possono essere collegate è il periodo dei Cacciatori e in successivo ordine cronologico quello delle Teste rotonde, del Bovidiano, del Cavallo e da ultimo del Cammellino che risale ai primi secoli dell’era cristiana. Inaspettatamente, la sera di Ferragosto incontriamo nei pressi dell’oued Tin Djerane un gruppo di cinque motociclisti che avevamo scortato fino a Tamanrasset; l’emozione e l’entusiasmo per questo “scontro” in pieno deserto ci contagiano tutti, tanto da decidere di preparare il campo prima del previsto per riunirci tutti insieme. Circondati da irreali castelli di pietra rischiarati solo dalla luce delle stelle, ci raccontiamo i momenti emozionanti e le difficoltà del nostro percorso e, arrivando dalla direzione opposta alla nostra, ci anticipano l’incantevole bellezza dei paesaggi che scopriremo nella giornata successiva. Alle prime ore del mattino seguente ci salutiamo dandoci appuntamento a Tunisi e riprendiamo il nostro viaggio nel Tin Merzouga. Ammiriamo stupefatti elefantiache e mastodontiche rocce cupe che spuntano da dune di sabbia morbida e lucente, prodigiosi archi e insolite strutture di architettura immaginaria che svettano nel cielo azzurro macchiato da candide nuvole. Rintracciamo incisioni e dipinti rupestri nascosti sotto le rupi ed esaminiamo i resti di antiche mole e utensili preistorici disseminati sulla sabbia. L’ultimo campo incastonato tra le dune è velato da una lieve malinconia ma il sole che scivola via incendiando i Monti Gautier ci consola e ci addolcisce l’animo.
Nei giorni successivi, siamo costretti a modificare l’itinerario poiché, per motivi di sicurezza, non è possibile rientrare su Tamanrasset; pertanto, ritorniamo al camping di Djanet e scegliamo di passare per Illizi anziché dalla transahariana. Lungo la strada verso il nord, veniamo invitati a prendere un bicchiere di tè a casa di una guida conosciuta in un viaggio precedente; sciami di bambini dagli occhi di bianca madreperla e donne avvolte in stoffe cangianti, fanno capolino nella stanza refrigerata da un rudimentale condizionatore ad acqua. Dopo aver lasciato una scatola di medicinali e ringraziato per l’ospitalità, riprendiamo il percorso di rientro verso la Tunisia. Alla vista di ogni barrage, speriamo in un’ispezione veloce e senza alcun contrattempo; mi rendo conto che se durante le prime giornate riuscivamo a sopportare pazientemente i continui ed estenuanti controlli della gendarmeria algerina, ora che il viaggio volge al termine, c’innervosiamo e iniziamo ad irritarci. Il nostalgico desiderio di immense dune diventa prepotente la sera dell’ultimo campo montato ai lati di un barrage; soltanto il comico risveglio tra quattro cammelli che facevano colazione ai nostri tavoli, riesce a rendere meno amaro il ritorno. Oltrepassiamo la frontiera algerina al tramonto: le formalità sono più veloci e sbrigative dell’andata e pertanto, riusciamo ad arrivare a Tozeur, in territorio tunisino, per l’ora di cena.
L’ultimo giorno prima dell’imbarco per Genova, il gruppo si sfalda; poiché ognuno di noi può decidere liberamente come impiegare la giornata, mi spingo fino alla Medina di Tunisi con il desiderio di perdermi nel dedalo ingarbugliato di viuzze nel souk. Dopo essermi infilata attraverso una miriade di botteghe grandi quanto un armadio ed essere uscita dalle stradine più commerciali e turistiche, scopro euforica tre negozi storici di fez , il classico copricapo risalente ai tempi dell’impero ottomano, e un’antica libreria. L’acquisto immediato di cinque libri dedicati all’esplorazioni e ai fortini nel Sahara, aggiusta la traccia malinconica lasciata dalla fine del viaggio e fa sognare e fantasticare a occhi aperti la magia del prossimo.