By Marino Zecchini
Originally Posted Friday, March 14, 2008
TEMPESTA DI SABBIA
Prologo
L’avventura nel Sahara non ha esaurito il suo carattere epico dei secoli passati ma è presente nelle descrizioni anche dei nuovi viaggiatori. Ancor oggi il viaggiatore moderno sente la necessità di avere un rapporto cerebrale per misurarsi con l’ambiente desertico attraverso il verbalizzare di concetti e idee per avere con esso un rapporto intimo, perché diventi un luogo d’ispirazione letteraria e simbolo di ricerca mistica. Questi metodi appartengono a quella perlustrazione sensoriale che esce e rientra dalla realtà al sogno, madre delle esplorazioni di ieri, di oggi e del futuro di natura tipicamente mediterranea e specificatamente della Grecia antica.. Il deserto in questo caso diventa il soggetto ed il territorio percorso, ma ciò che poi resta è il ricordo, questo è l’unico dato reale, ovvero il “deserto scritto” Per quanto banale possa sembrare, il deserto scritto non sarà mai il deserto fisico percepibile sensorialmente, poiché si tratta di livelli di esperienza diversi che mettono in luce un divario incolmabile tra l’espressione linguistica e l’esperienza sensibile. Andare nel deserto può essere una esperienza sportiva di tipo automobilistico, oppure una esperienza che segna la propria vita in modo indelebile. La sfera sportiva non è che la parte esteriore di un profondo mare che rimane insondabile senza gli strumenti sensibili della poesia. In questo brano è la tempesta di sabbia che diventa esperienza vissuta, scritta ed immaginata una conoscenza diretta di un avvenimento che nella sua terrificante manifestazione mi vede a contatto diretto con la sabbia infuocata del Sahara e partire per un viaggio introspettivo:
“Vento, sabbia in tempesta.
Turbine che invade il mio corpo, mi sembra di soffocare nella polvere sottile che s’infiltra nelle narici, la bocca e la gola vuota, l’aria non esiste più.
Il petto, centro del mio respiro, impedito, contratto, cerca un attimo di vita.
Il vuoto è un corpo estraneo che per necessità muove un colpo di tosse che vuole espellere il negativo, il non voluto.
La sabbia mi toglie il significato del tempo, del passato il senso è perduto, dimenticato.
Il sapore della sabbia nella bocca… sensorialità di un disastro imminente.
Mi sento sottratto alla vita, ostruito nei canali vitali.
Ricompare fantasmagorica l’anima del deserto, un immagine che aspira e soffia in tutte le direzioni del mondo. E’ il gioco infantile di un gigante che vuole dar senso al deserto che vuole ricominciare tutto da capo, un gioco giocato nello spazio confuso, assolato, bruciato. Mi sono perduto, svanito nello spazio tra le parole dove cerco insistente l’ispirazione e una rima seguente, dove non c’è menzione ma solo silenzio, ed il falso non è mentire ma sentire.
Questo deserto che non esiste, che vi dono in regalo con parole in metafora un po’ sibillina è una pista, un cammino perpetuo, eterno e fragile, che si muove in cerchio ed ogni attimo è ricominciare. Cancellare, ricreare, ripartire nel gioco perenne alla ricerca del senso che si compie nell’infinito nella ciclicità del mio deserto mentale. Dinamica circolare che coincide con l’esplorazione di un deserto pensato mai visto, mai esistito.
Dinamica circolare
Deserto illimitato che si spande nelle parole scritte sulla sabbia e volate con il vento caldo d’estate. Il deserto che inspira, che aspira e che soffia lontano, che spoglia gli uomini del loro destino e li uccide e li rende di pietra salata.
Sulla sabbia sono rimaste le tracce misteriose dell’alfabeto dell’inizio del mondo, mille volte riletto, mille volte non capito, mille volte tradito perché rifiutato. Scrittura di un atto del notaio divino sancito ma senza valore, annullato, da quella umanità senza principi, amanti di quel che non merita amore. Scrittura lasciata per essere decifrata attraverso una traccia, un segnale od un simbolo, impressa per sempre sul ciglio della mia sorgente, vicino alla vita, all’ombra del senso, scolpita dal vento nella tempesta di sabbia.
… e li rende di pietra salata
Accanimento di un’eco che ritorna, che implora di essere capito, metafora del punto lontano, il più lontano, che proviene dal paese del mio primo vagito, rianimato dallo spirito poetico della nostalgia, pensiero errante che sfonda potente la nuvola di sabbia e mi riporta volando tra la mia gente, sorrisi e parole d’affetto, un pranzo, un saluto, un bicchiere di vino gustato.
Ma la sabbia m’invade, mi perdo, il volo è finito, ritorno al presente, il vento, la sabbia, un lamento, è l’urlo di un lupo vicino, è il pianto di un bimbo lontano. Una vita passata a giocare, in un mondo di sabbia, di dune e di vento. Mi misuro con esso, osservando la sabbia, il colore, la forma per cercare un passaggio aldilà delle dune, un deserto, una lotta protratta nel tempo che espone continua la fatica di una natura che muta. La pietra, logorata dal vento, dal gelo e dal sole spaccata e ridotta in microscopici grani che si ammucchiano in dune che formano lingue spezzate di lune.
La porta del forno si è aperta, il calore mi invade, la fata lavora lontana, sul ciglio del punto finito, orizzonte confuso, è Morgana, che inganna chi viaggia, armonizza tremolanti paesaggi che in cielo si fanno miraggi.
Il caldo mi uccide, mi schiaccia, mi scioglie, l’umido evapora, il sangue non gira, ed il cuore fatica a cercare la vita.
La meta è lontana ma non viene la rima ed allora riparto offuscato dall’ira.
Deserto che vive, che soffre: deserto… allegoria della morte.
L’ombra di un sogno riflesso per terra da un cielo rosso, cielo di guerra. La sabbia mi incorpora mi muta di forma divento polvere sparsa nell’aria, mi perdo nel vento soffiato lontano insieme a un lamento.
Divento tempesta, il deserto è svanito, osservo dall’alto il deserto infinito.
divento polvere soffiata nell’aria
Marino Alberto Zecchini 26/02/2008 Zarzis