By Luciano Pieri
Originally Posted Thursday, September 27, 2007
SUDAN – DA KHARTOUM A BERENICE PANCRISIA – NOVEMBRE 2004
Appunti di viaggio di MARIA GRAZIA E LUCIANO PIERI
ORGANIZZAZIONE: MAURIZIO LEVI – MILANO
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Mentre sto scrivendo questi appunti del viaggio da noi effettuato nell’ottobre del 2004, leggo su sahara.it il bellissimo resoconto di Stefano Laberio che ha percorso gli stessi luoghi quasi in contemporanea con noi.
Comunque vado avanti, se non altro servirà a chi lo legge per avere la visione dei luoghi e e delle sensazioni da due prospettive diverse anche se gli occhi sono gli stessi, cioè di persone che amano in maniera viscerale il Sahara.
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I primi di ottobre del 2004 arrivò la telefonata di Maurizio Levi: questa volta partiamo.
Erano due anni che attendevamo di formare un gruppo per andare alla ricerca di Berenice Pancrisia sulle orme della spedizione Negro-Castiglioni-Balbo.
Avevamo dato la nostra opzione per partire ai tre più qualificati tour operator, specializzati in questa zona ai margini del Sahara, ma non si riusciva a formare il gruppo minimo per essere economicamente accettabile il viaggio.
A Milano, un certo ing. Flavio Cambieri, era riuscito a mettere insieme un ristretto numero di amici trascinandoli col suo entusiasmo e gentilmente aveva accettato di inserire anche noi due, ed il 7 novembre si partiva.
Bella data, perché secondo noi, novembre è il miglior mese per viaggiare nel Sahara.
Arrivammo a Khartoum in nottata ma il mattino dopo eravamo già sulle Toyota in partenza, costeggiando la riva orientale del Nilo, su di una discreta strada asfaltata in direzione Nord-est, con destinazione NAGA.
In breve tempo si raggiunge questo interessante sito archeologico: WAD BEN NAGA.
Scavato verso il 1958 dall’archeologo francese Vercoutter, è composto da diverse costruzioni tra le quali si evidenziano: un tempio dedicato ad Iside, un magazzino di cui l’unico accesso possibile è una rampa che dava sul Nilo, un viale delimitato da belle statue di arieti e ancora templi e resti di fondamenta di edifici accessori.
Poi c’è il “CHIOSCO”. E’ un tempietto, anzi un gioiello di tempietto, dove capitelli, archetti, bassorilievi, evidenziano l’incontro fra le culture egizia, greca e romana.
E’ una di quelle opere che hanno pochissimi paragoni nel mondo, per me, l’unico sito dove c’è qualcosa di simile è a Taxila in Pakistan, dove proprio un piccolo tempietto, racchiude segni culturali greci ed indiani. Vicino a queste opere d’arte c’è un pozzo.
L’acqua è “il tutto” nel deserto.
Quando si trova l’acqua si trovano uomini, donne, animali e anche qui abbiamo trovato un mondo felice.
E’ allegria veder tirare su l’acqua da qualche decina di metri nel sottosuolo e mentre gli asinelli si incaricano di assolvere la parte più faticosa del lavoro trascinando su un recipiente pieno, gli uomini, le donne i ragazzi, ridono e giocano, interessati anche alla nostra presenza.
A MEROE siamo arrivati di notte.
Una luna piena illuminava le circa quaranta piramidi che compongono la necropoli imperiale di questa civiltà, Meroica appunto, in un ambiente così suggestivo che ancora ne sentiamo viva l’emozione.
Qui nel 1834 capitò un avventuriero italiano, Giuseppe Ferlini bolognese di nascita, che per scoprire i presunti tesori nascosti nelle tombe dei faraoni neri, ne fece saltare diverse con la polvere esplosiva, una piramide addirittura fu rasa al suolo.
Anche se ora il metodo ci sembra barbaro ed inconcepibile, non bisogna dimenticare che tutto questo segnò l’inizio dell’archeologia moderna e quindi del susseguirsi degli scavi che negli anni hanno permesso di portare alla luce le incommensurabili bellezze dell’antichità con sistemi sempre più sofisticati e sempre meno invasivi.
Per inciso Ferlini trovò veramente un tesoro nella punta della tomba della regina Amanishakheto del primo secolo avanti cristo, otto chili di gioielli che in Italia nessuno volle acquistare perché ritenuti dei falsi e che dopo diverse peripezie vennero ceduti dall’italiano al re Luigi I° di Baviera, ora fanno bella mostra al museo di Berlino.
Partiamo da Meroe lasciandoci un pezzetto di cuore e proseguiamo lungo il Nilo fino a ATBARA, dove finisce l’asfalto e su di una pianura desertica punteggiata da rare colline granitiche, si giunge ad ABU HAMED.
Posta su di un’ansa dove il Nilo cambia decisamente direzione verso sud-ovest, questa anonima cittadina non avrebbe nessuna importanza se non fosse l’ultimo punto dove poter fare rifornimenti vari prima di affrontare il deserto che ci porterà verso il Wadi Allqi alla ricerca di Berenice Pancrisia, la nostra meta.
Caricato il massimo possibile di gasolio, acqua e viveri freschi partiamo in direzione nord-est, su di un terreno piatto di colore grigio e solo dopo una mezza giornata arriviamo alle prime alture.
Si inizia con colline pietrose alte poche decine di metri fino ad arrivare gradualmente a vere montagne.
Risaliamo antichi wadi che corrono paralleli al mar Rosso incontrando rarissimi gruppetti di nomadi beja, uomini fieri che sembrano usciti indenni da tempi antichissimi; portano una tunica bianca che arriva quasi alle caviglie, una specie di gilet grigio, sandali e sono armati di lunghi pugnali, corte lance e dei particolari scudi fatti di cuoio che portano appesi al basto dei loro cammelli.
Siamo arrivati in prossimità del Cratere Onib dove si può entrare solo da una strettissima gola di sabbia bianca, come si può vedere anche dalle carte satellitari, alle approssimate coordinate (N 21.4200 E 35.100).
Anche nell’interno del cratere, piatto e piuttosto ampio, la sabbia è di un chiaro accecante, la forma è un cerchio interrotto da ciuffi sparuti di acacie e da lievissime e rare collinette.
Poco dopo l’ingresso c’è un pozzo a pari della sabbia senza protezioni laterali, coperto solo da alcune tavole e con l’acqua marcia a causa degli escrementi di animali che quando tira vento cadono dentro..
Troviamo degli interessanti tumuli funerari di una decina di metri di circonferenza ancora ben conservati e forse mai aperti.
Campo nel cratere e la mattina dopo, usciti fuori attraverso la solita gola che troviamo abbastanza agevolmente grazie al GPS, altrimenti non facilmente individuabile, arriviamo alla vecchia miniera d’oro già riportata sulle vecchie carte inglesi del Sudan col nome di “Onib Mines”.
Ci sono ancora le vecchie abitazioni dei minatori, costruzioni molto semplici, essenziali ripari costruiti a secco con la nera pietra locale e coperte con la stessa ridotta a lastre.
Tutto intorno un numero enorme di macine di pietra con foro centrale e molto consumate dal gran lavoro fatto per sminuzzare il quarzo da cui ricavare una misera quantità di oro.
Attraversiamo ancora sperduti territori incontrando rari nomadi beja che ci guardano come noi potremmo guardare degli extraterrestri scesi nel nostro giardino di casa; sono diffidenti ma la curiosità prevale ed un minimo approccio, voluto da loro e da noi, ci permette scambio di contatti quasi amichevoli.
Si incontrano altri tumuli funerari, antichi, preislamici, alcuni visitati dai fratelli Castiglioni i quali attraverso oggetti in essi ritrovati, li collocarono nel periodo temporale del medio regno o al periodo di kerma.
Si raggiunge infine wadi Allaqi.
Questa valle, conosciuta per i suoi giacimenti auriferi fin dagli antichi faraoni, è per la maggiore estensione in territorio sudanese e solo la punta nord entra in territorio egiziano, ma non si può transitare il confine perchè la burocrazia, con un suo imperscrutabile ragionamento, lo tiene chiuso.
Per arrivare all’ansa del wadi dove si trovano le due imponenti castelli e il vasto complesso di abitazioni che formavano una città di diecimila abitanti, bisogna districarsi in un dedalo di valli secondarie che ingannano, portano fuori strada, ti fanno ritornare indietro facendo perdere un tempo non previsto.
Il GPS ti dice che ci sei, il luogo è vicinissimo, forse dietro quella bassa brulla collina ma ci giri intorno e devi poi ritornare indietro perché non passi e devi cercare una nuova via.
A noi il tutto è costato due giorni in più del previsto, ma leggendo resoconti di altri visitatori mi sembra che il problema sia comune; ma forse sta proprio qui il fascino di questa destinazione dove gli “AFRITE” spiritelli dispettosi si divertono a proteggere questo luogo facendolo sparire dalla vista del viaggiatore.
Finalmente raggiungiamo la località chiamata dai beja DERAHEIB (le costruzioni) cioè la mitica BERENICE PANCRYSIA, la città dell’oro, e qui un minimo essenziale di storia mi sembra doveroso:
Chiamata Berenice dagli egiziani e Pancrysia dai greci era collocata in una zona ricca di affioranti filoni di quarzo aurifero che fin dalla notte dei tempi i faraoni sfruttarono per estrarre il prezioso minerale inviando sul luogo migliaia di disgraziati, schiavi, galeotti, avversari politici, chiunque avesse un motivo per essere sbattuto in questo luogo, per noi affascinante ma per loro infame, col solo scopo di lavorare il più possibile al minor costo.
Probabilmente le giornate lavorative erano dal sorgere del sole al tramonto, l’alimentazione essenziale, lo sfruttamento fino al completo esaurimento fisico ed alla morte subito rimpiazzati da altri, il tutto per ricavare 5/6 grammi d’oro lavorando una tonnellata di minerale.
Di questa località si trova traccia su “Naturalis istoria” di Plinio il Vecchio e su scritti molto particolareggiati di Diodoro Siculo (80/20 a.c.)che prese spunto da un’opera perduta di Agatarchide di Cnido.
Da questo wadi transitava una importante via che da Aidhab, porto sul Mar Rosso, arrivava fino al Nilo permettendo poi per via d’acqua, di portare al mare Mediterraneo, merci pregiate come lacche, aromi, spezie, sete provenienti da oriente, fin dalla lontana India.
Poi per ragioni di sicurezza questa via fu sostituita da altre più tranquille e perse importanza fino a sparire nell’oblio.
Per 2000 anni infatti, si perdono i ricordi di Berenice e nei pochi racconti in cui se ne parla viene trattata alla pari di un fantastico mito come ce ne sono tanti nei racconti del deserto.
Siamo nel 1832, da questo luogo passa M.LINANT DE BELLEFONDS che la descrive nel libro suo libro “ETBAYE”.
Nel 1907 W.E.BUDGE descrive Deraheib basandosi su racconti dei Beja.
Nel 1938 E. DRIOTON e I.VANDIER parlano di miniere d’oro a monte di Wadi Allaqi.
Nel 1948 D.NEWBOLD passa di qui, trova cocci di ceramica e vetro e li data all’epoca egizio-greca-romana.
Nel 1957 U.MONNGRET DE VILLARD vede queste costruzioni e le fa risalire al X sec.d.c..
Nel 1977 sono viste da W.Y.ADAMS.
Però nessuno di questi esploratori e studiosi aveva intuito che questa era Berenice Pancrysia.
Bisognava arrivare al 1989 quando la spedizione Negro-Castiglioni-Balbo stabilì con certezza, il 12 febbraio, che questo sito con le coordinate N 21.56.93 E 35.08.88 a metri 550 s.l.m. è BERENICE PANCRYSIA.
Il merito grande dei nostri archeologi è stato di essere partiti cercando qualcosa in cui già credevano e di averlo avvallato con i loro ritrovamenti di oggetti vari databili all’era dei faraoni che storicamente avevano sfruttato questo luogo.
Purtroppo, dato i ritardi che avevamo accumulato, abbiamo dovuto limitare la nostra permanenza in questo luogo a solo poche ore.
Il tempo di una visita a quanto c’è intorno, di documentare fotograficamente che non era un sogno ma realtà e poi, prima di notte, abbiamo lasciato con rammarico questo luogo che meritava una ben più lunga permanenza.
Sarebbe stato molto più facile fare pochi chilometri verso nord e al termine del wadi scendere a sud ovest, ma sapevamo bene che saremmo entrati in territorio egiziano finendo dentro un posto di confine sorvegliato da agenti non disponibili a venire incontro alle esigenze di uno sparuto gruppetto di turisti.
Perciò dietro front e ritorno sui nostri passi.
Una volta usciti dal wadi Allaqi la nostra direzione era ovest-ovest-sud verso la stazione 6 della vecchia linea ferroviaria Khartoum-Wadi Halfa-Cairo, costruita nei primi anni del 1900 dagli inglesi.
Il loro sogno era di unire con la ferrovia Il Cairo con Citta’ del Capo attraversando tutte le loro colonie, ma la prima guerra mondiale ed il suo seguito non permisero la realizzazione dei loro progetti.
Arrivare alla stazione 6, anche se le date riportate sui componenti in metallo, binari, scambi arredo uffici, portano la scritta LONDON 1905, quindi relativamente recenti è sempre un salto in un’epoca romantica.
Respiri l’aria coloniale di quei tempi, risali al generale Gordon e alla sua epica e sfortunata battaglia di Khartoum che vide l’annientamento delle truppe inglesi da parte dei beduini comandate dal Mahdi.
Poi via di nuovo a ovest verso il Nilo che raggiungiamo la sera a Abri.
La mattina seguente attraversiamo il fiume fino a Soleb, assieme ad un matrimonio delle popolazioni nilotiche, con i loro costumi.
Il vento è fortissimo, fortunatamente il guardiano del tempio ci fa montare il campo a ridosso di provvidenziali muri di cinta.
In questa zona ci sono diversi interessanti templi da visitare:
Sedeinga dove si trovano i resti del tempio dedicato a TIY la grande sposa di Amenofis terzo.
Poi il bellissimo tempio di Soleb, una delle magnificenze del Sudan, dove il primo basamento risale alla prima colonizzazione egiziana verso il 1500 a.c. ed il resto fu progettato dall’architetto di Luxor e nel 1957 fu portato alla luce da Shiff Giorgini archeologo dell’università di Pisa.
Poi ancora Sesibi fino a riattraversare il Nilo e trovare la terza cateratta col suo grande castello ottomano, a guardia della navigazione sulla grande via d’acqua.
Quindi si arriva a Kerma, famosa soprattutto per i “DEFUFFA” masse enormi di mattoni crudi di circa 20 metri di altezza e di 52 metri di lato quadrato, la cui silhouette ricorda una piramide mozza.
Queste costruzioni con solo pochi e piccoli locali interni sono un enigma non del tutto chiarito a cui gli studiosi hanno attribuito diverse ed incerte spiegazioni.
Certamente erano il centro di un luogo sacro poiché intorno ad essi si trovano estese necropoli dove sono state portate alla luce migliaia di tombe.
Alcune di esse scavate recentemente dall’archeologo Charles Bonnet dell’università di Ginevra, probabilmente di re e principi, hanno rivelato nei loro corridoi, che conducono alla tomba principale, ricchi arredi funebri e centinaia di scheletri umani in posizioni contorte che dimostrano il sacrificio di schiavi tumulati vivi e morti per asfissia.
Poi continuiamo per Kawa, Old Dongola, Karima, le tombe di El Kurru ed infine al tempio vicina alla suggestiva roccia di Jebel Barkal, luogo sacro fin dai primi uomini che abitarono questa regione dalla notte dei tempi.
Su queste località sono stati scritti un enorme numero di volumi da studiosi di tutte le epoche e di tutte le parti del mondo, a tutto questo aggiungo solo una mia piccola riflessione: OGNUNA VALE APPIENO LA SUA NOTORIETA’ E MERITA UNA VISITA APPROFONDITA.
Arriviamo al ponton di Karima quando esattamente al nostro arrivo questo si insabbia in mezzo al fiume.
I suoi passeggeri vengono portati con i bagagli a riva con piccole barche e le previsioni del nostro traghettamento sono per quando vorrà Allah.
Figuriamoci, in nottata abbiamo il volo Lufthansa.
Grande casino, tira vento fortissimo, siamo lì bloccati perché il ponton non si schioda da mezzo al fiume.
Poi vengono fuori le soluzioni:
traghettiamo noi ed i bagagli con le lance, troviamo un pulmino noleggiato sul posto e alle 2,30 siamo sull’aereo pronti per il ritorno in Italia.
E’ tutto come un bellissimo sogno, ma è realtà, per fortuna ci sono le centinaia di fotografie che ho scattato a dimostrarlo.