By Piero Priorini
Originally Posted Tuesday, August 28, 2012
Addio, Marocco!
Nel 1997 acquistai un vecchio Ranger Rover e scoprii il fascino del fuoristrada. Nel ’98 – venduto il Ranger e acquistata una Frontera-Isuzu – visitai per la prima volta la Libia e subito dopo, a seguire, la Tunisia, la Turchia, l’Islanda e poi la grande Algeria. Così, quando nel 2002 decisi di visitare il Marocco, mi sentivo sufficientemente esperto per tentarlo in solitaria con la mia compagna di allora. Avevo appena letto “La sabbia in me” di Robo Gabraoun, che lo aveva attraversato e visitato già tre anni prima, ed ero rimasto affascinato delle sue descrizioni di alcuni paesaggi inusitati, delle persone incontrate e di alcune altre sue esperienze. Lo contattai via mail e lui, gentilissimo, mi mandò alcuni consigli e molti dei suoi waipoint (di tracce, all’epoca, neanche a parlarne, almeno per me). Il nostro viaggio fu bellissimo e il Marocco soddisfece tutte le nostre aspettative, nonostante il fatto che alcuni luoghi, da Roberto caldamente raccomandati, fossero già caduti nell’oblio dei “Tempi Passati” spazzati via dal Moloc dei Tempi Moderni.
Passarono molti anni. Io continuai a viaggiare in fuoristrada, spingendomi fino al Perù, al Cile e alla Patagonia. Quando poi conobbi Raffaella, la mia attuale compagna di vita, il secondo viaggio che realizzammo insieme fu un memorabile giro del Senegal e del Mali.
Nel 2007 proposi a Raffaella di cominciare a portare con noi anche sua figlia, Giulia, che allora aveva appena compiuto nove anni e, come “battesimo” al deserto, pensai di organizzare un viaggio in solitaria fino alla Mauritania. Di passaggio, avrei mostrato loro prima il Marocco atlantico (Rabat, Essaouira, Plage Blanche) e, al ritorno, quello più interno (Marrakech, Fès e Chefchaouen). Così facemmo e, ancora una volta, il fascino del Marocco restò scolpito nei nostri cuori. Registrammo solo un paio di perplessità: a Rabat sembravano prossimi i lavori per una sorta di metropolitana scoperta e la costruzione di un porto turistico proprio sotto la rupe della Medina. E a Sidi Ifni, quando tentai di rintracciare l’inizio della pista che anni prima mi aveva condotto a Plage Blanche, dovetti percorrere cinque chilometri di una carreggiata sterrata che aveva tutta l’aria di poter essere asfaltata da un momento all’altro. L’incubo finì velocemente. Ritrovai la pista solitaria e, ancora una volta percorsi il bagno asciuga sotto la gigantesca nave “spiaggiata” che avevo incontrato cinque anni prima. Poi la magia di Plage Blanche… anche se questa volta, per raggiungere il grazioso ristorantino di Hassan – che nel 2002 ero riuscito a “conquistare” solo dopo tre disperati tentativi di scavalcare la duna che sbarrava la via al terrapieno sul quale era stato costruito – questa volta, dicevo, dovetti semplicemente percorrere i cento metri di sterrato che era stato realizzato sbancando la vecchia duna. Peccato! La ricordavo bellissima quella bianca duna che non voleva farsi scavalcare… Il tajine di pesce di Hassan fu comunque in grado di attenuare la mia delusione per il “furto di sabbia” avvenuto. Poi ancora quindici o venti chilometri di spiaggia, la risalita sulla scogliera dove aveva infuriato la guerra del Polisario, il passaggio stupefacente dell’Aourora e una corsa che sembrava senza fine sul piccolo nastro d’asfalto che portava fino a Dakhla e, infine, alla Mauritania.
Al ritorno, dopo la visita d’obbligo a Marrakech, mentre percorrevamo la strada verso Fès, mi presi la prima multa per eccesso di velocità (solo 10 km in più rispetto ai 60 prescritti) grazie ai nuovi radar portatili di cui la polizia sembrava essere stata dotata.
– Eh che palle… anche qui!
Tutto sommato, però, il nostro viaggio del 2007 che, attraversando il Marocco in andata e in ritorno, ci aveva condotto fino alla mitica Cinguetti, in Mauritania, fu un esperienza indimenticabile: non solo per Giulia, ma anche per me e Raffaella.
****
Perciò non dovrebbe stupire nessuno se, a cinque anni di distanza, dopo innumerevoli viaggi realizzati in Medio Oriente, in Africa centrale e in Africa del Sud, per queste vacanze di agosto 2012, decidemmo ancora una volta di tornare in Marocco e di portare con noi un equipaggio di amici alla loro prima esperienza africana.
La prima “stranita” la registriamo prima ancora di arrivare: il biglietto del traghetto Algesiras–Tangeri, andata e ritorno, ci viene a costare 360 euro. All’inizio crediamo di non aver compreso bene; poi ci rassegniamo all’evidenza. Ma ci sembra un furto che il passaggio dello stretto di Gibilterra, della durata di un’ora, su un piccolo e sgangherato traghetto possa costare così tanto. Soprattutto se paragonato al passaggio nave Civitavecchia–Barcellona, della durata di ventitre ore, con tanto di cabina per quattro persone, e che noi abbiamo pagato cinquecentocinquanta euro.
– Va bene così… dai… non importa… siamo in Africa.
Ma all’arrivo: sorpresa! Non siamo a Tangeri, dove da sempre eravamo sbarcati provenienti dalla Spagna… ma, appunto, siamo a Tangeri-Med, il nuovo porto di Tangeri, distante una quarantina di chilometri dalla città. Non fa nulla… Ci precipitiamo verso Fès, dove abbiamo appuntamento con i nostri amici che avevano traghettato il giorno prima, passando per Tetouan anziché per la più comoda autostrada. Siamo stanchi morti, perché da Barcellona abbiamo viaggiato tutta la notte per guadagnare un giorno. Ma ora siamo arrivati e, comunque, siamo felici.
Il giorno dopo visitiamo Fès: per i nostri amici è la prima città marocchina. Delusione. C’è il Ramadan. Le botteghe sono tutte chiuse. Della meravigliosa confusione della vecchia città medievale non c’è neanche l’ombra. Sapevamo che saremmo stati in pieno Ramadan. Altre volte il periodo delle nostre vacanze aveva coinciso con il mese sacro dell’Islam, ma eravamo stati per deserti e zone selvagge e la coincidenza non ci aveva mai pesato. Visitare il Marocco, però, significa immergersi nelle sue atmosfere, nella caoticità dei suoi mercati, nell’allegria e nella gentilezza dei suoi abitanti. Ci rendiamo subito conto che, almeno per questa volta, dovremmo farne a meno. Come se non bastasse i nostri nuovi GPS Montana 600, la meraviglia delle meraviglie della Garmin, non leggono le mappe che avevo caricato in Italia – in un articolo a parte racconterò bene questa storia – e ci rendiamo conto che saremo costretti a viaggiare quasi alla cieca. O con le carte stradali, come si faceva una volta. Per fortuna conosco bene il Marocco… e poi è solo il primo giorno… Il nostro viaggio sarà bello lo stesso. Hinchalla!
La mattina dopo ripartiamo diretti verso le piste della foresta dei cedri.
A Ifrane il mio amico viene beccato dai radar della stradale. Con una sgassata, a una rotonda, aveva superato i 40 km prescritti e aveva sfiorato i 50. Grave crimine.
Scendo dall’auto, lo raggiungo e do in escandescenze con le forze dell’ordine. Abbiamo esportato noi occidentali questo sistema di rapina che permette ai Comuni di arricchirsi alle spalle degli automobilisti. Le pattuglie si nascondono dove le velocità segnalate sono più basse, spesso impossibili da rispettare, e multano tutti quelli che non le osservano. Anche in Italia questo è lo sport preferito dei carabinieri e della municipale. Lo ripeto: questo sistema di banditaggio legalizzato lo abbiamo inventato noi occidentali. Ma gli africani sono stati i nostri migliori allievi e lo applicano senza scrupoli ad ogni opportuna occasione. Su www.sahara.it, il sito dei viaggiatori africani, ero stato messo in guardia. Sapevo che le pattuglie marocchine sarebbero state in agguato in ogni possibile incrocio. Avevo avvisato il mio amico. Ma a volte è difficile tenere desta l’attenzione e passare dagli 80 ai 60 ai 40 nel giro di pochi metri.
Come che sia: do in escandescenze, alzo la voce e li accuso di scarsa considerazione per il turismo. Senza volerlo devo essere riuscito a toccare un tasto dolente. Ci lasciano andare senza multa.
Vaffanculo! Imbocchiamo le strade secondarie che conducono nella foresta.
Altra amara sorpresa: le piste che avevo percorso dieci anni prima sono state tutte asfaltate.
E va bene lo stesso… il paesaggio è splendido, le strade sono deserte e le fonti di Oum-er-Rbia ci regalano una piacevole e rinfrescante passeggiata.
Proseguiamo per l’ardimentoso passo che ci condurrà a Imilchil e, nel tardo pomeriggio arriviamo sulle sponde del lago Tislit. La serata è magnifica. Le acque azzurre del lago, a 2500 metri di quota, sono immote e riflettono gli ultimi raggi del sole. Mangiamo un memorabile tajine al montone nel caratteristico rifugio situato sulla riva del lago, poi apriamo le Air Camping e ci infiliamo nei sacchi a pelo. La mattina è magnifica. L’aria è tersa e brillante. Noi ancora non sappiamo che sarà l’ultimo giorno di piena e completa soddisfazione dell’intero nostro viaggio.
Quando ripartiamo, alla volta delle gole del Dadès, superiamo i fertili campi di alta quota coltivati dalle popolazioni del luogo. Le persone, che qui vivono in isolamento per tutti i lunghi mesi invernali, sono curiose, ospitali, accoglienti, gentili e scherzose. Scattiamo una quantità incredibile di fotografie e avvertiamo il desiderio di fermarci qualche giorno.
Ah… se solo avessimo avuto una palla di vetro per prevedere il futuro… se solo avessimo dato retta al nostro istinto.
Invece, incalzati da un rigido programma che io stesso avevo compilato, per mostrare più Marocco possibile al mio amico, proseguiamo. La pista che conduce alle gole del Dadès è impressionante e il paesaggio ricorda, più di quanto non si possa credere, il Gran Canyon americano. Quando però arriviamo in basso i segni del turismo di massa sembrano via via più incalzanti. La pista diventa asfaltata e giganteschi hotel a quattro o cinque stelle – tutti in stile marocchino, bisogna ammetterlo – si affacciano sui punti dove il fiume ha più profondamente scavato la roccia. Fine dell’avventura.
Secondo il programma ci saremmo dovuti fermare nella zona ma le condizioni non ci soddisfano. Preferiamo forzare l’andatura e raggiungere Rissani, alle porte del deserto.
Man mano che ci avviciniamo, tuttavia, l’atmosfera diventa sempre più inquietante: in cielo si agita una nube di polvere e umidità che non avevo mai incontrato, almeno non in agosto, e tutti i paesi sembrano deserti e abbandonati. Va bene che c’è il Ramadan ma il senso di desolazione ci sembra eccessivo. Capiremo solo alla fine che, durante questo periodo sacro dell’anno islamico, il divieto di mangiare, bere, fumare e fare l’amore dalle 4 della mattina alle 18,45, spinge i maomettani, o almeno i marocchini, a dormire il più possibile di giorno e poi a festeggiare la notte. Ma non per strada, come di solito fanno, bensì in casa, in famiglia, tutti riuniti insieme. Il risultato, per noi, è quello di viaggiare in un territorio spopolato.
Quando arriviamo al campeggio vicino a Rissani, per altro nuovissimo e molto ben attrezzato, scopriamo che non ci sono altri visitatori e che la reception è chiusa. Ci sono solo i custodi che, comunque, ci lasciano pernottare.
C’è qualcosa che non mi convince: l’aria è satura di calore e di sabbia in sospensione. Quando andiamo a cena, nella vicina Rissani, tutti i ristorantini sono chiusi. A malapena, in uno di questi locali dall’aria dismessa, riusciamo a rimediare una insalata e una frittata.
– E va bene… che importa, domani saremo in pieno deserto. Prima il tour dell’Erg Chebbi, poi la pista fino Tauz dove una volta passava la tratta della storica “Paris–Dakar”.
Dormiamo relativamente bene e la mattina presto, dopo aver fatto il pieno dei serbatoi, partiamo alla volta del Chebbi.
Nuova sorpresa: la pista fino a Marzouga è stata asfaltata.
Non importa. Giriamo a sinistra e procediamo liberamente su sabbia. Quando finalmente si intravedono le prime grandi dune, alle nove della mattina il termometro registra 42 gradi, il cielo è divenuto lattiginoso e il vento tira sempre più forte.
Che succede? Ero stato qui dieci anni prima, nello stesso identico periodo, e ancora conservo diapositive dove si può vedere un cielo azzurro terzo, noi che a piedi vaghiamo tra le dune sorridenti e felici, e il termometro che non superava i trentotto gradi.
Va bene lo stesso… che vuoi che sia. Propongo al mio amico – che non vedeva l’ora di mettere le ruote sulla sabbia – di iniziare il giro dell’Erg. Cominciamo ad andare, ma appena ci troviamo sopravvento siamo investiti da folate bollenti di aria e sabbia in sospensione. Cerco di fare qualche foto al mio amico… di riprenderlo con la telecamera… ma è impossibile! I finestrini non possono essere aperti e ciò nonostante la sabbia, finissima, si infiltra dappertutto. Dobbiamo subito riporre l’attrezzatura fotografica. Procediamo in un caos di polvere in un ambiente di cui non vediamo quasi nulla. Non è un bel procedere. Non è divertente. Imbocchiamo la pista per Tauz. Per un po’ tiriamo avanti, mentre io mi chiedo che senso abbia procedere in questo modo. Comincio a sospettare che questo sia uno dei tanti effetti del riscaldamento globale del pianeta e che la stagione estiva sia diventata proibitiva per affrontare il pur piccolo deserto marocchino. Comincio a sospettare che il clima sia radicalmente cambiato e che, per questo, tutte le infrastrutture turistiche siano chiuse. Almeno durante questo periodo dell’anno.
Breve conciliabolo via radio con il mio amico, poi giriamo le auto e torniamo a Merzuga. Facciamo alcune domande al gestore di un misero locale dove ci fermiamo a bere del the bollente e così scopriamo che i nostri peggiori sospetti erano giusti: da alcuni anni, durante questo periodo, il termometro sfiora i 45 gradi… perciò l’aria fresca dell’oceano atlantico si precipita a Est, nell’entroterra, spingendo la massa di aria calda del deserto a riempire il vuoto così generatosi a Ovest: il risultato è che il vento bollente soffia implacabile, senza sosta, rendendo il soggiorno una anticamera dell’inferno. Le piste del deserto risultano inagibili. Impossibile uscire dalle auto. Impossibile cucinare all’aperto. Difficile persino aprire le tende per dormire.
A malincuore decidiamo di abbandonare il nostro progetto. Scopriamo che da Rissani una nuova strada asfaltata, praticamente parallela alla pista nel deserto, conduce a Zagora, dove saremmo dovuti arrivare l’indomani. Partiamo e dopo solo quattro ore siamo nella valle del Dràa, vicino a Zagora. Ma come ci avviciniamo al Sahara algerino il vento bollente saturo di sabbia torna ad investirci con furia. Lasciamo perdere, definitivamente e, risalita la valle, superata Ouarzazade, campeggiamo nei pressi di Ait ben Haddou.
La mattina visitiamo il sito: inutile dire che il piccolo e grazioso agglomerato di case prospiciente il magnifico Ksour (antico magazzino fortificato dove le popolazioni autoctone conservavano il raccolto per proteggerlo dalle razzie dei banditi berberi) è diventato una vera e propria città, con tanto di mega albergo a cinque stelle. Per i miei amici la visita è piacevole… io sono sempre più amareggiato: del Marocco che conoscevo non è rimasto più nulla.
Ancora non sapevo che il peggio dovevo ancora scoprirlo.
Quando partiamo, alla volta di Tafraoute, elogio e decanto al mio amico il paese dove andremo a campeggiare: in pratica una manciata di piccole case colorate appoggiate e inglobate in grossi massi erratici di granito rosa. Il tutto in una foresta di palme.
I chilometri scorrono sotto le nostre ruote… ma, quando finalmente arriviamo, vorrei non aver mai parlato. Una città moderna si estende al posto dell’antica valle. Al paese abbarbicato tra le rocce non c’è più accesso. E comunque è tutto chiuso… tutto sembra abbandonato come nelle altre città. Passiamo una notte di caldo infernale in un modesto alberghetto di periferia.
Sono stanco morto per questa affannosa corsa verso una meta che non riusciamo mai a raggiungere. Sono deluso, arrabbiato, dispiaciuto… ma non riesco a trovare una soluzione davvero alternativa. L’ultima e unica speranza è Plage Blanche.
La mattina dopo puntiamo veloci verso Guelmim, dalla quale fare gasolio e poi tentare di rintracciare la pista atlantica che porta a Plage Blanche. Negli anni precedenti ero passato da Sidi Ifni ma ho le tracce di un altro amico viaggiatore che – anche se non coincidono con la mappa del GPS – ci dovrebbero permettere di “saltare” quel primo pezzo di strada, che purtroppo è stato asfaltato. Il mio amico non mi aveva detto che, in realtà, anche da Guelmim tutta la strada fino a Plage Blanche è stata asfaltata. Io comunque, dopo i primi dieci chilometri, devio a destra su uno sterrato, molto prima della nostra meta, e rintraccio la pista che tanto avevo amato in passato. La percorro con un misto di nostalgia e speranza fino all’altura dalla quale una ripida discesa ci precipita sulla spiaggia. Sono le 16,30… la bassa marea dovrebbe ancora tenere… saltiamo un dosso di pietre e mettiamo le ruote sulla sabbia. È più pesante di come mi aspettavo ma procediamo veloci, anche senza sgonfiare le gomme. In compenso la spiaggia è sempre ampia, deserta, magnifica… mi si riapre timidamente il cuore. Ma quando arriviamo Foum Assaka, circa alla metà della spiaggia, il paesaggio muta improvvisamente. Lì arriva la strada asfaltata, passando da dietro, per cui troviamo decine di tende marocchine, fatte di stracci, vecchie coperte e teli di plastica. La spiaggia è un immondezzaio piena di mosche e di zanzare. Sconfortato, salgo lo sterrato che porta al ristorantino di Hassan dove ho promesso al mio amico il miglior tajine di pesce dell’intero Marocco. Trovo una serie di casupole… ma del ristorante di Hassan non c’è più alcuna traccia. Con la morte nel cuore chiedo informazioni agli abitanti delle casupole: il ristorante non c’è più. Hassan ha chiuso il locale e se ne è andato. E io mi metterei a piangere per la delusione. La notte apriamo le tende sulla spiaggia e siamo assaliti da un esercito di zanzare.
Mi arrendo del tutto: non bisognerebbe mai tornare nei luoghi visitati in passato, soprattutto se in quei luoghi si è lasciata una parte del proprio cuore. Il tempo muta le cose, sempre più velocemente… Come avevo profetizzato in “Maldafrica”, quattro anni fa, l’Occidente sta colonizzando l’intero pianeta. Lo fa esaltando i propri modelli di vita, come se fossero i migliori tra tutti quelli possibili, e non possiamo incolpare nessuno se poi tutti sentono il desiderio di imitarci. Se continua così, presto, nel mondo, non ci sarà più alcuna diversità, nessuna originalità, nessun Altrove nel quale cercare rifugio al Demone che ci sta consumando.
È tutta colpa mia… non dovevo progettare un viaggio del genere; mi dispiace per il mio amico e per tutti noi, ma non c’è proprio verso di addrizzare questa vacanza maledetta.
La mattina dopo per un pò scorrazziamo con le auto per la spiaggia… ma la mia tristezza, oramai, è insuperabile. Verso mezzogiorno, via asfalto, torniamo prima a Guielmim, poi ci dirigiamo verso Sidi Ifni per cercare la famosa “spiaggia degli archi di pietra” di Lezgira. In effetti la troviamo… ma quando chiediamo il permesso di scendere in spiaggia con le auto, questo ci viene negato. Qualche deficiente occidentale deve aver causato un qualche incidente con gli sporadici bagnanti locali e così ora, giustamente, l’accesso alla spiaggia è precluso alle auto.
Oramai non ho più nemmeno la forza di prendermela più di tanto. Passeggiamo a piedi sotto gli archi, facciamo il bagno poi, rassegnati, torniamo al campeggio di Sidi Ifni.
Il giorno dopo io e il mio amico avremmo dovuto separarci: lui avrebbe proseguito per Marrakech e io sarei dovuto risalire lungo costa verso Tangeri. La mattina, con le auto oramai pronte, faccio un’ultima proposta: a pochi chilometri dal luogo in cui siamo, via asfalto, si potrebbe raggiungere il vecchio relitto di nave “spiaggiata” di cui conservo così tanti e cari ricordi. Non sarà la stessa cosa come raggiungerlo via pista ma… è pur sempre una esperienza indimenticabile.
Detto fatto. Mettiamo in moto e percorriamo i venti chilometri che ci separano dal relitto. Quando arriviamo mi batte il cuore. Scendiamo i pochi metri di sterrato verso la spiaggia… ma dov’è il relitto? Controllo il punto GPS… dovrebbe essere qui. Non c’è dubbio. Mi incammino a piedi verso una baracca di lamiera che sorge a ridosso della spiaggia. Quando mi avvicino vedo pezzi di ferro ovunque. Si affaccia un uomo. Timidamente, in francese, chiedo informazioni, anche se, in cuor mio, ho già capito tutto: si, il battello era qui. Solo che l’asfalto vicino ha favorito la sua demolizione e la vendita dei pezzi come “ferro usato”.
(Questa è una mia vecchia foto del relitto scattata il 14.08.2002)
Non so più se piangere o se ridere. Rimango lì, come un ebete, per una decina di minuti. Poi vado da Raffaella, le spiego la situazione e le chiedo se le andrebbe bene tornare di corsa a casa, in Italia, con dieci giorni in anticipo sul calendario previsto. Sarà la prima volta che torniamo anzitempo e con la morte nel cuore… anziché con lo sguardo reso sognante dai luoghi visitati.
Saluto il mio amico e partiamo. Ad Agadir do un passaggio ad un “povero Cristo” marocchino che mi chiede un passaggio. E sono talmente depresso per la storia del “relitto svenduto” che mi faccio tirare il più classico dei “bidoni” che si possano tirare ad un viaggiatore sprovveduto. Il “povero Cristo”, con una scusa balorda, ci frega trenta euro… a noi, dopo quindici anni di viaggi in Africa. Quando ce ne accorgiamo è troppo tardi. Lui è già sceso dall’auto.
Sono sempre più inebetito. Abbasso ulteriormente le mie consuete difese di viaggiatore e mi faccio beccare dalla stradale, sempre a quarantasette all’ora dove sarei dovuto andare a quaranta. Ero talmente sovrappensiero per la truffa subita che non ho fatto in tempo a frenare. E stavolta non serve a nulla imprecare. Dopo uno scambio di feroci insulti reciproci, pago la multa e accelero verso la fine di questo triste viaggio.
– Addio, Marocco… non credo che ti rivedrò mai più. Tu stai inseguendo il tuo sogno di modernità e occidentalizzazione; io, al contrario, cerco un Altrove fuori dal tempo nel quale, almeno ogni tanto, illudermi di potermi rifugiare. Forse… per giovani viaggiatori meno navigati e smaliziati di me, con gli occhi e con l’anima ancora vergini. Magari in autunno o in inverno, forse… sarai ancora in grado di esercitare il tuo fascino.
Ma non credo che tu farai più parte dei miei sogni segreti. Ci vorrà del tempo prima che le ferite che mi hai inferto in questa triste estate si possano rimarginare. Spero, però, di aver imparato la lezione: mai tornare nei luoghi dove si è stati felici. Perché quei luoghi, grazie all’esperienza vissuta, sono diventati “luoghi dell’Anima” e in essa devono rimanere gelosamente custoditi. Nell’Anima, dove niente e nessuno possa più turbarli.