By Robogabraoun
Originally Posted Friday, March 4, 2005
SAHARA OCCIDENTALE: LA GUERRA DIMENTICATA
Marocco. Terra di kasbha, mercati, turismo. Marocco di 65000 km di strade asfaltate, Marocco che chiede a gran voce l’annessione alla CEE. Marocco dello sviluppo tecnologico ed industriale. Un Marocco che cresce e che le riviste di viaggio ci trasmettono come ricco di colore, profumi, tradizioni…un Paese stabile, lanciato verso un futuro sempre più solido…
E nomi come Zagora e Marrakech ricordano all’occidente un sud affascinante, le tende berbere, le danze sfrenate…Ma c’è un Marocco silente, meno appariscente, di cui nessuno racconta e che nessuna Agenzia di Viaggio propone… Ed è molto, molto più esteso del Paese conosciuto dal turismo. Di questo Marocco vi voglio raccontare.
Alle mura rosa pastello della sonnecchiante cittadina di Tata fino a 6 anni or sono terminava l’asfalto, ed il serpente polveroso della pista catapultava direttamente nel Nulla. Il caos del turismo di massa mugghiava contro confini posti molto più a nord, alle pendici della muraglia del Jebel Bani, lungo il corso del medio Draa, arenandosi alle oasi di Zagora e Mahmid, scelte come rappresentanza di un sud che sud non è. Oggi da Tata l’asfalto si srotola lucido nella pianura, spezzato dal calore del giorno e sbriciolato dal gelo della notte. E porta giù, verso il deserto, verso il niente. All’altezza di Foum el Hassane la strada svolta di 90 gradi verso oriente, puntando verso la costa, come ad aggirare un ostacolo insormontabile…Eppure non c’è nulla di fronte a noi, solo la pianura sconfinata che all’orizzonte meridionale va a morire sui bassi rilievi di colline colorate di indaco dall’aria tersa. La strada svolta ad est e ti chiedi perché non possa proseguire naturalmente verso il sud, in questa terra selvaggia, anziché compiere un’assurda deviazione fino alla costa per poi ripiegare lungo l’oceano, fino alla lontanissima Mauritania.
Allora prosegui, su un asfalto meno curato, meno invitante, sollevando l’incertezza ed il dubbio nelle guarnigioni di gendarmi che pullulano lungo il percorso verso la piccola oasi di Assa, nella pianura…Che vai a fare nel sud? Non c’è nulla, solo il vuoto.
E ad Assa l’asfalto annega nella polvere, scompare nel baluginare della luce accecante del pomeriggio, la traccia si perde nel villaggio e le indicazioni stradali svaniscono come sogno effimero, come se nessuno avesse piacere di mostrare la via per il sud…La conosco la via, e mi incammino per il sentiero che si arrampica sulle alture, verso Torkoz, verso il Sahara Occidentale.
Oltre la montagna il tavolato infinito del deserto si staglia sino all’orizzonte, la nebbia del vento di sabbia a confondere l’orizzonte ed ad unire terra e cielo in un indistinto acquerello dominato dallocra gialla. Scendi nella piana e sei nel Sahara Occidentale, migliaia di chilometri quadrati di Nulla, privi di acqua, di ombra, di qualsiasi cosa…Qualsiasi cosa? No, non è vero, ci sono i fosfati, l’immenso giacimento di fosfati di Bou Kraa, laggiù oltre la nebbia, vicino al confine.
Ed è da questi fosfati che nasce la guerra del Sahara Occidentale, che dura da più di un ventennio ed ormai dimenticata dal mondo occidentale e dal resto del Maghreb.
Un immenso susseguirsi di altopiani infiniti, appiattiti da millenni di vento, e sebkhe, depressioni in cui in tempi remoti v’era acqua e vita, dove il deposito di sale lasciato dall’evaporazione forma un tappeto accecante liscio come un biliardo che in estate si trasforma in fornace, senza pozzi, senza guelte, senza arbusti, e svela il vero volto del Sahara.
La pista s’incunea in una breccia di un grande terrapieno, il primo dei cinque muri del Sahara Occidentale…Una barriera di terra, sabbia e mine, centinaia di migliaia di mine disseminate dall’esercito di occupazione marocchino, ad isolare e contenere la spinta di ribellione dei nomadi Saharawi. Cinquemila chilometri di argine contro la libertà di scelta di un popolo.
Fino al ’97 lungo i muri sorgevano guarnigioni munite, barriere di filo spinato, e cartelli con l’inequivocabile disegno del teschio segnalavano i campi minati…Poi è arrivata la Parigi Dakar e sono state create le brecce, le piste bonificate dalla mine, le matasse di filo spinato rimosse ed abbandonate nel deserto, rugginosa testimonianza dell’odio.
Dal 1976 questo fazzoletto di mondo, questo angolo di terra riarsa dal sole, è insanguinato dalla guerra, guerra feroce tra l’esercito marocchino ed il movimento di liberazione Saharawi…Le truppe dell’ONU stanziano ad Es Semara, la città santa rasa al suolo dai Francesi, nel cuore del deserto; i bei Toyota da 45.000 eu con la scritta UN rombano per le strade della città sonnacchiosa, a tutelare con la loro presenza il rispetto degli accordi presi da decenni e mai rispettati, mentre la popolazione attende di poter sancire con un voto la sua volontà politica e sociale. Sì, perché sin dagli anni 80 è stato deciso che un referendum avrebbe deciso il futuro del Sahara Occidentale…Ma ? Eh sì, il ma c’è, ed è rappresentato dal cavillo posto da Rabat, che pretende, prima del voto, di avere i dati del censimento degli aventi diritto al voto…che sono nomadi, che vivono transumando oltre i confini di tre nazioni, che marciscono in tendopoli e campi profughi in Algeria presso Tindouf…E finchè il censimento non è completato non si voterà, e così continuano a passare i decenni, ed il Sahara Occidentale continua ad essere terra di nessuno sfruttata dal Marocco di Mohamed VI.
Si combatte ancora in Sahara: il Polisario, l’organizzazione indipendentista, non ha mai deposto le armi, ed il deserto pullula di mezzi corazzati, agili fuoristrada dotati di mitragliatrice pesante, di guarnigioni mobili atte a stanare i Saharawi nel loro stesso immenso mondo, le pianure sconfinate. Le carcasse dei corazzati punteggiano i campi di dune, le scogliere sotto costa, le piste maggiori. Ogni tanto qualche veicolo esplode su una mina assassina dimenticata chissà da chi e chissà quando, e ci si ricorda che ancora laggiù la parola è lasciata ai kalashnikoff.
Intanto da Bou Kraa il nastro trasportatore più lungo del mondo vomita sulle banchine del porto di Laayoune tonnellate e tonnellate di preziosi fosfati, e questa importante risorsa è, di fatto, patrimonio del Marocco. Le città sono state abbellite, ospedali costruiti, scuole disseminate nelle lande piu’ lontane. Ma ai discendenti dei beduini arabi non interessano.
In tutto l’ex Sahara spagnolo le tasse sono dimezzate, i carburanti costano meno di un terzo del resto del Marocco…Rabat indora la pillola per rendere meno amaro il giogo dell’occupazione.
Ma non basta, il popolo vuole l’indipendenza, la rabbia serpeggia ancora tangibile in ogni villaggio. L’esodo di massa continua, verso Tindouf o verso il nord…a Mahmid, nel Marocco centro orientale, l’80% della popolazione è Saharawi, e così pure nei villaggi lungo il Jebel Bani. Lavorano con il turismo o sopravvivono con la pastorizia, come avviene da millenni.
E quando esci dal Sahara Occidentale ai posti di blocco ti trattengono per ore, ti guardano come fossi matto, il sospetto negli occhi, perché sei sceso nella terra dei Saharawi, hai attraversato il loro deserto minato e sei ritornato senza danni e potresti essere un loro sostenitore, un loro amico, peggio ancora un giornalista che ha a cuore la soluzione del dramma di quel popolo.
Ed allora domande, domande, moduli da compilare, sguardi duri, tempo gettato via a barili…
Sono pochi, pochissimi i viaggiatori che scendono in Sahara Occidentale, ed è tramite i loro occhi e le loro parole che il mondo può non scordare questa guerra silente in atto, l’indigenza estrema delle popolazioni prive di qualsiasi tipo di assistenza medica e sociale. C’è una guerra laggiù, e l’uomo muore; forse non più tanto per le raffiche di un mitragliatore ma per la mancanza di medicinali o di cibo…ma comunque muore. Ed i campi profughi di Tindouf scoppiano, saturi di povera gente senza patria, in una tragedia etnica che non ha nulla di diverso da quella vissuta dai Tuareg del Mali e del Niger negli anni 80 e 90.
C’è la guerra in Sahara Occidentale, una guerra di logoramento, una morsa psicologica che sta spezzando un intero ceppo etnico. Ed anche se ci è passata la Barcellona-Dakar con il suo circo miliardario ed i posti di blocco si aprivano come per incanto all’arrivo delle auto in corsa, non è cambiato nulla: i Saharawi stanno con la faccia nella polvere ed il mondo se n’è dimenticato.
Restano i viaggiatori delle sabbie, con la loro testimonianza, a ricordare all’Occidente il suo impegno verso un popolo e questa guerra dimenticata.