By Giancarlo Negro Originally Posted Wednesday, November 2, 2005
LE TRE CITTA’ DI BERENICE
Giancarlo Negro
1) La “Berenice Trogloditica” (Berenice Trog[l]odytices), o “Berenice Troglodyta”, ben nota presso molti autori antichi (Tolomeo, Diodoro Siculo, Strabone, Plinio, Mela, Arriano, Stefano di Bisanzio, ecc.), ai tempi di Plinio, evidentemente era ancora un importante porto sul Mar Rosso, l’antico Golfo Arabico, situato al centro della regione della “Trogloditica”, cioè in quell’area desertica che si estende a oriente del Nilo e che prendeva il nome dagli antichi abitanti di quel deserto, cioè dalla popolazione dei “Trogloditi”, che gli autori classici, quasi all’unaminità, situavano tra la città di Coptos (l’attuale “Kuft”) fino al Golfo di Aden, dove si faceva iniziare il Mare Eritreo, l’attuale Oceano Indiano. Questa regione desertica è oggi divisa tra le nazioni dell’Egitto, del Sudan e dell’Eritrea; e i suoi limiti geografici attuali ancora oggi sono generalmente considerati a nord la città di Suez, quindi all’altezza del Cairo, mentre a sud essa giunge fino alle stretto di Bab el-Mandeb; quindi con un’estensione che va da 30° a 12° di Latitudine Nord, e da 30° a 43° di Longitudine Est. Questa regione, per quanto riguarda la parte egiziana, si chiama attualmente “Deserto Orientale” (Eastern Desert), o “Deserto Arabico”; mentre nella parte sudanese prende il nome di “Deserto Nubiano” (Nubian Desert), o “Deserto dell’Etbai” (o dell’Atbai) (Etbay Desert), regione che gli Arabi chiamarono “Deserto di Sahid” (o “Said”, o “Sa’id”, o “Saith”, o Ca’id), o anche “Deserto dei Bogah” (o di Buge, Buga, Bugie) dalla locale popolazione dei Beja), o infine “Deserto di ‘Aidhab”, relativamente al deserto circostante a questo porto, quando acquisì una grande importanza come principale punto di imbarco per i pellegrinaggi alla Mecca. Tutto questo deserto è caratterizzato da diversi rilievi montuosi, spesso impervi e di notevole altezza, costituiti essenzialmente dalle Arenarie Nubiane situate verso occidente a non molta distanza dal Nilo, e più a oriente dall’affioramento del basamento cristallino, ricco di minerali, quarzo aurifero e pietre dure, che globalmente prende il nome di “Catena Arabica”, ma che i primi geologi chiamarono col nome di “Montagne Cristalline”, appunto a causa dell’abbondanza del quarzo. La Catena Arabica, che si spinge quasi fino alle rive del Mar Rosso, ha il suo naturale proseguimento sull’altra sponda del mare, cioè sulla costa araba dello Hijaz, l’antica regione di Midian. Sembra che per gli antichi si trattasse della stessa regione, infatti Plinio (L.VI: 169) afferma: “Il paese dei Trogloditi che gli antichi chiamavano Midoe, e altri Midioe,…”. A conferma di quanto affermano le fonti antiche sulla regione araba di Midian, un’esplorazione di Burton (1879) dimostrò come fosse ricca di oro e altri minerali rari, rinvenendo, fra l’altro, abbondanti tracce di sfruttamento minerario, rovine di villaggi di minatori, iscrizioni preislamiche semitiche (thamudene), apparentemente del tutto simili a quelle del Deserto Orientale egiziano, e diverse altre antiche testimonianze che fanno ritenere come entrambe le regioni montagnose che si affacciano sul Mar Rosso furono sfruttate dai tempi più antichi, molto probabilmente da popolazioni e culture molto simili tra loro, o comunque necessariamente in stretta connessione e relazione. Questo spiega anche l’abbondanza di iscrizioni semitiche preislamiche che si rinvengono nel Deserto Orientale egiziano: evidentemente gli stessi commercianti semiti frequentavano entrambe le regioni per portare l’oro, le pietre e i metalli preziosi dal deserto nei luoghi di vendita. La città portuale di Berenice Trogloditica è situata su un golfo che fu anticamente chiamato “Sinus Immundus“, cioè “Golfo Immondo”, come ci dice fra gli altri Strabone (XVI: 257), a causa degli scogli, delle pietre, e probabilmente anche della sporcizia, che si trovavano nel suo basso fondale. E’ interessante notare come ancora oggi il nome inglese della baia, “Foul Bay” (es.: carta 1:1M., foglio NF36), abbia mantenuto lo stesso significato (Wellsted, 1838: 342). La città di Berenice Trogloditica fu fondata verso il 275 a.C. da Tolomeo II Filadelfo, che regnò in Egitto dal 285 al 247 a.C. e, come apprendiamo dallo stesso Plinio (VI: 168), essa prese il nome dalla madre di Tolomeo, Berenice I. La città fu certamente rifondata su un insediamento egizio precedente, di cui probabilmente si conserva il nome antico di “Hemtithit”, poi fu nota col nome di “Hylana” (Stuckio, 1577: 4) e in seguito come “Miosormo” (Conti-Rossini, 1928: tav.XX; Harpe, 1781: 123-126; Ramusio, [1554], 1979: 969), spesso confusa con la quasi omonima “Myos Hormos” posta più a nord, presso l’attuale porto di Quseir (toponimo che probabilmente deriva da “el-Kasr“, cioè “Il Castello”). Berenice Trogloditica, l’antica Hemtithit e Hylana, fu molto probabilmente l’antico porto, o scalo, utilizzato dagli Egizi per le numerose spedizioni navali dirette alla mitica terra di Punt. In seguito, presso i primi geografi arabi da Leone Africano in poi, la città e il porto di Berenice Trogloditica furono note con il nome di “Alchaser”, o “Alchasar” (Stuckio, 1577: 4); confondendosi nuovamente col porto di Quseir, posto ben più a settentrione. Plinio riferisce (VI: 102-104) come Berenice Trogloditica fosse posta al termine della difficile carovaniera, ben nota a molti altri autori classici, che lui stesso ha chiamato “Dei dodici giorni”, perché tanti occorrevano a percorrerla. Questa pista, che fu migliorata e particolarmente attrezzata con apposite stazioni di sosta da Tolomeo II al fine di dare accesso alle miniere d’oro della Trogloditica e ai nuovi insediamenti nati per suo volere sulle coste meridionali del Mar Rosso, partiva da Coptos sul Nilo (l’odierna Qift). Essa, come descrive accuratamente Plinio, attraversava interamente in diagonale l’arido Deserto Orientale egiziano, o Deserto Arabico, dove si trovavano diverse miniere d’oro e di pietre preziose, fra cui le famose miniere del “Monte degli Smeraldi” (Smaragdus Mons), uniche al mondo, di cui parla, fra gli altri, lo stesso Plinio più avanti (XXXVII: 65). Il percorso, ricorda ancora questo autore, veniva effettuato a dorso di cammello durante la notte, a causa del forte calore del deserto, fermandosi durante il giorno ad apposite stazioni provviste d’acqua, le Idreume (Hydreumae), di cui Plinio ne enumera alcune, che si trovavano opportunamente distanziate a un giorno di cammino l’una dall’altra (quindi tra 30 e 40 Km). Plinio ricorda infine che dal porto di Berenice Trogloditica si salpava verso la costa araba, e da lì quindi verso le ricche Indie, iniziando preferibilmente la navigazione a metà dell’estate, prima del sorgere della costellazione del Cane (18 luglio), o immediatamente dopo, giungendo così verso il 30° giorno di viaggio al porto di Oceli d’Arabia. Oppure le merci, da Berenice Trogloditica giungevano al porto arabo sulla costa dei Thamudeni di Leuke Kome, poi chiamato in epoca romana Albus Vicus, per poi raggiungere Dedan e Hegra, quest’ultima in mano agli arabi Nabatei, raggiungendo la regione dell’oro di Midian e proseguendo poi lungo la famosa e ricchissima “Via delle spezie” che portava alla città di Petra e da lì in Siria, per terminare infine a Roma. Il geografo Tolomeo posizionò la Berenice Trogloditica molto correttamente alla latitudine di 23° 50’N, con soli 5′ di errore; anche Strabone la situa giustamente sullo stesso parallelo di Siene, l’odierna Aswan. Le rovine della città di Berenice Trogloditica vennero scoperte da G.B. Belzoni l’ 8 ottobre 1818, sulla base delle indicazioni geografiche che l’erudito geografo J.B.B. d’Anville aveva tratto dagli autori antichi (Belzoni, 1820: 330-340 e pl. 32-35). Poco tempo prima F. Cailliaud, nel novembre del 1817, aveva scoperto il vasto insediamento minerario della “Montagna degli Smeraldi”, l’attuale Gebel Zabarah e Sikeit, noto ai geografi arabi come medioevali come al-Kharba (o “al-Khirba”, cioè “Carba”), scambiando erroneamente le rovine della città di Sikheit per quelle di Berenice Trogloditica (Cailliaud, 1821: 65), anche a causa di un’iscrizione greca, da lui trovata sul tempio di Sikheit, che citava appunto il nome di Berenice. Belzoni (1820: 331 e 334) scoprì che la vera Berenice, effettivamente situata in un’ampia baia del Mar Rosso e parzialmente coperta dalla sabbia, aveva un’estensione di soli 500 x 700 m e stimò che poteva contenere circa 2000 case molto piccole (7 x 14 m di media), ma inoltre osservò che la città aveva una pianta ben ordinata, con vie perpendicolari e con una grande strada principale. Vide il porto della città, caratterizzato, come tramandavano gli autori classici, da un basso fondale e stimò, forse esageratamente, che il numero degli abitanti della città poteva essere valutato in 10.000 persone. Infine trovò, al centro della città, un piccolo tempio egizio di arenaria, che misurava 34 x 14 m, dedicato a Serapide, con qualche bassorilievo di Tiberio e con qualche iscrizione geroglifica, fra cui una citava la “Dea della pietra verde” (la divinità tutelare delle miniere di smeraldo) e un’altra la regione di Wawat. Che Berenice Trogloditica sorgesse su un insediamento egizio ben più antico, da cui in epoca dinastica probabilmente partivano le spedizioni egizie per il mitico paese di Punt, è provato, fra l’altro, dal ritrovamento di una fibbia di legno con il cartiglio di Seti I (British Mus.: 2450-3). Le rovine furono in seguito visitate e parzialmente studiate da Wellsted (1838: 332-344), Purdy, Athanasi, Golénischeff, Wilkinson, Schweinfurth, Floyer, Meredith, ecc.; ma non risulta, a parte il frettoloso scavo del Belzoni, sia ancora stato fatto un vero sondaggio e studio archeologico approfondito, probabilmente a motivo della sua attuale importanza strategica come porto militare che rende difficoltoso da tempo l’accesso agli studiosi. Situata nel golfo formato dall’attuale Ras Banas, chiamata anche “Sikeit el-Qibli” o “Madinat al-Hurras”, l’antica città di Berenice Trogloditica infatti è attualmente sede di una grande base militare e navale egiziana nella località portuale chiamata attualmente Bender el-Kebir. Apparentemente è sparito quasi tutto quello che scoprì e vide Belzoni, come il tempio, dedicato a Serapide, di cui restano solo pochi resti molto deteriorati. Ma soprattutto non resta traccia delle rovine della città con i resti delle case e delle strade, al tempo della sua scoperta ancora ben visibili, che sono state evidentemente distrutte dalla costruzione della base militare, e lo stesso si può probabilmente dire delle due grandi necropoli nei pressi della città che vide Belzoni. 2) La terza città di Berenice che cita Plinio (VI: 170) è chiamata “Berenice Epidire” (Berenicen Epi-Dires), cioè, letteralmente in greco, posta “Sull’Istmo”. Situata più a sud, sicuramente sull’attuale costa eritrea del Mar Rosso, era posta su una lingua di terra che si prolungava sul mare, e Plinio afferma che distava solo sette miglia e mezzo dall’Arabia. Quindi il suo porto metteva in comunicazione la costa africana con quella sudarabica, da dove provenivano ricche e pregiate mercanzie come le spezie e gli aromi, e certamente era, nel periodo tolemaico, la principale via commerciale con le favolose Indie. Anche questa Berenice fu fondata con tutta probabilità da Tolomeo II Filadelfo, che per primo conquistò l’Etiopia e che soprannominò la città con il nome della moglie; o da Tolomeo III Evergete, 247-242 a.C., che regnò a lungo in questa regione e ne sviluppò ulteriormente i commerci, come documenta un’iscrizione in greco incisa su un piedistallo di marmo bianco, chiamata “Monumentum Adulitanum“, menzionata nel VI secolo da Cosmas Indicopleustes e ritrovata in seguito da Salt, ai primi dell’800 nel vicino porto di Adulis presso la costa eritrea: anche questa città fu evidentemente rifondata da Tolomeo III su un insediamento precedente, di origine sudarabica, risalente a prima del V secolo a.C. (Conti-Rossini, 1928). Questa iscrizione vanta, fra l’altro, le conquiste del re in Asia, successi resi possibili grazie ai soldati, alle navi e soprattutto agli elefanti provenienti dalla Trogloditica, dalla Nubia meridionale, e dall’Etiopia; provenienti cioè da quelle due distanti regioni, da cui certamente i Tolomei traevano enormi ricchezze grazie all’apertura e allo sviluppo dei due nuovi porti meridionali di Berenice Epidera e di Adulis per i commerci con l’Arabia e l’Asia e per importare le merci preziose dell’Africa centrale. Berenice Epidera, evidentemente la stessa che fu in seguito chiamata da Strabone “Berenice presso Saba” (“Berenice ad Saba“), era con tutta probabilità un porto situato poco a sud della baia di Assab, toponimo che chiaramente deriva dall’antica “Sabe” (Conti-Rossini, 1928: 60 e Tav. XXIV). Essa era posta presso lo stretto di Bab el-Mandeb, nella odierna località costiere di Baada, e le sue poche rovine che restano, non ancora identificate con certezza e tanto meno studiate, si trovano presso l’attuale paese eritreo di Rahéita (AA.VV., 1938: 341). Anticamente era un porto del regno sudarabico di Saba che si estendeva in Etiopia, su cui per un certo periodo regnò la regina yemenita dei Sabei, Bilkit. Secondo la tradizione leggendaria etiope, non ancora suffragata da prove archeologiche, questa mitica regina di Saba sposò il re Salomone, verso l’XI secolo a.C., e il frutto di questa unione diede luogo alla stirpe reale dei Menelik, imperatori di Etiopia. Comunque questo porto veniva certamente utilizzato, oltre che per il commercio degli aromi e delle spezie con l’Arabia, come principale via di comunicazione dell’antichità per il ricco commercio con le Indie, tramite l’altrettanto antico porto di Aden, situato a sud della vicina sponda della “Arabia Felix”, appena oltre lo stretto di “Bab el-Mandeb” facilmente navigabile anche per le navi dell’epoca. Inoltre, è probabile che proprio in questa zona tra l’Etiopia e il Sudarabia si possa situare il mitico e ricchissimo paese di Punt, meta di tante spedizioni navali degli antichi egizi. E’ molto probabile che la città di Berenice Epidire fosse servita come base, da parte dei re tolomei, anche per la ricerca di nuove regioni aurifere, situate all’interno dell’Africa centrale (Budge, 1928: 230-232). Sembra infatti che lo sfruttamento aurifero si fosse a quel tempo esteso notevolmente a sud, all’interno dell’Eritrea, come testimoniano le ricerche mineralogiche di Prasso (1939), che rinvenne in quelle regioni estese tracce di antichi scavi minerari, e in alcuni di questi trovò diverse antiche monete, bizantine e forse tolemaiche, insieme ad altri resti archeologici, probabilmente anche egizi. Fra l’altro il Prasso scoprì le miniere di platino dell’Eritrea, metallo che venne usato anche dagli Egizi, sia pur non certo ai livelli dell’oro, e la cui origine deve essere evidentemente collocata nell’Abissinia occidentale, o nella altrettanto distante regione di Sennar (Lucas: 244-245). Il platino, che gli Egizi chiamavano “L’oro bianco”, o tcham, era comunque noto fin dalla V Dinastia, come è testimoniato dalla “Stele di Palermo”, e sappiamo che i re della XVIII Dinastia, come per esempio Thutmosi I, facevano ricoprire i pyramidion dei loro obelischi con questo metallo prezioso (Budge, 1928: I, 8). Tutto questo prova quanto la ricerca e lo sfruttamento minerario dell’oro e del platino, anche da parte dei faraoni dell’Antico Regno, si spingesse a meridione fino a raggiungere le distanti regioni di Punt, regione probabilmente situata sulla costa somala-yemenita da cui proveniva molto oro, e la stessa Africa centrale. Questo sfruttamento da parte dei re tolomei dovette in qualche modo, in seguito, entrare in conflitto con l’insorgente conquista delle coste abissine dei sudarabici, che si impadronirono prima del porto di Adulis, e in seguito fondarono il Regno di Axum, che presto divenne, dall’inizio della nostra era fino al VI secolo, la nuova potenza colletrice dell’oro che proveniva dall’Eritrea, dall’Abissinia e dalla stessa Nubia. La costa presso il porto di Assab fu esplorata dal diplomatico e archeologo Salt nel 1809, che ritrovò anche l’iscrizione di Tolomeo III ad Adulis, già menzionata da Cosmas Indicopleustes nel VI secolo. La sua identificazione con la Berenice Epidera la si deve ai lavori del geografo francese J.B.B. d’Anville (1768) e soprattutto dalla ricerca di C. Conti-Rossini (1928: Tav. XXIV). 3) Ma, oltre alle due precedenti, Plinio cita (VI: 170) anche una ulteriore città col nome di Berenice, nominata dall’autore tra le altre due, che quindi evidentemente doveva essere posizionata anche geograficamente fra le altre due (Anville, 1766; 1768): è la “Berenice Pancrisia” (Plinio: “…Berenicen alteram, quae Panchrysos cognominata est…”), appellativo tradotto abitualmente dal greco col termine “Tutta d’oro”, con evidente riferimento all’attività mineraria e al commercio dell’oro. E’ da notare che questo toponimo non appare presso altri autori antichi, che pure menzionano la grande attività mineraria nella stessa zona (si veda: Agatharchide, Diodoro, Fozio, Strabone, ecc.). Anzi, lo stesso Plinio si stupisce che questa città non sia ricordata nell’importante opera geografica di Giuba, opera purtroppo per noi perduta, tanto da fargli pensare che possa esserci stato un errore della sua copia. Si può presumere che il nome di Berenice Pancrisia venne dato alla “Città dell’oro” solo per un periodo di tempo limitato, a causa di eventi politici che conosciamo solo in parte, probabilmente per un intervallo di tempo che va dalla sua rifondazione verso il 260 a.C., anno in cui all’incirca iniziò la penetrazione tolemaica nella Trogloditica e nell’Etiopia, da parte di Tolomeo II Filadelfo, fino alla morte del suo successore Tolomeo IV, dopo di cui i Tolomei persero il controllo delle miniere nubiane ed etiopiche, e comunque non oltre alla fine del regno tolemaico, cioè non oltre a Tolomeo VI Filométore: quindi da un minimo di una sessantina d’anni ad un massimo di 120 anni (Pirenne: 1968; Agatharchides, 1989: 3-18). Quindi dobbiamo ricercare come si modificò il nome della città sia prima che dopo l’epoca tolemaica. E’ certo, da innumerevoli testimonianze scritte, che in seguito alla conquista araba la città si chiamò “Alachi”, e continuò per un certo periodo di tempo, almeno fino al XII secolo, a essere un importantissimo centro minerario per l’estrazione, la raccolta e il commercio dell’oro; anzi, fu certamente il più grande centro del mondo a quel tempo noto, da cui si ricavava e esportava l’oro in tutto il mondo islamico di allora. E le sue tracce, di straordinario centro minerario dell’antichità, possono essere ricercate, come vedremo, molto indietro rispetto al periodo tolemaico.
BERENICE PANCRISIA L’identificazione di Berenice Pancrisia con le rovine di Alachi la si deve principalmente al d’Anville, famoso geografo e storiografo francese della seconda metà del XVIII secolo, che afferma con convinzione l’identità della “Città dell’oro” di Berenice Pancrisia, citata da Plinio, con la città mineraria che gli antichi geografi arabi, come Ya’qubi, Idrisi, Maqrizi, Ebn-Said, Aboolfida, ecc., hanno chiamato, a partire dal IX secolo in poi, col nome di “‘Allaqi”, “Olachi” o “Ollachi” (Anville, 1766: 273-277; 1768, Tome III: 57-61). Il testo del d’Anville (1766: mappa ‘Golfe Arabique‘) contiene anche una carta della costa africana sul Mar Rosso in cui sono situate la Berenice Trogloditica, la Berenice Pancrisia, le montagne di Ollaqi, il porto di Salaka, la punta di Calmés, la Berenice Epidire, ecc. Una carta simile, ma con Berenice Pancrisia spostata leggermente verso l’interno, verrà pubblicata nel 1827 da Cailliaud. Non è chiaro perché il d’Anville ponga Berenice Pancrisia e le montagne di Ollaqi (cioè di Allaki) poco all’interno rispetto al porto di Salaka: l’autore non ne spiega il motivo, e questo è certamente in netta contraddizione con quanto affermano le fonti arabe che pongono chiaramente la stessa città dell’oro, Alachi, le montagne di Ollaqi con le sue miniere, molto all’interno nel deserto dei Beja, cioè nell’Etbai, l’attuale Deserto Nubiano. Idrisi infatti, per esempio, parla di 12 giorni di marcia per giungere da Allaki al porto di ‘Aidhab sul Mar Rosso, la cui posizione è nota; Aboulfeda parla di 8 giorni, ecc. Il porto di ‘Aidhab era anticamente il porto di partenza per l’oro estratto da Alachi, soppiantando probabilmente il precedente porto Salaka, ed entrambi dovevano essere molto vicini. In epoca islamica questa città divenne il principale porto di partenza per i pellegrini che si recavano alla Mecca, poiché la strada via terra era divenuta insicura a causa delle guerre scatenate dai Crociati. ‘Aidhab fu distrutta dal Sultano dell’Egitto nel 1426, e il suo ruolo, di ponte religioso e commerciale con l’Arabia e l’Asia, fu preso in seguito da Suakin, porto posto più a meridione e fondato, come ci riportano le fonti storiche arabe, da dei Yemeniti dell’Hadramaut. Presso questo porto, poco più a sud-est di Tokar, in una località chiamata attualmente Aquiq , o ‘Aqiq (Isaderheib), si trovava quasi certamente l’antico posto di caccia voluto da Tolomeo II Filadelfo, la Tolemaide Epitera (o Tolemaide delle Cacce), citata più volte, fra gli altri, anche da Agatharchide, Diodoro, Plinio e Strabone (Crowfoot, 1911; Agatharchides, 1989). Questo piccolo porto che, come ci racconta Strabone, fu fondato qualche tempo prima del 260 a.C. dall’inviato di Tolomeo II, il generale Eumede, continuò a essere usato fin dopo il I secolo d.C., e consisteva in una piccola città senza vere e proprie installazioni portuali, adibita, oltre come centro di caccia per i re tolomei, soprattutto per il commercio degli elefanti da guerra catturati più a sud, probabilmente nella valle di Baraka, l’antico fiume Astabora; animali molto richiesti dai Tolomei per le loro spedizioni militari, e, ovviamente, anche per il loro avorio, allora altamente valutato. Questi grandi pachidermi, forse catturati con l’aiuto dei Meroitici che possedevano un centro di addomesticazione e di commercio a Musawwarat es-Sufra, venivano normalmente imbarcati a Tolemaide delle Cacce e trasportati via Mar Rosso fino a Berenice Trogloditica, da dove venivano condotti via deserto fino a Coptos sul Nilo, attraverso la “Carovaniera dei 12 giorni” di Plinio (Agatharchides, 1989: 7-12). La notevole distanza dal mare della città di Alachi, cioè di Berenice Pancrisia, e delle sue miniere, si deduce chiaramente consultando sia la cartografia araba del XI-XV secolo (Huwarismi, Idrisi, ecc.), sia la cartografia occidentale del XIV-XVII secolo (si veda lista nelle ‘Fonti cartografiche’): la città è indicata sicuramente col toponimo di “Alachi”, e la sua identificazione con la più antica denominazione di “Ma’din”, “La Miniera” per antonomasia, e di “Ma’din ad-dahab”, “La Miniera dell’oro”, è indubitabile. Inoltre, tutti gli autori arabi sono sempre concordi nel posizionare queste miniere, le montagne e la città di Alachi (o ‘Allaki, ‘Allaqi, Ollaqi, ‘Ilaki, ‘Ulaki, ‘Ullaki, ecc.), ben all’interno nel Deserto Nubiano. Da tutte queste circostanze sembra evidente l’errore di base del d’Anville: l’autore era convinto che Berenice Pancrisia dovesse necessariamente essere un porto situato sul Mar Rosso, e su quella costa dovesse essere ricercata; evidentemente perché lo erano le altre due Berenice. Ma questo Plinio non lo afferma, al contrario delle altre due città portuali! Bisogna comunque osservare che all’epoca non era stata ancora scoperta neppure la Berenice Trogloditica, cosa che avvenne da parte di Belzoni solo 52 anni dopo (Belzoni, 1820)! Comunque l’identificazione della Berenice Pancrisia di Plinio con le miniere di Allaki (Ollaqi) e con la città di Alachi, confusa erroneamente con la località costiera di Salaka, fu sostenuta in seguito anche dallo storico Heeren (1800 e 1834), dal Vincent, da Jomard (In: Cailliaud, 1821) e infine dal filologo Muller (1882: 123-124). Questi fu il primo che si accorse come non fosse sostenibile l’identificazione della località marittima di Salaka con le famose miniere, poiché non era possibile conciliare le testimonianze dei geografi arabi che le posizionavano ben all’interno del deserto, almeno a otto giorni di marcia dalla costa del Mar Rosso e a dodici dal Nilo. E’ importante notare che, unendo e confrontando le notizie geografiche sulle miniere d’oro di Diodoro Siculo e di Fozio, che si rifacevano alle fonti di Agatharchide, appare evidente che entrambi questi autori hanno descritto proprio le miniere della regione dell’Uadi Allaki. Infatti Diodoro afferma che queste miniere sono situate “all’estremità meridionale dell’Egitto”, anzi, precisa inoltre che esse “sono poste ai confini della vicina Arabia e dell’Etiopia”, cioè ai confini del Deserto Orientale, o Arabico, col Deserto Nubiano, situato nell’odierno Sudan tra la I e III Cateratta del Nilo; mentre Fozio parallelamente precisa che le miniere d’oro si trovano sul versante del Mar Rosso, nella regione compresa dall’ansa del Nilo “quando questi volge decisamente a oriente”, il che corrisponde perfettamente, nell’ambito del Deserto Nubiano, alla regione mineraria dell’Uadi Allaki (Diodore, 1737; Mullerus, 1882; Mieli, 1925; Agatharchides, 1989; ecc.). Questo fatto, come già affermavano fra gli altri anche Erodoto (L.II: 31) e Strabone (17.1.2), era ben noto agli autori e ai geografi classici, almeno dal III secolo a.C., ed Eratostene, tramandatoci essenzialmente da Strabone, e la “Cosmographia” di Tolomeo ne danno un’ulteriore conferma, che, guardando verso meridione al di là dell’isola di Elefantina, il corso del Nilo volgeva decisamente a Occidente, a partire dalla Cateratta di Dal, situata tra la II e la III Cateratta, fino all’imboccatura dell’Uadi Allaki. Inoltre gli imponenti lavori minerari, che entrambi gli autori meticolosamente descrivono traendoli da Agatharchide, la grande moltitudine di gente impiegata e costretta all’estrazione e alla lavorazione dell’oro, richiedevano necessariamente un importante insediamento abitativo e delle strutture logistiche non indifferenti, il che corrisponde perfettamente all’insediamento di Deraheib con i suoi imponenti lavori minerari per l’estrazione dell’oro, quindi al sito di Berenice Pancrisia e alle rovine della città di Alachi. Che la miniera d’oro descritta da Agatharchide, e di conseguenza da Diodoro Siculo e da Fozio, debba necessariamente trovarsi nell’Uadi Allaki (o Allaqui, Ollaki, Ollaqui) è decisamente affermato, fra gli altri, oltre che dal famoso geografo J.B.B. d’Anville, da L.-M.-A. Linant de Bellefonds (1836), che fu il primo esploratore a percorrere il Deserto Nubiano e, anche se parzialmente l’Uadi Allaki, da E. A. Floyer (1892), da S.C. Dunn (1911), da D. Newbold (1930-34; 1948), da E.A. Budge-Wallis (1907), ma soprattutto da S.M. Burstein nel suo approfondito commento alla riedizione dell’opera di Agatharchide (Agatharchides, 1989: 15, 26, 29, 59-60, 62, 65 e 67). Tutto questo non può che confermare ulteriormente l’identificazione del sito con la città tolemaica di Berenice Pancrisia, soprattutto in considerazione del fatto che il suo insediamento minerario e abitativo è di gran lunga il più imponente di tutto il corso dell’Uadi Allaki e dell’intero Deserto Nubiano. Diversi secoli dopo, al-Huwarizmi, importante geografo-astronomo arabo alla corte degli Abbasidi, scrisse nell’830 circa per ordine del califfo al-Ma’mun, rifacendosi essenzialmente alle fonti del geografo alessandrino Claudio Tolomeo in suo possesso, ma attingendo anche da altre fonti ora perdute, un’importante opera geografica e disegnò, per ordine dello stesso califfo, un grande mappamondo, o una grande carta geografica, del mondo e dell’universo allora noto, opera attualmente perduta, ma di cui ci resta qualche carta tramandateci da copisti della sua opera d’epoca posteriore. Fra queste si trova un’interessante carta del corso del Nilo comprendente il “Paese dei Bogah” (cioè dei Beja) del Deserto Orientale e Nubiano, il cui originale di al-Huwarizmi, che doveva necessariamente essere ben più dettagliato, è purtroppo andato perduto. Il geografo arabo, descrivendo nella sua opera geografica quel deserto a oriente del Nilo, posizionò alla latitudine tolemaica (la longitudine non è possibile estrapolarla a causa dell’elevato errore della proiezione geografica tolemaica) di 21° 45′ N, quella che chiama la “Miniera dell’oro” (“Ma’din ad-dahab“). La stessa posizione è riportata dal geografo arabo Ibn Yunus, che operò alla corte del califfo al-Hakim verso il 1000, con il nome equivalente di Ma’din adh-dhahab. Poiché la risoluzione delle posizioni riferite alle coordinate tolemaiche non è mai inferiore ai 5′, possiamo stimare che la posizione sia compresa tra i 21° 40′ e i 21° 50′ N. Quindi l’errore di latitudine con la posizione di 21° 56,9’N 35° 08,6’E, riferita al termine sud delle rovine della città, risulta di soli 7′, equivalenti quindi a poco più di 12 km in linea d’aria, cosa veramente stupefacente per un’opera geografica così antica; posizione che evidentemente al-Huwarizmi copiò da un testo perduto, dato che essa non esiste nei testi di Claudio Tolomeo pervenutici. Anche la carta che correda il manoscritto di al-Huwarizmi conservato a Strasburgo mostra la stessa “Miniera dell’oro dei Boga”, posizionata all’interno del Deserto Orientale e correttamente situata molto a oriente di Aswan. Questa stessa città, situata praticamente nella corretta posizione in cui abbiamo trovato le rovine, come si è già accennato è chiaramente segnata sulle prime carte a stampa dei geografi occidentali, dal 1500 in poi, col toponimo inequivocabile di “Alachi”, a partire da Gastaldi, Ortelio, Hondio e Mercatore in poi, che certamente attinsero alle fonti dei precedenti geografi arabi. Questo toponimo, come vedremo, scompare nella cartografia occidentale verso il 1650, molto probabilmente perché nessuna fonte recente confermava l’esistenza di questa città perduta nel deserto. D’altronde, a quell’epoca, la città era certamente abbandonata e in rovina, poiché nei secoli XI-XII vi fu un vero e proprio crollo della richiesta e del valore dell’oro, che da allora non venne più utilizzato neanche per battere moneta, a vantaggio del più resistente argento che veniva estratto abbondantemente dalle miniere spagnole appena conquistate, che aveva quindi il pregio, rispetto all’oro, di essere più facilmente reperibile, soprattutto in occidente.
Da questi dati appare evidente che l’identificazione tra la “Berenice Pancrisia”, cioè la “Città tutta d’oro” o la “Città di Pan (donatore) d’oro”, con le rovine dell’insediamento di Deraheib, a sua volta certamente da identificarsi con la la storica città di Alachi, che costituiva il centro principale della regione dell’oro degli antichi geografi arabi e medioevali, è l’unica ipotesi sostenibile per giustificare un insediamento di queste proporzioni nel mezzo di un deserto che certo non ha mai avuto nessun altro genere di risorse per motivare questa circostanza.
Come si è già detto, molti autori arabi, ripresi dal d’Anville, riferiscono che la città e le miniere di Alachi possedevano uno sbocco sul Mar Rosso, quindi un porto, per consentire l’esportazione dell’oro via mare. E’ significativo osservare come la via commerciale dell’esportazione dell’oro estratto da quelle miniere non seguisse più, a partire dalla conquista araba dell’Egitto e del Sudan, la lunga e difficile carovaniera del deserto verso il Nilo, l’antica strada dei 12 giorni di Plinio. Probabilmente questa via era troppo divenuta insicura, o anche in seguito allo sviluppo marittimo degli Arabi, si preferì seguire la via del Mar Rosso, che consentiva oltre tutto di raggiungere più comodamente la Penisola Araba. Questo porto si raggiungeva tramite una pista che, partendo dalla città di Alachi, attraversava le montagne di Allaki e superava i difficili passi montuosi per raggiungere il porto di “Salaka”, toponimo chiaramente corrispondente all’attuale “Marsa Salak”, località che corrisponde bene come altezza alla posizione dell’Uadi Allaki, situata presso l’antico porto arabo di ‘Aidhab. Questa città, che in seguito divenne famosa come punto di partenza per i pellegrini che si recavano alla Mecca, in effetti si chiamava ancora nel XII col toponimo di ‘Adhdhab (per es. in al-Bakri), che potrebbe derivare da “ad-dahab“, cioè “dell’oro”, con evidente riferimento al commercio di questo metallo prezioso. Le rovine del porto di ‘Aidhab furono scoperte da Thedore Bent nel Gennaio del 1986 (Bent, 1896: 336) e in seguito visitate da George Murray nel Dicembre del 1925 (Murray, 1926), e recentemente da Ali Hakem (1992) e da una missione archeologica francese e poi giapponese, ma non risulta che nessuno abbia ancora trovato, o identificato, i resti della città e del porto di Salaka. In effetti a Marsa Salaka non esiste alcuna segnalazione che citi rovine o ritrovamenti archeologici in quell’area (Hinkel, 1992: 183-184).
Per identificare l’origine dell’insediamento minerario da noi trovato nell’Uadi Allaki con i riferimenti storico-archeologici precedenti all’epoca tolemaica, bisogna risalire alle fonti egizie del Medio e Nuovo Regno, anche se la penetrazione egizia nel Deserto Orientale, intesa sia come spedizioni di conquista, sia come spedizioni esplorative e di prospezioni minerarie, si può far risalire con certezza all’Antico Regno, e probabilmente anche prima (Bongrani, 1991). La “Terra di Wawat” (o “Wowet”, “Uauat”, “Uaua”), come è chiamata generalmente dagli Egizi la regione desertica a oriente del Nilo situata nella Bassa Nubia, oggi chiamata “Deserto Nubiano”, o “Deserto dell’Etbai (o Atbai)” che dipendeva amministrativamente da Mi’am (l’attuale Aniba), posta lungo il Nilo, era citata soprattutto nei testi del Nuovo Regno, la cui località più ricca in oro fu in seguito nota col nome di Akita (o “Akaita”, “Akuita”, “Ikita”, “Akati”), toponimo questo che in quel periodo designava la regione orientale del deserto di Wawat, confinante con l’altra importante regione dell’oro di Ibhet, situata probabilmente più a sud-est della II Cateratta, (Save-Soderbergh, 1941; Piotrovsky, 1967: 134-136; Trigger, 1976: 111-114; O’Connor, 1982: 906-907 e fig. 12.19; ecc.). Quindi Akita era per gli Egizi quell’impervia regione montagnosa posta nell’area orientale del deserto di Wawat da cui, con alterna fortuna, a causa della mancanza di pozzi, della difficoltà e della lontananza del percorso in un deserto privo di punti d’acqua, e anche a causa dell’ostilità delle tribù Medjai (Megia) che popolavano quella regione, proveniva di gran lunga il maggiore quantitativo d’oro rispetto alle altre due grandi regioni minerarie, quelle di Coptos e di Kush, di più facile accesso e sfruttamento, ma molto meno ricche di oro (Vercoutter, 1959; Adams, 1977: 231-235; Bongrani, 1991; ecc.). E l’oro che proveniva da quella distante regione, quando questa poteva essere pienamente sfruttata, era di gran lunga più abbondante di quello che proveniva dalle due altre regioni minerarie dell’antico Egitto, Koptos e Kush: così infatti testimoniano chiaramente, per esempio, gli “Annali di Thutmosi III” (Vercoutter, 1959: 128-130; Adams, 1977: 231-235; ecc.) (si veda testo nelle “Fonti egizie”). Riguardo alla consistenza dell’oro che proveniva da Wawat, la cui maggioranza veniva ricavata dalla regione di Akita, basterà ricordare, oltre ai quantitativi citati da Thutmosi III nei suoi “Annali”, che nella tomba di Tutankhamen, unica sepoltura regale non radicalmente depredata, il quantitativo d’oro trovato rappresentava il doppio della totale riserva aurea di allora della Banca d’Egitto (Lombard, 1980: 131); e che solo uno dei molti sarcofagi d’oro, che contenevano la mummia del faraone, pesava oltre 110 kg ed era fuso in un solo pezzo (Lucas, 1989: 230). Il toponimo egizio di Wawat è apparentemente sopravvissuto fino all’epoca attuale, poiché esiste un villaggio che si chiama ancora oggi “Wawa” (o Wahwah, o Ouaou) (Schiff-Giorgini, 1965: 3, 13-14, 49 e 141; e altre fonti). Questo villaggio nubiano si trova all’altezza delle rovine del tempio di Soleb sulla sponda destra del Nilo, ed è posto a sud rispetto all’imboccatura dell’Uadi Allaki, ma comunque è posizionato al centro del Deserto dell’Etbai, in modo da controllare l’antica regione di Wawat. Inoltre l’importante storico arabo al-Maqrizi scriveva nel XV secolo che il distretto di ‘Alwa era governato, ancora al suo tempo, da un ufficiale (wali) conosciuto col nome di “al-Wahwah” (Vantini, 1975: 609). E’ possibile che questo governatore sia identificabile con un suo più antico predecessore, chiamato il “Signore della Montagna” (“Sahib al-Jabal“), che gli storici arabi citano più volte (Quatremère, 1811: II, 9; Vantini, 1975 [citazioni di vari autori arabi]; ecc.). Questo misterioso personaggio governava con potere assoluto tutta la regione montagnosa del Deserto dell’Etbai, posta a sud dell’ Egitto islamizzato, ed era quindi il vero padrone delle miniere del deserto dei Beja, e pertano, con tutta probabilità, anche delle miniere dell’Uadi Allaki e della città di Alachi. Inoltre il suo titolo si può trovare in epoche ben precedenti a quella araba, nella forma di: “Wahwah, il Governatore delle Porte della Nubia” (Quatremère, 1811: II, 17 e 532); e molto probabilmente questa carica è identificabile con quella egizia del “Guardiano delle Porte del Sud” che, a partire dalla VI Dinastia controllava le spedizioni e i commerci diretti a Sud di Aswan. Il potere di questo principe era tale che non si poteva penetrare nel deserto montagnoso se non con il suo consenso, che spesso si otteneva con dei doni adeguati. La sua autorità si estendeva fino al borgo nubiano di al-Kasr (“il Castello”), posto a soli 10 km a sud di Aswan (ibidem, 1811: II-7 e 9), frontiera che non si poteva oltrepassare senza il suo assenso, mentre il suo luogo fortificato principale era costituito dalla fortezza Daw, posta ‘alla testa della Cateratta della Nubia’, e l’isola di Mika’il (Michele?) (Vantini, 1975: 470-471, 478-479, 530-533, 540-541, 648, 680 e 684). Il “Signore della Montagna” ubbidiva solo al re cristiano di Nubia, ma questo principe non permetteva a nessuno di presentarsi al cospetto del re medesimo (Quatrèmere, 1811: II, 9; Vantini, 1975: 602-603). E’ da notare infine che tutti coloro che volevano recarsi in Nubia erano costretti ad attraversare il deserto sottoposto al suo controllo, poiché il cammino lungo il Nilo era sbarrato della distesa rocciosa, di difficile attraversamento, situata tra la Seconda (o Grande) e la Terza Cateratta, che gli Arabi hanno per questo chiamato “Batn el-Hajar”, cioè il “Ventre della Pietra”. Ecco perché, nella cartografia europea dal XII al XV, secolo appare raffigurata un’estesa catena montagnosa che sbarra il corso del Nilo, chiamata con il nome esplicito di “Porte della Nubia” (si veda, per esempio, la ‘Mappa Mundi’ del British Museum); porte che evidentemente erano sotto il diretto controllo del principe chiamato “al-Wahwah”, identificabile col potente alleato del re cristiano di Nubia, il “Signore della Montagna”. Bisogna sottolineare la chiara identità culturale, e certamente anche etnica, che accomuna l’antica popolazione dei “Medjai”, o “Megia”, i “Vili asiatici” ben noti agli antichi egizi, che occupavano appunto la regione di Wawat, con i “Trogloditi”, o meglio, i “Nomadi Trogloditi” degli autori classici, che abitavano il deserto a oriente del Nilo e che vivevano in un territorio ricco di miniere di oro, argento, ferro, rame, alberi di ebano e infine di pietre preziose, e che adoravano, fra le altre divinità classiche, soprattutto il dio Pan (Diodoro, I: 33; Strabone XVII: 1). Tutte le fonti classiche ci dicono che questa popolazione viveva in gallerie o grotte, cioè nelle loro miniere, poiché non vi sono nella regione grotte naturali, “che loro stessi scavano”. Al gruppo delle genti trogloditiche, in particolare al gruppo che i Greci chiamavano “Nomadi Trogloditi”, apparteneva anche la popolazione dei “Megabarri” (o “Megabari”, “Megabarei”, “Adiabari”), già citata da Eratostene da Cirene, da Agatharchide di Cnido, da Diodoro Siculo e da Strabone, ma già noti nei testi egizi col nome di “‘Mhbr”, e che probabilmente erano in stretto rapporto con i Tolomei (Agatharchides, 1989: 112). Questa popolazione, come ci sottolinea Plinio (VI: 189), viveva in una regione del Deserto Nubiano “ricchissima in oro” e a “cui appartiene la città di Apollo”, città identificabile con la “Apolline” citata da Strabone (XVII: 1), che li situa comunque tra il Nilo e il Mar Rosso. Questo autore descrive i Megabarri come un feroce popolo guerriero, praticante la pastorizia, che combatteva con archi, lance e con clave rivestite di ferro e che portava scudi fatti di cuoio di bue (come già aveva affermato Agatharchide): essi abitavano il deserto posto tra la città di Meroe, le coste del Mar Rosso e l’Egitto, “dove si trovano miniere di rame, ferro, oro e di vari tipi di pietre preziose”. Inoltre afferma (sempre come Agatharchide, riportato da Diodoro e Fozio) che i loro morti venivano legati dal collo ai calcagni, in posizione fetale, e venivano portati sulla cima delle colline, dove essi venivano colpiti con pietre finchè non ne venissero interamente ricoperti; infine sopra a ciascun tumulo ponevano un corno di capra o di altro animale. E’ quindi plausibile ritenere che i tumuli e i monumenti a forma cilindrica, presenti in gran numero sui rilievi del Deserto Orientale e Nubiano, siano in parte ascrivibili ai monumenti sepolcrali dei Megabarri e delle tribù dei Blemmi a loro correlati. Forse questa etnia dei guerrieri Megabarri si è perpetrata fino a non molto tempo fa, poiché Burckhardt riferisce della tribù dei “Mekaberab” che viveva tra Dàmer e Shendi (Burckhardt, 1819: 272; MacMichael, 1967: 234). Una famosa e favolosa popolazione dei Trogloditi fu quella dei “Blemmi”: questi uomini erano caratterizzati, secondo gli autori classici, da un aspetto mostruoso, non avendo testa e con le fattezze del volto poste sul petto. A parte la loro straordinaria deformità, è la stessa popolazione che gli autori arabi in seguito chiamarono col nome di Beja, (o “Bogah”, o altri appellativi simili), e che ci descrivono concordemente come indomabili nomadi pastori, guerrieri dediti alle razzie delle carovane, allevatori di cammelli, e infine come i veri padroni delle favolose miniere d’oro e di pietre preziose che esistevano in abbondanza appunto nel “Deserto dei Bogah”, situato a oriente del Nilo (si veda Nota 1). Sembra anche molto probabile che l’introduzione del cammello domestico (dromedario), mezzo indispensabile per percorrere i deserti dopo l’inaridimento ambientale che seguì all’Antico Regno, fu proprio introdotto dalla penisola araba, forse dallo Yemen attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb, dai Blemmi trogloditi in epoca molto antica, già all’inizio del I millennio a.C., o anche prima, come confermerebbe una datazione su ossa al C14 (Rowley-Conwy, 1988: 93). Molto probabilmente una seconda introduzione del cammello, questa volta portato dalla Siria nel corso dell’invasione assira in Egitto, si verificò nell’VIII, o, al più tardi, nel VII secolo a.C. (Hakem, comunicazione personale, 1993). I Blemmi, come fecero in seguito anche i Beja loro discendenti, custodirono gelosamente per molto tempo il segreto dell’allevamento del cammello (Camelus dromedarius); e soprattutto mantennero per diversi secoli il monopolio del suo utilizzo nelle carovane del deserto (si veda Nota 2). Infine è comunque accertato da diversi autori (per es.: Schiapparelli, Wilkinson, Floyer, Budge-Wallis, Dunn, Newbold, Vercoutter, O’Connor, ecc.), che si sono occupati del problema della collocazione geografica della miniere d’oro nella regione orientale di Wawat, in seguito chiamata più precisamente col nome di “Akita” (Budge, 1907: I, 549; Schiapparelli, 1916: 53 e 70-71; ecc.), o “Akaita”, “Akuita”, “Ikita”, “Akati”, e quindi di conseguenza la località di Deraheib con le sue profonde miniere e la stessa città di Berenice Pancrisia, si trovano all’interno di questa antica regione aurifera (O’Connor: 1982: 906-907 e figg. 12.19; 12.28). La regione di Akita era forse nota anche col toponimo di “Ibhet”, ma più probabilmente, con questa designazione si individuava una regione ancora più orientale e meridionale rispetto alle miniere dell’Uadi Allaki, riferibile con tutta probabilità alle miniere della regione di Onib e dell’Uadi Oko, in particolare a quelle di “Old Onib” e di “Gebeit” (o “Gabait”), che mostrano anch’esse uno sfruttamento molto antico, risalente almeno al Nuovo Regno dalla presenza di diverse macine a sfregamento nella breccia verde e nera caratteristica di quel periodo (Negro, osservazione personale, 1991; Hinkell, 1992: 170-173). La stessa regione di Akita viene anche denominata, a partire dal Medio Regno, con l’appellativo di “Il Deserto di Ta-Seti” (Vercoutter, 1959: 131-132), dove il toponimo “Ta-Seti”, o “Ta-Sti”, propriamente detto indica la regione della bassa Nubia, corrispondente alle località di Qustul, Farras, Sarras e Siali, mentre il “Deserto di Ta-Seti” indica più precisamente la regione mineraria a oriente del Nilo. E’ anche probabile che l’appellativo del Nuovo Regno di “La Montagna di Khenti-hen-Nefer” sia un semplice sinonimo di “Ta-Seti”, che sembra indicare delle miniere del deserto poste in valli (?), forse più prossime al Nilo. E’ però possibile, secondo noi, che “Le valli del Deserto di Ta-Seti” che procurano oro in milioni, non siano altro che gli innumerevoli centri minerari posti nella regione dell’Uadi Cabgaba e dei suoi affluenti che gravitavano intorno al centro minerario di Alachi. Secondo lo stesso autore invece (ibidem: 132-133), rifacendosi all’identificazione del Papiro delle miniere d’oro di Seti I sostenuta da Goyon (1949: 351-357) con le miniere dell’Uadi Hammamat, ritiene che il toponimo susseguente, che cita le miniere d’oro di “La Montagna Sacra” (o “La Montagna Pura”), si debba riferire a una montagna situata nello stesso Uadi Hammamat, poiché lo stesso toponimo, “Dw-w’b“, è chiaramente riportato anche sul Papiro di Torino. Ma, al contrario, appare evidente come questa collocazione sia ben più correttamente riferibile proprio alla regione egizia di Akita, da cui proveniva la grande maggioranza dell’oro di Wawat, e quindi alla stessa montagna aurifera di Allaki, dove sono situate le miniere d’oro di sicura tipologia egizia, poiché da questa identicità dei toponimi, e soprattutto dalla precisa corrispondenza topografica, la “Mappa delle Miniere d’oro” di Seti I non può che riferirsi proprio alla regione mineraria di Akita, e quindi dell’Uadi Allaki. A ulteriore conferma di questa identificazione, è necessario ricordare che l’iscrizione di Kuban (o Kubban, Quban), fortezza situata all’imboccatura dell’Uadi Allaki, la fortezza di “Baki” per gli Egizi, menziona, come principale centro da cui proveniva l’oro di Wawat, “La Montagna di Akaita” (= Akita), e, come giustamente nota lo Schiapparelli, il toponimo Akaita (o Akati) si è “quasi perfettamente conservato nel nome di Gebel Hegathe, che i Bisharini (cioè i Beja) danno anche presentemente a quel gruppo di monti”: la “Montagna di Akaita” si identifica quindi correttamente con la montagna di Allaki dei geografi arabi (Schiapparelli, 1916: 53 e 70-71), poiché il Gebel Hegathe (o Elgathe) si trova in effetti nell’Uadi Allaki e contrassegna proprio l’inizio della catena continua delle “montagne rosse” aurifere, e inoltre questo Gebel, che è il più elevato della catena dell’Uadi Allaki, è situato solo a pochi km dall’insediamento minerario aurifero di Deraheib e di Berenice Pancrisia.
E’ evidente da una notevole mole di dati e di prove che è dall’Uadi Allaki, per gli Egizi l’antica regione di Akita, che proveniva la maggior parte dell’oro sin dai tempi più antichi. In altre parole le miniere di Alachi costituivano il vero centro dell’attività mineraria degli Egizi, e questa attività proseguì, anche se con fasi alterne di maggiore o minore sfruttamento delle miniere stesse, per almeno 3000 anni, fino all’esaurimento del filone aurifero in epoca araba, cioè fino a circa all’anno 1000 della nostra era. Questa circostanza, unita a una notevole corrispondenza topografica del sito, fanno ritenere un più che probabile collegamento dell’insediamento minerario di Alachi con la famosa “Mappa delle Miniere d’oro” del papiro di Seti I di Torino (Nuovo Regno, tempi posteriori a Seti I e anteriori a Ramsete IV; da 1290 a 1156 a.C.), già ipotizzato in passato da diversi studiosi, quali il Budge-Wallis (1907), il Dunn (1911), lo Newbold (1930-34; 1948), ecc. “Le montagne dal colore rosso (sono quelle) da cui si estrae l’oro”, è scritto in demotico sul papiro riferendosi a quel gruppo di montagne, fra cui è indicata anche la “Montagna su cui risiede Amun” (oppure la “Montagna di Amun”), che ancora oggi appaiono dipinte sulla Mappa di un rosso sbiadito, con persino l’indicazione delle discariche rossicce del minerale grezzo proveniente dalle miniere d’oro: tutti questi elementi ricordano precisamente le montagne quarzifere che contornano il sito minerario di Alachi che proprio in quest’area sono caratterizzate da un colore rosso notevolmente acceso, che si evidenzia in particolare all’ora del tramonto. Infatti, il gruppo di montagne situate sulla sponda ovest e sud dell’Uadi Allaki, che sono proprio quelle dove si trovano le principali miniere e che sono state più intensamente scavate, è effettivamente di un rosso scuro acceso, mentre le altre montagne, quelle che non sono state anticamente sfruttate, verosimilmente perché non contengono quarzo aurifero, sono decisamente di un colore grigio molto scuro. Ma ci sono altre considerazioni a sostegno di questa identificazione: innanzi tutto la notevolissima somiglianza topografica fra la “Mappa delle Miniere d’oro”, ‘la carta geografica (o topografica) più antica del mondo’, e il rilevamento geografico di quel tratto dell’Uadi Allaki. Infatti in quel tratto il corso del fiume è orientato quasi perfettamente in direzione sud-nord, esattamente come esso è disegnato sulla mappa; la caratteristica curva a “S”, al centro della mappa, corrisponde perfettamente all’andamento dell’Uadi in quella zona; la dislocazione delle antiche costruzioni è straordinariamente precisa: l’area dove sono indicati i “templi di Amun”, dove probabilmente veniva conservato e custodito l’oro estratto o il quarzo aurifero da trasportare sul Nilo per il lavaggio, corrisponde con l’area attualmente occupata dalle due fortezze, proprio a ridosso della montagna sud come indicato sulla mappa. In effetti nell’area attualmente occupata in gran parte dai due castelli, come si vede chiaramente dalle foto aeree, esisteva un vasto insediamento sicuramente più antico; le “case dei minatori”, dove presumibilmente si lavorava il quarzo estratto dalle miniere, sono esattamente situate a oriente delle fortezze, subito dopo il piccolo affluente cieco che è orientato verso sud, proprio dove le abbiamo trovate noi, identificandole come le rovine più antiche dell’insediamento; la strada che si inerpica sulla montagna sud, contraddistinta sulla mappa come la “Strada di Ta-Menti”, è un sentiero ben visibile che porta a un vasto insediamento minerario situato appunto al di là della montagna dell’Uadi Allaki; il pozzo indicato sulla mappa, posto a oriente delle casette, è ben identificabile col pozzo dei Beja ancora in attività e che è tuttora utilizzato da questi nomadi. Riguardo alla fedeltà topografica della mappa con la zona dell’Allaki, bisogna tener presente che più di una fedele ricostruzione geografica della località, gli Egizi hanno voluto rappresentare i diversi percorsi effettuabili dalle loro carovane, cioè i vari ‘camminamenti’ possibili, indicando almeno cinque percorsi per recarsi e allontanarsi dalla località. Infatti se prendiamo la strada che è stranamente cosparsa di piccoli oggetti sul terreno, vediamo dal confronto del rilevamento geografico e topografico della zona che essa, pur provenendo dal letto principale del fiume, si dirige in un affluente laterale all’Uadi principale che si inerpica poi sulla montagna, come dimostra chiaramente il frammento inferiore destro della mappa stessa. Osservando la carta satellite è evidente che per passare le ultime montagne dell’Allaki conveniva proprio tagliare sulla montagna per raggiungere una vasta pianura situata a ca. 6 km dalla gola, piuttosto che seguire il tortuoso corso dell’Uadi, cosa che d’altronde era fattibile anche seguendo l’altra strada posta più a sud, lungo il letto del fiume stesso. Ma soprattutto vi sono due ulteriori importanti elementi di analogia: l’orientamento della mappa corrisponde alla inversione dei punti cardinali del Nord e del Sud, come era abituale nella convenzione dell’orientamento presso gli antichi egizi; le due “strade verso il paese di Yam” (o “Iam“) corrispondono alla direzione in cui si trovava questo paese al di là del Nilo, posto correttamente verso occidente, a sud della Seconda Cateratta, quindi pressapoco alla stessa altezza rispetto all’insediamento di Alachi; inoltre le altre due strade, che si dirigono nella direzione opposta, risultano orientate in questo modo correttamente verso est e risultano quindi coerenti con la direzione del mare, come d’altronde è chiaramente indicato dalle diciture in demotico poste su di esse. Tutte queste corrispondenze non si realizzano assolutamente se, come ha sostenuto Goyon (1949: 337) e altri autori, si volessero situare le miniere indicate dalla mappa nell’Uadi Hammamat: infatti per sostenere questa ipotesi, tralasciando le evidenti incongruenze dal punto di vista topografico, è necessario capovolgere i convenzionali punti cardinali egizi Sud-Nord della mappa, cosa che non è né spiegabile, né giustificabile, né tanto meno credibile! Inoltre le montagne che circondano l’Uadi Hammamat sono costituite esclusivamente da montagne di uno scisto di colore verde scuro o addirittura nero; e in questa località non esistono assolutamente montagne di colore rosso o rossiccio! E’ noto che dall’Uadi Hammamat si ricavava principalmente una pietra pregiata che gli Egizi chiamavano “bekhen“, cioè la “breccia verde”, o basanite, contraddistinta appunto da una colorazione di un verde molto scuro, con cui nell’antico Egitto si realizzavano statue, sarcofagi, vasche e altri oggetti di pregio. Ma basta una semplice visita in questa località per accorgersi che si trovano solo grandi cave per l’estrazione di questa pietra; ma che non esistono, come ci si aspetterebbe se si fosse estratto dell’oro, miniere a galleria o a pozzo; inoltre le vene e le intrusioni di quarzo in questo Uadi sono molto rare; e infine non si vedono le tipiche macine per la lavorazione del quarzo negli insediamenti dei minatori, che evidentemente estraevano da queste cave solo la breccia verde. A Bir Fawakhir è stata recentemente eseguita una prospezione governativa per la ricerca dell’oro, ma i lavori sono stati interrotti nel 1954 (si veda: Min. of Ind. and Mineral Wealth, 1979: 10 e 2 Carte), evidentemente a seguito degli scarsi risultati ottenuti, e questa località si trova troppo a oriente rispetto all’identificazione del sito. Le antiche miniere più vicine, sicuramente utilizzate per l’estrazione dell’oro, si trovano nella località di Atalla, situata notevolmente più a nord rispetto all’Uadi Hammamat. Il fatto che la mappa delle miniere d’oro menzioni alla sua estrema destra l’esistenza della pietra bekhen, non è probante, poiché nella regione vulcanica dell’Uadi Allaki, costituita appunto da molte varietà di scisti e porfidi, esistono diverse varietà di questa stessa pietra nella zona, come dimostrano anche le innumerevoli macine a sfregamento e a rotazione che si trovano nella zona, sono costituite quasi esclusivamente da un porfido molto simile e dallo stesso colore verde scuro della pietra bekhen. D’altronde Lucas (1989: 408) afferma che questo particolare tipo di breccia verde si rinviene, oltre alla regione dell’Uadi Hammamat, in molte altre località del Deserto Orientale egiziano, come nell’Uadi Dib, nel Gebel Hamata, nelle regioni del Gebel Dara e del Gebel Mongul; quindi la provenienza, e quindi la semplice citazione stessa della pietra bekhen, non può essere certo considerata una prova per la localizzazione della mappa di Seti nell’Uadi Hammamat. Durante le nostre prospezioni nell’Uadi Allaki, proseguendo dopo le miniere di Alachi verso la sorgente dell’Uadi stesso, si giunge in una vasta piana limitata da una catena montuosa posta a nord-est rispetto all’insediamento, in questa zona si trovano diversi resti di abitazioni posti sulla base di alcune cave di una pietra del tutto simile a quella di bekhen; proprio dove sembra essere indicato sulla mappa delle miniere. Infine l’area della mappa dipinta in marrone, dove viene situata la “stele di Men-Mu-Re (cioè di Seti I), posta sulla ansa a gomito del ramo dell’Uadi con andamento sud-nord, corrisponde perfettamente alla località dove abbiamo trovato le rovine di una grande costruzione piramidale e i resti di vasti recinti ancora ben visibili. Naturalmente, non abbiamo trovato traccia della stele di Seti I, ma questa località merita certamente uno studio archeologico approfondito per confermare questa tesi. E’ evidente, se questa identificazione è corretta, che l’insediamento principale della città di Berenice Pancrisia, situato sulla sponda est dell’Uadi, come anche le due fortezze ben più tarde, non esistevano al tempo della stesura della mappa stessa. E’ possibile che la località denominata la “Montagna Sacra (o Pura) di Amun”, indicata sul papiro, possa ricollegarsi a quella in seguito chiamata appunto col nome di “Luogo di Ammone” (“Locus Ammonis“), che gli antichi autori anacoreti Copti situavano, in maniera imprecisata, nel Deserto Orientale e che descrivevano dotata di profonde caverne, evidente riferimento a delle miniere, poiché è noto che, a causa delle formazioni geomorfologiche della regione, praticamente non esistono grotte naturali nel Deserto Orientale. In queste “grotte” vennero gettati dei loro martiri catturati dai Blemmi, o Beja, nel corso di una delle loro innumerevoli scorrerie contro i Copti. Gli stessi autori inoltre descrivono nelle vicinanze una grande costruzione (forse un convento?) dotata di torri; e Jablonski (citato da Quatremère, 1811: I, 27 e segg.) riporta di avere copiato da una dossologia dei Martirologi copti, esistente a Parigi nella biblioteca del re, un passo che menziona ben 49 padri sgozzati dai barbari nel deserto, alla testa dei quali sono citati San Magistriano e suo figlio, presso un luogo di Amone che traduce con “Propè urbem Amun“: cioè la “Città di Amone”. Degli altri Copti anacoreti si presero in seguito l’incombenza di seppellire questi martiri, nelle vicinanza di una grande costruzione (una fortezza o un convento ?), dotata di torri, chiamata ([…]: nome in greco). Un manoscritto copto (Ms. copt. Vat. 58), racconta la storia della traslazione delle reliquie di questi martiri da questa “Città di Amun”, la stessa località che in seguito (Notitia dignitatum Imperii, ed. Labbe, p. 34) venne chiamata col nome di “Peamu“. Nella lista di Tutmosi III a Karnak, precisamente il N° 32 della Circoscrizione di Wawat, cita appunto un popolo di “Pehanu” (Schiapparelli, 1916: 124-126), che appare individuare la stessa località. Un frammento saidico, pubblicato da Mingarelli (Aegypt Codic. reliqiae, p. 260), parla chiaramente di un “Monte sacro ad Amun” (“Mons iste, si a sancto Amun, Nitriensium monachorum conditore, nomen habuit“), che apparentemente è quindi sempre la “Montagna di Amun”. E’ con grande probabilità la stessa località già nota presso alcuni autori classici col nome di “Città di Apollo”, o “Apolline” (Amun = Min = Apollo = Pan = Satiri), misteriosa città del deserto situato a oriente del Nilo che si trova già citata in diversi autori e geografi greco-romani, come, per esempio, Sebosus, Plinio stesso (VI: 189), Stefano di Bisanzio (Stephanus, 1678: 95 ) e Ramusio (1979: 971), e la cui collocazione nel Deserto Orientale non è stata finora identificata (si veda a questo proposito la discussione in: Qatremère, 1811: I-27 e sgg.). Da diverse fonti antiche sappiamo che questa regione desertica, situata a occidente di Berenice, era abitata dai Megabarri o Adiabari, popolazione trogloditica che viveva nel Deserto Orientale e Nubiano, tra il Nilo e il Mar Rosso, citata fra gli altri da Diodoro e da Plinio (VI: 189), che afferma abitassero “in una regione ricchissima d’oro” e aggiungendo “a cui appartiene la città di Apollo”. E’ molto probabile che si tratti della stessa città che cita Strabone col nome di “Apolline”, o “Apollinis urbs“, che dice situata a non grande distanza da Copto e che queste due città, Copto e Apolline, costituiscono i punti terminali della carovaniera del deserto dei Trogloditi (Strabone, 1565: 298; citato anche in: Ramusio, 1979: 971), quindi evidentemente queste stesse due città erano considerate i punti terminali dell’importante asse carovaniero che portava alle miniere della regione trogloditica. A conferma di questo, Stefano di Bisanzio colloca la Città di Apollo, o Apolline, correttamente all’interno dei confini dell’Etiopia, dove si trova effettivamente nel senso geografico degli antichi, poiché è situata oltre i confini dell’Egitto, e la colloca inoltre verso il Mar Rosso: “Apollinis urbs, o Apollonopolis, tertia in Aetiopia, mari rubro adjacens” (Stephanus, 1678: 95), E’ importante notare a questo punto che i “Trog(l)oditi” degli autori antichi, cioè gli “Abitanti delle caverne”, non potevano essere altri che dei minatori che vivevano gran parte della loro vita nelle profonde miniere del Deserto Orientale; poiché, come già accennato, a causa della natura geologica dei rilievi montuosi (scisti), non esistono praticamente grotte naturali nel Deserto Orientale (si veda Nota 1). E’ inoltre possibile che la catena montuosa dei monti di Allaki presso alcuni geografi arabi sia stata identificata con le “Montagne di Tailamun” (“Gebel Tailamun“), cioè Tel (= collina, luogo sopraelevato) Amon, riprendendo il nome egizio originale della “Montagna Sacra di Amun” riferito ai monti delle miniere d’oro di Allaki (si veda Nota 3). Da tutto questo appare quindi evidente che il territorio, ricco in oro e popolato dai Megabarri, non possa che riferirsi alla zona delle miniere d’oro del Deserto Nubiano, e in particolare a quelle dell’Uadi Allaki. Infatti, sempre secondo Plinio (VI: 189), questa regione si raggiungeva tramite una pista che partiva dalla città kushita di Napata, posta a oriente del Nilo, a nord rispetto alla Quarta Cateratta (Adams, 1977: 254) (l’esatta posizione della città non è nota, ma si ritiene che si trovi in un’area di 25 km a nord della Quarta Cateratta), e si dirigeva all’interno del Deserto Orientale. Anche la distanza corrisponde bene: Plinio parla di tre giorni per raggiungere il “paese dei Trogloditi”, ricco in oro, posto tra il Nilo e il Mar Rosso; infatti è quanto basta per raggiungere le prime miniere d’oro del deserto a oriente del Nilo. La citazione della “Città di Apollo”, abitata dai Megabarri, o Adiabari, popolazione trogloditica che abitava il Deserto Orientale e Nubiano, nel contesto di una regione “ricchissima d’oro” del deserto a oriente del Nilo, sembra riferirsi con tutta probabilità alla città di Berenice Pancrisia, cioè Alachi, che era la capitale e il centro della vasta regione dell’oro del Deserto Nubiano. Infatti nel Deserto Orientale egiziano e nel Deserto Nubiano sudanese esiste solo un altro nucleo abitativo di impianto greco-romano, Afar, centro anch’esso chiaramente legato all’estrazione dell’oro e simile come struttura archittettonica alcentro abitativo di Berenice Pancrisia, ma la sua limitata estensione rispetto a questa esclude che possa essere mai stata la capitale della regione aurifera di quel deserto. Sembra quindi molto probabile che Plinio abbia tratto queste due notizie da due fonti diverse, probabilmente anche di epoche diverse, dando due nomi per la stessa città di Alachi: “Berenice Pancrisia” e “Città di Apollo”. E’ anche possibile che “Berenice Pancrisia” di Plinio non significhi letteralmente la “Berenice Tutta d’oro”, ma piuttosto li voglia sottointendere la “Berenice (di?) Pan (donatore) d’oro”, in riferimento al dio greco-romano protettore del deserto, dell’oro e dei minatori . Questa interpretazione è suffragata anche dalla declinazione greca (accusativa) del vocabolo “Pancrysos” (Geraci, comunicazione personale, 1992), anche se potrebbe trattarsi di un errore di Plinio o del suo copista. Ma a sostegno di questa interpretazione è necessario notare che, sulla carovaniera che porta alla città e alle miniere, vi sono molte dediche in greco dei minatori e dei viaggiatori tolemaici che invocano la divinità tutelare di quel deserto e delle sue miniere, appunto il “Pan donatore d’oro” (Bernand, 1972: 232 e sgg.; 1977; e altre dediche inedite da noi trovate). E’ evidente come questo appellativo derivi direttamente dal “Min, donatore d’oro” che in epoca egizia era la divinità tutelare di quel deserto e delle sue miniere, e quindi, di conseguenza, dei minatori e dei viaggiatori del Deserto Orientale. Quindi l’appellativo di “Berenice di Pan d’oro” sarebbe sinonimo della “Città di Apollo”, situata in una regione tra il Nilo e il Mar Rosso “ricca in oro”. Il dio Min, una emanazione di Amon, era anche il dio della fertilità e della rigenerazione della natura, e per questo motivo veniva rappresentato con particolare frequenza presso i pozzi e i punti d’acqua del deserto, la cui permanenza consentiva appunto questa rigenerazione divina. La sua rappresentazione è sempre ittifallica, per rappresentare il seme vivificatore, e alle sue spalle è quasi sempre rappresentata una specie vegetale, una lattuga (Lactuca sativa L.) sacra al dio poiché il suo lattice assomigliava allo sperma (El-Hadidi, 1992), la cui presenza nel deserto è evidentemente consentita grazie alla capacità generativa del dio stesso. Quindi solo la presenza fecondatrice di Min, il dio del deserto e della natura rigenerativa, per gli Egizi poteva consentire la sopravvivenza dell’uomo nei deserti a oriente del Nilo consentendo di conseguenza l’attività mineraria e il trasporto dei minerali preziosi che da lì venivano estratti. E’ quasi certo che comunque la città di Berenice Pancrisia cambiò nome dopo la morte di Tolomeo III, o al più tardi di Tolomeo VI, quindi al più verso il 170 a.C., probabilmente per effetto della della sconfitta subita nella VI Guerra Siriana con la conseguente invasione dell’Egitto di Antioco IV, che costrinse i re tolomei ad abbandonare i loro possedimenti nella Trogloditica e in Etiopia (Agatharchides, 1989: 11-12). L’assenza di notizie ci fa ritenere che la città aveva da tempo cambiato nome durante la penetrazione romana nell’Alto Egitto, che giunse molto a sud di Aswan, e che sicuramente non trascurò di sfruttare quelle ricche miniere, sia pur anche in maniera indiretta; a meno che la sua menzione non fosse per i conquistatori romani un fatto estremamente riservato, a causa della segretezza in cui dovevano rimanere le sue miniere d’oro per la loro importanza strategica ed economica. Ma fatto sta che non troviamo nessuna menzione diretta nei testi romani dell’epoca di quelle miniere. Lo stesso Plinio, come anche Strabone, ricorda (VI: 181-182) la spedizione militare romana condotta verso il 22 a.C. da Publio Petronio, prefetto dell’Egitto, che, per rispondere con le armi a un attacco che i Meroiti fecero contro File, invase la Nubia occupando Dakka (Pselchis, o Pselcis) e Kasr Ibrim (Premes, o Primis), località fortificata in cui pose una guarnigione militare per controllare l’accesso in Egitto lungo il Nilo e l’ingresso delle carovaniere dell’Uadi Allaki, dove evidentemente i romani, per mezzo dei Blemmi, sfruttarono le miniere. Sotto la pressione dei Meroiti e dei Blemmi, i Romani verso il 150 dovettero abbandonare l’importante fortezza di Kasr Ibrim, e venne definitivamente stabilito il confine dell’Impero romano a Maharraqa (per i Greco-romani “Hiera-Sykaminos“, o “Hiera-Scymnus”), città posta a 23°56’N/32°46’E, comprendendo così la foce dell’Uadi Allaki e il vicino insediamento di Cortia sulla sponda occidentale del Nilo (per gli Egizi “Krt”, in epoca romana “Corte” e in epoca araba “Qurta”). Cortia era la prima città, come afferma Agatharchide, che si incontra nella terra degli Etiopi (Agatharchides, 1989: xii e 58), cioè dei Trogloditi etiopi, e questa località consentiva e controllava l’accesso alla carovaniera dello stesso Uadi Allaki, assicurando così ai Romani lo sfruttamento delle miniere d’oro di quella regione, oltre a quelle di topazio di Zeberged e di smeraldo di Sikeit e dello Gebel Zabarah (chiamate anticamente “al-Kharba“, cioè “Carba”), situate ben più a settentrione. E’ difficile stabilire però fino a che punto i Romani poterono controllare le miniere dell’Uadi Allaki, che di fatto erano in mano alla popolazione trogloditica dei Blemmi (Beja), decisamente ostili a qualsiasi dominio sulle ricchezze del loro paese: più probabilmente essi controllavano semplicemente il flusso dell’oro che giungeva al Nilo dal Deserto Nubiano, e forse anche da regioni ancora più a meridione. A causa dei continui attacchi dei Blemmi, Diocleziano, nel 297, abbandonò definitivamente il controllo della regione nubiana, portando il confine dell’Impero Romano a File e ritirando la guarnigione romana di Premes (o Primis, o Pedeme), l’attuale Kasr Ibrim (o Qasr Ibrim), che da allora divenne una città controllata prima dai Meroiti, poi, a iniziare dal IV secolo, dagli stessi Blemmi del Gruppo-X della Cultura di Ballana, dove risiedeva il loro re (Alexander, 1988: 75 e 81). Sappiamo da diversi autori arabi (al-Maqrizi, al-Ya’qubi, ad-Dimishqi, al-Qalqashandi, Ibn Hawqal, ecc.) che in seguito la città di Alachi divenne la capitale del regno dei Beja arabizzati col nome di “Hedjer” (Hadjr, Hajar, Hagar, Dhyher [?]: la “Città di Pietra”, o, più probabilmente, la “Città tra le [o delle] Rocce”), sede del re dei Beja che apparteneva alla sezione degli Hedarib, e dove esisteva una moschea, per poi riprendere il nome in lingua beja di Deraheib (o Derheib). L’identificazione fatta a suo tempo da Crawford (1951: 104-105) della capitale dei Beja di Hedjer con le rovine di Khor Nubt (o Nubit) non è sostenibile, poiché molti autori arabi sono concordi nell’identificare la capitale dei Beja Hedarib con la città dove si svolse l’ultima battaglia di Ali Baba contro al-Qummi, e gli stessi autori riferiscono che in quella città c’erano due castelli, e che Ali Baba risiedeva in uno di questi. L’identificazione quindi non può essere fatta con Nubit, nel cui insediamento non vi sono resti di castelli, né di costruzioni difensive (Hinkel, 1992: 206-209). Al contrario, le rovine di Deraheib con i suoi due castelli restano l’unica identificazione possibile con la capitale dei Blemmi/Beja. Purtroppo non possiamo sapere in che epoca e perché la città riprese il toponimo beja di “Deraheib”. Si può quindi proporre e ricostruire la successione delle denominazioni della stessa città dai tempi egizi a quelli arabi in questo modo: la Montagna Sacra (o Pura) di Amun (Egizi del Nuovo Regno, tempi di Seti I e posteriori); Berenice Pancrisia (Tolomei e Greci); le Montagne di Pan o le Montagne dei Satiri (Geografi alessandrini); la Montagna di Apollo, la Città di Apollo, Apolline, Apollonia (Geografi greco-romani); la Chiesa e il Monastero di ‘Allaqi (Copti e Cristianizzati); Hajar o Hadjr (la Città tra le Rocce, capitale dei Beja Naqis), Deraheib (la Città Rossa, capitale dei Blemmi/Beja dove risiede il loro re della sezione degli Hedarib); e infine la Città e la Miniera di ‘Allaqi, o ‘Allaki, o ‘Ilaki, o Ollaqi, (Geografi arabi), nota in seguito presso i Geografi europei col nome di Alachi, divenuta infine Buge (la Città dei Beja). E’ interessante inoltre notare che il toponimo attuale di questa località, “Deraheib”, potrebbe provenire appunto dalla presenza nella città di uno o più monasteri cristiani, derivando dal greco “Der” = monastero (Vantini, 1991, comunicazione personale), circostanza che potrebbe essere suffragata dalle antiche cronache copte quando si riferiscono alla “Chiesa di ‘Allaqi” e ai monaci che lì abitavano. Ma più probabilmente esso sembra derivare dal nome della tribù beja degli “Hadarib”, di cui Deraheib era la capitale dove risiedeva il loro re, tribù che gli autori arabi ci descrivono come la più potente tra le sezione dei Beja, mescolata con sangue arabo, che abitava questa regione controllata da loro e che aveva in particolare il totale controllo della miniera d’oro di Alachi. Altro punto di grande importanza è che il nome “Hadarib“, nella lingua To-Bedawi dei Beja, significa “Rosso” (Hakem, 1993, comunicazione personale), appellativo che probabilmente deriva dal colore caratteristico delle montagne aurifere di quella zona; sembra qui chiaro e evidentemente non causale il nesso con la colorazione rossa e la denominazione riferita alle stesse montagne riportata sulla “Mappa delle miniere d’oro” del papiro di Torino: “Le montagne da cui si trae l’oro sono rosse”. E’ chiaro che l’identificazione della “Città Tutta d’oro”, sta proprio nella stessa denominazione della località presso Plinio e i primi geografi arabi. Infatti, poiché “Berenice” era un semplice soprannome onorifico che i Tolomei davano alle città fondate o rifondate da loro, come le altre due sul Mar Rosso e ancora un’altra, nei pressi dell’odierna Bengasi, sulla costa africana del Mediterraneo, città a cui attribuivano particolare importanza e a cui davano impulso per i loro commerci, il termine “Berenice” era semplicemente sinonimo di “Città tolemaica”. Quindi c’è una chiara identità di denominazione tra la “Berenice Pancrisia”, cioè la “Città tutta d’oro” dei Tolomei con la “Città dell’oro”, o “La Miniera dell’oro”, descritta dai primi geografi arabi come il più ricco centro minerario allora noto e dalle cui montagne si estraeva l’oro, posta nell’interno del paese dei Bogha, coè dei Beja. D’altro canto, dopo la fine del del dominio tolemaico sull’Allaki, i geografi greco-romani e i cronisti copti verosimilmente la chiamarono la “Città di Apollo” e le “Montagne di Pan” (es. “Skariphos”, 555 d.C., in Vantini, 1975: 3), che furono chiamate anche le “Montagne dei Satiri”, riprendendo l’antica denominazione che derivava dalla “Montagna di Amun = Min = Apollo = Pan = Satiro/i” e della sua città “dove si lavora e si commercia l’oro”. I geografi alessandrini a partire da Tolomeo in poi, ripresero il termine modificandolo in le “Montagne dei Satiri”, evidente sinonimo del precedente, che posizionarono in maniera notevolmente corretta a 21° 52′ di latitudine. Non è chiaro da dove derivi l’etimologia della successiva denominazione araba che fu adottata a partire dal XI secolo, cominciando da Idrisi, di “‘Allaqi”, “‘Allaki”, “‘Ilaki”, “Alachi”, “Ollaqi” e “‘Ulaqi”, chiaramente riferita sempre alla stessa località da cui proveniva la maggior parte dell’oro del Deserto Orientale che affluiva nelle casse del Califfo regnante. L’Allaki, nella cartografia dell’800, appare spesso con il toponimo di “Alagi”, o “Allagi”, forse in riferimento alla via che i musulmani avevano percorso per un lungo periodo di tempo al fine di recarsi in pellegrinaggio ai luoghi santi della Mecca. E’ da notare infine che, a quanto risulta dai dati storici e dalle loro stesse dichiarazioni, gli Arabi in effetti sfruttarono solo le miniere a cielo aperto, non quelle a galleria o a pozzo; poiché, evidentemente per motivi di superstizione e di timore, non si sono mai avventurati nelle buie miniere scavate dagli antichi nelle viscere della montagna (Linant, 1868; Dunn, 1911; Newbold, 1930-34; 1948 e altre fonti). Lo stesso è per gli attuali Bischarin, ma è comunque evidente che sono i loro antenati Beja e Blemmi che hanno fornito la vera mano d’opera come minatori agli Egizi e a coloro che via via si impadronivano e sfruttavano le miniere.
L’oro fu il mezzo principale che consentì agli Arabi di ripristinare un commercio efficente nei nuovi territori conquistati, introducendo, alla fine del VII secolo, il riferimento del dinar d’oro che sostituì i sempre più rari denari bizantini. Il riferimento del dinar d’oro fu accettato da tutti i califfati che anzi si misero a coniare grandissime quantità della preziosa moneta che venne ben accolta da tutto il commercio del mondo allora conosciuto (Lombard, 1980: 134-143). La fonte di approvigionamento per gli Arabi, oltre naturalmente a riciclare l’oro conquistato dalle precedenti case regnanti, furono le miniere di due regioni: quella del Deserto Orientale nubiano, costituita essenzialmente dalle miniere dell’Uadi Allaki, e quella che proveniva dal paese dei Neri, le miniere di Zimbabwe, tramite il porto arabo di Sofala (Lombard, 1980: 129-132). In un secondo tempo si aggiunse “l’oro del Sudan”, che proveniva, tramite carovane che attraversavano il deserto del Sahara, dalle sabbie alluvionali aurifere del Ghana e da altre regioni dell’Africa Centro-occidentale. Ma questa abbondanza dell’oro se da un lato permise ai conquistatori arabi di controllare e di impossersarsi agevolmente tutto il commercio dei paesi da loro controllati, dall’altro provocò una caduta del valore dell’oro rispetto, per gli Arabi, al meno disponibile argento, fino a che si raggiunse praticamente la parità di valore fra oro e argento (Lombard, 1980: 139 e 210). D’altronde il valore dell’oro rispetto all’argento è sempre stato soggetto a repentine variazioni, in dipendenza della disponibilità di uno o dell’altro metallo (Oesterheld, 1943: 24-26); e già per alcuni periodi durante l’antico Egitto, soprattutto nell’Antico e Medio Regno, in considerazione della scarsità delle miniere d’argento situate in Nord Africa, il valore dell’oro rispetto all’argento era sceso fino a un rapporto di uno a due. Fu in quell’epoca che gli Omayyadi di Cordova, presto seguiti dagli altri califfati, iniziarono a battere moneta in argento, per loro più facilmente reperibile dalla penisola iberica, allora caduta completamente sotto il loro controllo. Questo provocò una sempre minore richiesta d’oro, che per la sua progressiva svalutazione rispetto all’argento, e quindi per il suo elevato tasso d’inflazione, non veniva più tesaurizzato, e fu sostituito ben presto per il commercio dalla più stabile monetizzazione in argento. Così le miniere dell’Uadi Allaki, come quasi tutte le altre miniere d’oro del Deserto Orientale, vennero abbandonate nel corso del XII o al massimo nel XIII secolo (Dunn, 1911; Newbold, 1930-34, 1948; Vantini, 1975 e le altre fonti specifiche degli storici arabi), in parte a causa del progressivo esaurimento di parte dei filoni auriferi, fra cui quello di Alachi, provocato dall’eccessivo sfruttamento delle miniere stesse, ma soprattutto a causa della brusca caduta del prezzo dell’oro rispetto all’argento, che resero le miniere d’oro nubiane non più redditizze. E’ proprio da quell’epoca infatti che quasi tutti gli stati, oltre agli stessi califfati arabi, smisero di coniare monete d’oro a favore di quelle d’argento, che fra l’altro erano anche più durevoli e, come già accennato, certamente di più facile approvvigionamento soprattutto per il mondo occidentale, che, con la conquista araba della spagna e della Sicilia, stava ritornando a essere il polo commerciale più importante di quei tempi. Fu proprio in questo periodo che la produzione delle miniere europee d’argento, come quelle situate in Spagna e in Portogallo, raggiunsero la loro massima capacità produttiva. A conferma di questa rivoluzione nel valore, e quindi nella stessa richiesta, dei metalli preziosi, vi sono molte fonti arabe che proprio nel XIII e XIV secolo ci raccontano come le miniere di Alachi, una volta le miniere d’oro più importanti del mondo allora noto, non fossero più redditizie; e, sebbene ancora sfruttate, ripagassero a quel tempo a malapena i costi di estrazione. Altre fonti arabe ci raccontano come la città di Alachi, da centro minerario, fosse allora divenuta semplicemente una considerevole città commerciale, punto di incontro e di scambio delle merci tra i Beja e gli Arabi. Ma evidentemente una città del genere, posta in mezzo a un deserto tanto inospitale, non poteva sopravvivere a lungo senza l’attività mineraria che l’aveva fatta nascere e prosperare per lungo tempo. Fu evidentemente così che Alachi, la “Città dell’oro”, cominciò a spopolarsi e in seguito venne abbandonata definitivamente; e di lei rimase solo il ricordo dei geografi e degli storici arabi. Poiché i geografi europei, per quanto riguardava l’Africa, si basarono per la loro cartografia, e per le loro prime carte a stampa, essenzialmente sulle fonti arabe, la città di Alachi apparve nella sua corretta posizione nella cartografia a partire dal XV secolo in poi. Infatti, su quasi tutti gli atlanti e le carte europee del XV, XVI e XVII secolo è indicata la città, unico “castello” posto in mezzo al Deserto Orientale, col toponimo di “Alachi”. Ma in seguito, poiché i primi navigatori portoghesi (De Castro) e gli esploratori europei non confermarono l’esistenza di questa città, lentamente scomparve nelle carte del XVII e XVIII secolo, o mutò il nome nel più generico “Budge”, “Buge”, “Bogia” o “Boga”, toponimo che chiaramente deriva dal “Paese dei Bogia (o Beja)” degli Arabi. In seguito il toponimo “Buge” designò ancora più genericamente il Deserto dell’Etbai, col nome, appunto, di “Deserto di Buge” (o “di Bugihe”, “di Buche”, o “di Bogia”), che in seguto venne compreso nel più generico “Deserto della Thebaide”, o “Deserto dell’Etbai”; mentre della città dell’oro non rimase che il segno di un castello nel deserto, spesso vicino a una catena montuosa, ma ormai senza più nome. E’ appunto sotto questa forma che lo ritroviamo sulle carte del XVIII e anche XIX secolo. Il porto di ‘Aidhab, perduta importanza per il commercio dell’oro, divenne dal XII al XV secolo il porto più frequentato per i pellegrini musulmani che si recavano da qui al porto arabo di Jeddah per proseguire verso i luoghi santi della Mecca; ma, a causa di una razzia che gli abitanti di Aidhab compirono a una carovana del sultano diretta alla Mecca, la città fu completamente distrutta dai Mameluchi nel 1426, e i pochi sopravvissuti migrarono più a sud, dove fondarono l’altrettanto famoso porto di Suakin, che da allora soppiantò e sostituì Aidhab per i traffici verso l’Arabia e per i pellegrinaggi alla Mecca. Presso i geografi occidentale Aidhab era noto col toponimo di Zibid, Zibit, Zebid o Gedid, il cui toponimo deriva apparentemente dalla descrizione di Leo Africanus (1556). E’ interessante infine notare che nel XI secolo, la città di Aidhab era ancora chiamata “‘Adhdhab” (per es.: al-Bakri), o “Adhab”, e poiché “dahab” significa “oro” in arabo, il toponimo potrebbe derivare dal commercio e il trasporto dell’oro di Alachi e dintorni che avveniva in questo porto.
-Nota 1): Gli Aamu – Anti – Medjai – Trog(l)oditi – Blemmi, erano le popolazione che abitavano nel deserto che si estende tra il Nilo e il Mar Rosso; secondo gli antichi scrittori i Blemmi (o Blemni, Blemmaui, Balnemmooui, Blemmies, Blemmias, Blemiis, Blemies, Blembi, Bilemni) facevano parte dei popoli detti “Trogloditi” (o “Trogoditi”). I Blemmi, descritti come i feroci abitatori e i veri padroni del Deserto Orientale e Nubiano, sono con tutta probabilità i discendenti dei “Medjai” (o Medja, Megia, Medju, Metchu, Metchai, Matchaiu, Betjau, Uauaiu) dell’antico Egitto che appaiono nei testi egizi fin dalla VI Dinastia (ca. 2400 BC) (Save-Sodebergh, 1941: 18; Arkell, 1961: 42; Bietak, 1966: 77-78; Adams, 1977: 58 e 389; Kemp, 1982: 708-709; 1989: 171, ecc.), chiamati anche “Anti” (“Antiu Stiu”), o “Uomini delle colline” (Budge, 1907: II, 174; 1928: I, 18). Questa denominazione resterà per molti millenni, dato che nel VI secolo della nostra era Skariphos chiama ancora “Amtye” gli abitanti del Deserto Nubiano. I Medjai erano descritti dai testi egizi come una popolazione di origine “asiatica”, confermando quindi la loro probabile provenienza dalla penisola araba, di colorito scuro; ma comunque ben distinta dalla razza dei Neri, che abitavano le regioni più meridionali rispetto ai Medjai e alla regione di Wawat, descritti nei testi egizi col termine di “Nehesu” (Budge, 1907: II, 413; ecc.). I Medjai, oltre a popolare il deserto di Wawat e di Ta-Seti, erano presenti anche nei territori limitrofi a questi, come in quello di Yam (area di Kerma?), spesso giungevano a gruppi fino ai forti egizi di Kush (regione di Amara-Ukma) e della Prima e Seconda Cateratta (Senmet, Semna, Buhen, Kuban, ecc.) per arruolarsi come mercenari nelle milizie egizie, o più semplicemente per commerciare soprattutto con l’oro e le pietre preziose del Deserto Nubiano, ma anche in bestiame (Kemp, 1989: 171). In particolare, gli “Anti”, o “Antiu Stiu”, ovvero gli “Uomini delle colline” del Deserto Nubiano, erano descritti dagli Egizi come uomini robusti, alti e ben proporzionati; esperti cacciatori, particolarmente abili nell’uso del boomerang e dell’arco; il loro coraggio e audacia uniti alla loro notevole capacità di spostamento nel deserto, terrorizzavano gli Egizi. I Medjai furono spesso in lotta con gli Egizi, ma in certi periodi erano loro alleati e costituirono persino delle truppe mercenarie, un vero e proprio corpo di polizia specializzato che pattugliava il Deserto Orientale e Nubiano controllando le miniere di quelle regioni agli ordini dei faraoni. Un altro nome dei nomadi che vivevano nei deserti a oriente del Nilo era “Abitanti delle Sabbie”, termine particolarmente attestato nella VI Dinastia, intorno al 2250 a.C., quando gli Egizi cominciarono ad arruolare i Medjai nel loro esercito (Gardiner, 1964: 94-98; Trigger, 1976: 54; Hoffman, 1980: 217-218).
Secondo gli scrittori classici greco-latini, i popoli trogloditi si dividevano essenzialmente in: Trogloditi Etiopi, di razza scura, quelli “dalla lunga vita” che abitavano l’attuale Eritrea, il Sudan centro-meridionale, l’Etiopia e la Somalia, probabili antenati anche degli attuali Tebu del Tibesti; Trogloditi di pelle chiara, i Trogloditi egiziani e nubiani, o “Leucoetiopi”, cioé “Etiopi bianchi”, che vivevano in Nord Africa nei deserti posti a occidente e a oriente del Nilo, giungendo fino sulla costa del Mar Rosso; Trogloditi arabi, abitanti le coste della Penisola arabica dal Golfo Persico fino alle coste arabe del Mar Rosso,, e anche più a sud, oltre lo stretto di Bab el-Mandeb. Il significato letterario di “Trog(l)oditi” è quello di “Abitanti delle caverne”, o “Genti delle grotte”. Ma queste caverne o grotte non sono necessariamente naturali, per esempio nel deserto tra il Nilo e il Mar Rosso non esistono grotte o ripari naturali di una certa entità, ma possono semplicemente essere le miniere da loro stessi scavate, come è il caso di quelle dei Trogloditi del deserto del Mar Rosso, o abitazioni artificiali sotterranee come nell’Arabia Trogloditica. A questo proposito è importante notare come Plinio affermi chiaramente (V: 45): “Trogodytae specus excavant; hae illis…stridorque, non vox…“; e similmente ci ripete Solino: “I Trogloditi fanno le caverne, e vi si coprono…, essendo ignoranti nel parlare, emettono più stridori che parole.” L’abitare nelle grotte, in ripari naturali o sottoterra ed avere una lingua incomprensibile, stridente, simile al verso dei pipistrelli, o di certi uccelli, o addirittura all’abbaiare dei cani, sono le caratteristiche tipiche e comuni a tutte le popolazioni trogloditiche che ci sono tramandate con sostanziale concordia dagli antichi geografi. I principali gruppi di Trogloditi, che ci hanno tramandato gli autori classici, come Plinio, Diodoro, Strabone, Solino, ecc., sono (Budge, 1928: 67-70 e altre fonti): 1) Gli Ittiofagi (Ichthyophages), che abitano le sponde del Mar Rosso. Essi vivono come animali, vanno nudi e non sanno distinguere neppure il bene dal male. Catturano i pesci tra le rocce, trafiggendoli con corna di capra e li uccidono colpendoli con delle pietre. Essi espongono al sole i pesci catturati in vasi, separano quindi la carne dalle spine e la fanno bollire con dei semi di Paliurus fino a quando la carne diventa una pasta che viene lasciata su delle rocce a seccare; ognuno di loro infine ne mangia a più non posso. A volte essi pescano delle grandi conchiglie, che raggiungono talvolta il peso di quattro mine; e, dopo aver rotto il guscio della conchiglia con delle pietre, mangiano la carne che si trova all’interno, che assomiglia molto a quella dell’ostrica. Quando non possono procurarsi la pasta di pesce e le conchiglie, essi raccolgono le lische di pesce, le rompono a pezzi, quindi le macinano con delle pietre e le mangiano. Pescano abitualmente per un periodo di quattro giorni, contemporaneamente mangiando, bevendo e accompagnandosi alle loro donne; al quinto giorno essi si recano alle sorgenti poste ai piedi delle colline e bevono acqua senza moderazione. Tolomeo III mandò il suo amico Simia a visitare questo popolo, e Agatharchide da Cnido dice che essi non hanno emozioni. Non potendo parlare con gli stranieri, essi rimangono immoti davanti a loro. Anche se colpiti con delle spade, o feriti, o anche percossi in qualsiasi modo, essi non mostrano alcun risentimento. Non mostrano né ira né pietà persino quando le loro donne o i loro bambini vengono uccisi sotto i loro stessi occhi. Sebbene vivano presso la riva del mare, essi non hanno conoscenza della navigazione. Alcuni dei mangiatori di pesce vivono in ripari formati da rami di albero intrecciati; altri in cave naturali situate su montagne difficili e inacessibili. 2) I Chelonofagi (Chelonophages), che vivono su delle isole e catturano le tartarughe marine, poiché esse si addormentano sotto il sole. Alcune di esse sono della dimensione di un piccolo battello da pesca, e i nativi usano il loro carpace come barche e come coperture per le loro abitazioni. 3) I Cetivori (Cetivores), che si nutrono delle balene che il mare sospinge verso le rive. 4) I Rizofagi (Rizophages), o mangiatori di radici, chiamati anche Elj, che vivono appunto delle radici di canne pestate e seccate al sole. Essi subiscono spesso gli attacchi dei leoni. 5) Gli Hilofagi (Hylophages), che si arrampicano sugli alberi e si nutrono dei loro germogli e di alcuni rami teneri. Essi sono di corporatura esile e saltano da un albero all’altro, anche se cadono non si fanno alcun male. Essi vivono nudi e hanno le loro donne in comune. Sono armati di clave con cui essi percuotono i loro nemici fino a ridurli a una polpa. Molti di essi diventano ciechi e muoiono presto di fame, poiché, non vedendo, non riescono più a salire sugli alberi per procurarsi il loro cibo. 6) I Spermatofagi (Spermatophages), che vivono di frutti e di un’erba dolce che possiede uno stelo simile a quello della rapa. 7) Gli Hilogoni (Hylogones), che dormono sugli alberi e si nascondono nella boscaglia uccidendo le bestie selvatiche quando queste si recano alle pozze per abbeverarsi. Le loro armi sono le clave, le pietre e i dardi. I loro ragazzi sono istruiti a forgiare dardi; e se essi non riescono a colpire la loro preda, vengono lasciati senza cibo. 8) I Struzzofagi (Struthophages), o mangiatori di struzzi, che sono armati con corna di orici. 9) I Simoi (Simoes), che assaltano i Struzzofagi. 10) Gli Eridofagi (Aeridophages), che vivono ai bordi del deserto; piccoli di statura, magri e scarni, essi sono di pelle abbastanza scura. Si cibano di locuste che catturano per mezzo del fumo, poi le salano e le conservano come alimento. Vivono non a lungo, e muoiono di un male causato dai pidocchi che vivono nei loro corpi. 11) I Cinomoni, o Cinomolgi (Cynomones o Cynomolges), che portano lunghe barbe, e vivono della carne degli animali che cacciano con l’ausilio dei loro feroci cani da caccia, e uccidono per loro stessi. 12) Gli Elefantofagi (Elephantophages), che catturano gli elefanti per cibarsene, tagliandogli i tendini delle zampe posteriori; abitano nelle foreste che si trovano più a meridione, a occidente dell’Etiopia. Inoltre, secondo Plinio e Arriano, dobbiamo aggiungere all’interno della regione trogloditica, i Candei, detti Ofiofagi (“Mangiatori di serpenti”) perché sono soliti cibarsi di serpenti, e abitano in una regione che non ha paragoni riguardo all’abbondanza dell’oro; i Terotoi, così chiamati perché praticano la caccia; gli Agriofagi e i Moscofagi, che si governano in signorie. Poi altri autori ne aggiunsero ancora, e fino al Medioevo nessuno osava dubitare sulla effettiva esistenza di queste genti così meravigliose. Nelle regioni che si trovavano ancora più a sud vivevano, secondo gli autori classici, come descrive fra gli altri Plinio, solo bestie sotto un’apparenza umana, o esseri mostruosi sempre più favolosi e fantastici, come gli Egipani, “metà uomini e metà bestie”, gli Imentopodi “dai piedi inceppati” e i Satiri che, appunto, “a parte la figura non hanno nulla di umano”. Più a sud, all’interno dell’Etiopia, era ben attestata da un’epoca immemorabile, che risaliva per lo meno ai racconti di viaggio dell’Antico Regno, la presenza dei favolosi Pigmei, i ‘danzatori di Dio’. Da Omero in poi gli storici e i geografi li ricordano in perenne guerra con le gru, che tentavano di snidarli dalle grotte dove, racconta Aristotele assicurandoci contemporaneamente che non si tratta di una favola, ‘fanno vita da trogloditi’. Strabone li colloca addirittura fino alla città di Meroe, dove ubbidivano a un re e nei cui dintorni si trovavano miniere di rame, di ferro, d’oro e di pietre preziose (Budge, 1907: II, 158). Inoltre è importante notare che fino ad un’epoca relativamente recente, quella tardo-romana, i Pigmei africani non avevano assolutamente fattezze negroidi, sia nei racconti pervenutici, sia nella vasta iconografia egiziana, come per esempio nelle fattezze dei ‘Pigmei danzatori’ di Lisht del Medio Regno (Museo del Cairo), nelle rappresentazioni del dio-pigmeo Bes (Budge, 1907: I, 523-524) e neppure nell’iconografia greca; e infine come l’origine dei Pigmei si confonda con una antica tradizione asiatica-orientale (Conti-Rossini, 1928: 66; Janni: 1983: 150-157). Forse queste descrizioni, che spesso si confondono con il racconto fantastico, non sono altro che l’indizio, di cui restano in effetti solo deboli tracce, di una presenza, attestata almeno in epoca egizia, di gruppi dalla lontana origine orientale di pigmoidi, o boscimanoidi, in Etiopia, che in parte si spingevano fino ai dintorni di Meroe, e che talvolta venivano portati dalla terra di Punt e Iam alla corte del faraone come danzatori divini. Questi gruppi apparentemente erano in qualche modo legati alle miniere e allo sfruttamento dell’oro, come certamente lo furono in epoca relativamente recente nella regione mineraria del Mashonaland, poiché spesso nell’iconografia egizia sono ritratti dei nani, dalla fisionomia più o meno pigmoide, intenti alla lavorazione dell’oro e alla fabbricazione di gioielli. Inoltre le gallerie minerarie degli antichi egizi sono spesso così strette che non è possibile fossero frequentate da persone di corporatura normale, anche se notevolmente inferiore alla media; infine spesso le abitazioni vicine alle miniere sono di dimensioni così limitate da far pensare a persone veramente molto piccole: nani, bambini, Pigmei o addirittura Boscimani? In ogni caso è accertato che alcuni piccoli gruppi di ‘Bushmen‘ cacciavano fino alla fine del secolo scorso nel Niger del sud-est, e che caratteri boscimanoidi sono tuttora presenti presso le popolazioni dei Duada nel Fezzan libico e nelle tribù Sandawa e Hadza nel nord della Tanzania, non molto distanti dalle sorgenti del Nilo Bianco; e dagli autori classici sappiamo che un tempo queste popolazioni erano estese su un vasto territorio che comprendeva le paludi del Nilo, poste a sud dell’Egitto, l’Abissinia e la costa dell’Oceano Indiano (Conti-Rossini, 1928: 67-68). Comunque la presenza di esseri mitici e fantastici nella regione del Deserto Orientale, che potremmo definire ‘ai confini del mondo’ allora noto, si protrasse per molti secoli, fino al tardo medioevo. Partendo infatti dai racconti degli antichi egizi, che la ritenevano popolata da enormi e mostruosi serpenti, fra cui la divinità-serpente Mehen e la ancor più funesta e “abominevole” divinità mostruosa di Apopis, e che, come ci racconta Diodoro Siculo, venivano cacciati e catturati a prezzo di grande rischio, affermando persino che lo stesso Tolomeo II ne possedeva uno nel suo zoo privato di Alessandria. Oppure popolato da draghi terrificanti che, come ci dice Strabone, “combattono con gli elefanti”; o ancora proseguendo, per esempio, con la Tavola Peutingeriana, dove nel ‘Segmento IX’ troviamo è contraddistinto dalla dicitura “Qui nascono i Cinocefali”, per giungere infine alle varie ‘Mappa Mundi’ dell’epoca medievale, dove, riprendendo una tradizione che risaliva ai tempi greco-romani su questa regione, sono ritratti gli esseri più straordinari, come l’Araba Fenice che risorge dalle fiamme, la Sfinge, lo Iale, il Drago, la Mandragora, i Centauri, ecc. (Jancey, 1987: 19; e altre fonti). Nell’area del Deserto Orientale viveva il grande gruppo di popolazioni che gli autori e i geografi classici chiamavano “Nomadi Trogloditi” (“Nomades Troglodytes“) che, pur divisi in numerose tribù disperse in un grande territorio, prestavano ubbidienza a un solo re. Vivevano principalmente del loro bestiame, di cui bevevano una mistura di sangue e latte bolliti insieme, e si nutrivano anche di un decotto fatto con piante di Paliurus. Vestivano pelli di leone, erano armati con archi, zagaglie, bastoni da getto, mazze, scudi fatti di pelle di bufalo o di coccodrillo ed erano circoncisi come gli Egizi. Avevano le loro donne in comune e le persone deformi venivano mutilate durante la loro infanzia. Appartenevano a queste genti anche i Megabarri, o Adiabari, (Megabareans, o Adiabares), che vivevano in una regione ricchissima d’oro, e che quindi erano evidentemente dediti alla ricerca e all’estrazione di questo metallo prezioso. Anche i giganteschi Anak, o Anag, Anaq, probabilmente identificabili con la tribù nubiana degli Hamag citata dagli autori arabi, caratteristico gruppo etnico sudanese che nomadizza ancora oggi nel Deserto Nubiano posto tra Suakin e Kassala, facevano parte di questo gruppo etnico (Budge, 1907: II, 175, 436 e fig. 174); ed è molto interessante osservare come le vecchie costruzioni in lastre di scisto, attribuite a loro, del Gebel Maman, e le cosidette “tombe degli Anak” (o “Anag”), (ibidem: II-305, 501 e figg. 176, 178), siano estremamente simili, sia per tipologia che per tecnica costruttiva, alle rovine delle antiche costruzioni minerarie poste notevolmente più a nord nel Deserto Orientale e Nubiano e alle tombe del “Gruppo-A” e del “Gruppo-C” di Nubia. Gli antichi scrittori credevano che i Blemmi (Blemmyes), come vennero chiamati i Trogloditi del Deserto Orientale dall’epoca greco-romana in poi, fino alla conquista araba che li chiamarono Beja, fossero della gente mostruosa: erano descritti come se non avessero testa; e che la bocca, il naso, gli occhi e le orecchie si trovassero sul petto (Plinio, Solino, Mela, ecc.). Si raccontava che uno dei Blemmi fosse stato catturato da una spedizione romana e portato alla corte dell’imperatore a Roma, e come il suo terrificante aspetto impressionò e stupì grandemente tutti i Romani che lo videro. Questa opinione restò più o meno invariata nei geografi e negli storici europei fino a tutto il settecento, che erano convinti si trattasse di un popolo dall’aspetto mostruoso; e così li descriveva ancora nel ‘600 Giovanni Botero nella sua opera “Delle Relationi Universali”. Che i Blemmi abitassero anche sulla sponda araba del Mar Rosso è testimoniato, fra l’altro, dal “Sinaxario di Costantinopoli” (Vantini, 1975: 184-186), la cui compilazione risale probabilmente al VI secolo; dove si descrivono le scorrerie e i massacri che i Blemmi (Blemmyes o Blemmyon), che vivevano sulle coste arabe e africane del Mar Rosso, compivano contro i Copti eremiti del Deserto Orientale egiziano. In particolare si menziona una scorreria, che risale ai tempi di Diocleziano (284-305); seguita da una strage, avvenuta nel 410, di 43 monaci sulla costa del Mar Rosso da parte di 300 Blemmi che avevano raggiunto dall’Arabia la costa africana a bordo di grandi piroghe (xylois megalois). D’altronde molti autori classici citano i “Trogloditi d’Arabia” e i “Trogloditi del Mar Rosso” come due gruppi della stessa gente distinti solo geograficamente, che abitava su entrambe le coste arabe e africane, e popolava anche i rispettivi contigui deserti; e gli stessi li descrivono esattamente con lo stesso aspetto fisico, le stesse usanze, la stessa abitudine alle razzie e la stessa ferocia. E’ quindi molto probabile che i Trogloditi della stirpe dei Blemmi, cioè i “Trogloditi Nomadi”, fossero in origine una popolazione che viveva su entrambe le coste desertiche del Mar Rosso, e anche nei deserti posti al suo interno. In effetti le loro scorrerie unita al loro allevamento del cammello e al conseguente loro monopolio delle carovane nei deserti posti a oriente e a occidente del Nilo, li spinsero molto all’interno del Deserto Libico, fino a giungere all’interno del Kordofan (Bruce, 1790; Budge, 1907: II, 175), a impossessarsi per lunghi periodi dell’oasi di Kharga (Budge, 1907: II, 174) e alcune tribù si stabilirono addirittura nell’Ennedi e nel massiccio del Tibesti, dove, come ricorda Erodoto, entrarono ben presto in conflitto col gruppo libico-berbero dei Garamanti. E’ molto probabilmente attribuibile ai Blemmi, quindi ai Beja, il regno di Baga, citato da molte fonti classiche, che si estendeva dal III secolo in poi ai confini orientali di quello dei Mauri (Camps, 1980: 102 e 108), giungendo fino ai confini dell’Etiopia, quindi con un’enorme estensione territoriale. E’ quindi molto probabile che furono proprio dei gruppi nomadi di Beja, forse gli stessi razziatori Gurham del Kordofan e dell’Ennedi, ben noti dagli antichi col nome di Leucoaethiopes, e probabilmente identificabili con gli stessi Garamanti, a trasmettere i segreti dell’allevamento del cammello e dell’organizzazione delle carovane per attraversare le regioni desertiche ad alcune popolazioni nomadi libico-berbere del Sahara orientale. Questi sostiturono ben presto il cavallo in favore del dromedario, molto più adatto all’ambiente sahariano dove vivevano, sempre più in via di inaridimento, e che in seguito furono ben note col nome di Tuareg, anch’essi dediti tradizionalmente alla razzia nei deserti. Sono innumerevoli le scorrerie dei Blemmi che si tramandano: sin da molto prima della conquista romana dell’Egitto essi minacciavano la frontiera sud-orientale, e anche sud-occidentale, dell’Egitto. Verso il 250 essi erano divenuti una considerevole forza e iniziarono a attaccare i villaggi dell’Alto Egitto. Marco Giulio Emiliano li attaccò nel 261 e li respinse sotto la Prima Cateratta, ma ben presto i Blemmi ritornarono a razziare l’Egitto. Sotto il regno di Claudio II essi continuarono ad attaccare i confini dell’impero romano e sotto Aureliano (276-282) si impadronirono dell’Alto Egitto. Nel 274 Aureliano riuscì a sconfiggerli e portò un gruppo di prigionieri blemmi a Roma, dove presero parte alla sua processione trionfale. Probo in seguito (276-282) combattè i Blemmi del Deserto Orientale e occidentale che si erano alleati, e riuscì a riconquistare a stento la città di Copto, porta della carovaniera nel deserto dei Blemmi. Sotto Diocleziano (284-305), i Blemmi erano diventati sempre più temibili e le guarnigioni di confine non erano più in grado di fermarli, costringendo l’imperatore nel 297 ad arretrare il confine dell’impero romano da Premes (Kasr Ibrim), alla città di Siene (Aswan), dove costruì una fortezza per fermarli; e infine fu costretto ad accordarsi con loro, assicurando il pagamento di un tributo annuale, affinché non attaccassero più le città dell’Alto Egitto. Ci fu quindi un periodo di relativa tranquillità che durò più di cento anni, fino alla ripresa delle ostilità sotto il regno di Teodosio II (408-450) (Budge, 1907: II, 175-177). In particolare Evagrio ci descrive un’ennesima scorreria fatta dai Blemmi, all’oasi di Kharga, situata nel Deserto Occidentale, contro la guarnigione romana che fu sconfitta, e contro la comunità eretico cristiana dei Nestoriani (Budge, 1928: 102-103; Wagner, 1987: 394-400), che a causa della loro eresia erano stati confinati in quell’oasi; e si racconta che i Blemmi rapirono per un certo periodo il patriarca Nestore in persona portandolo con loro nella Tebaide, ma che poi lo rilasciarono senza avergli fatto del male. In questo periodo, verso il 450, Silko, il re dei Blemmi pose a Dongola (= Old Dongola) la capitale del suo regno che nel frattempo si era alleato ai Noba cristianizzati. Maximino (= Massiminio), il comandante (cristiano) sotto l’imperatore Marciano (450-457), costrinse i Blemmi a fornire degli ostaggi, al fine di indurli ad accettare una pace di cento anni, e i Blemmi la accordarono a condizione che fosse loro concesso di recarsi in pellegrinaggio al tempio di Iside a File, e di poter portare la statua della dea periodicamente (una volta all’anno) all’interno del loro territorio, al fine di ottenere la protezione e le grazie della dea. Ma dopo la morte di Maximino, i Blemmi si rivoltarono nuovamente, riuscendo a liberare gli ostaggi in mano ai Romani, e il prefetto d’Alessandria Floro dovette sottometterli nuovamente, rinnovando il trattato dei cento anni. Verso la fine della pace dei cento anni, i Blemmi, sotto il regno di Giustiniano I (527-565), ripresero le razzie e l’imperatore decise di chiudere il tempio di Iside, inviando a File Narses che imprigionò i preti e portò le statue dgli dei a Costantinopoli. Ma le ostilità continuarono, particolarmente sotto il regno di Tiberio II (578-582) che fu costretto a inviare il comandante Aristomacho per sedare l’ennesima rivolta dei Blemmi; e in seguito i Romani furono troppo occupati contro i Persiani, lasciando ai Blemmi libertà di azione in Egitto (Budge, 1907: II, 177-179; 1928: 102-103), fino alla conquista dei Musulmani. Nel 642, un anno dopo aver conquistato l’Egitto, il generale musulmano ‘Amr ibn al-‘Asi inviò una spedizione per conquistare la Nubia sotto il comando del suo generale ‘Abd-Allah bin Sa’d che comandava una forza di 20.000 uomini. Ad essa si contrappose il re dei Blemmi, Maksouh, e il re dei Noba, Ghalik, al comando, sembra, di ben 50.000 uomini, fra cui facevano parte i giganteschi “el-Kowad” (probabilmente i progenitori degli attuali “Anak”) di pelle scura, che possedevano ben 1300 elefanti, montati ciascuno da 10 guerrieri. Essi furono sconfitti dai Musulmani. Ma come il generale arabo tornò al Cairo, richiamato da ‘Amr, i Blemmi, che d’ora in poi saranno chiamati “Beja”, e i Noba (o Nuba) invasero l’Egitto stesso. Nel 652 ‘Abd-Allah fu costretto a tornare in Nubia per sedare nel sangue la rivolta, e marciò su Dongola, dove il re Koleydozo fu costretto sd accettare una pace con i Musulmani e a fornire un tributo (“bakt“) annuale fissato in 360 schiavi. Questo tributo fu pagato regolarmente per circa 600 anni (Budge, 1907: II, 184-187) dai Beja, come vennero chiamati i Blemmi dagli Arabi. Ma questo non fu senza continue ribellioni e conseguenti rappresaglie da parte dei Musulmani, fino al XIII secolo, anno della loro annessione del Sudan . Apparentemente l’antico nome dei Blemmi è sopravvisuto fino ad oggi nell’Eritrea, presso il gruppo etnico dei ‘Bileni’, situati a nord di Keren, che erano anticamente cristiani copti, e che in parte professano ancora la fede cristiana (Biasutti, 1967: 201-202). I Beja (Bèja, Bedjah, Bojaa, Begia, Bega, Boga, Bogah, Buga, Bodja, Buge, Bugiha), come vennero chiamati dagli Arabi musulmani gli abitanti del Deserto dell’Etbai, o del Deserto Nubiano, sono certamente gli attuali discendenti dei Blemmi che abitano tuttora il Deserto Orientale tra il Nilo e il Mar Rosso (Adams, 1977: 389); come è testimoniato, fra l’altro, da un testo di Kasr Ibrim, dove i due termini vengono utilizzati scambievolmente (Adams, 1977: 730) per indicare la stessa popolazione. Questo nome sembra derivare dalla denominazione egizia degli abitanti del paese di Buka (Budge, 1907: II, 417) e sono menzionata nella iscrizione di Adulis col nome di “Bega” e “Bugeitai” (ibidem). Appartenenti alla razza camita, sono ritenuti da molti antropologi e paletnologi originari dei deserti dell’Arabia e i più vicini rappresentanti della cosiddetta “razza predinastica” della civiltà egizia (MacMichael, 1967; Rachewiltz: 1968; 1984; ecc.). Rispetto a un tempo, in cui i Beja nomadizzavano su un territorio di grande estensione, oggi la loro area di occupazione si è spostata notevolmente più a sud, probabilmente in seguito alla conquista araba e ai combattimenti che ne seguirono. Attualmente come limite nord del territorio Beja si può considerare la frontiera tra l’Egitto e il Sudan, anche se qualche gruppo nomadizza sporadicamente fino al porto egiziano di Kosseir, mentre il limite sud si può situare alla frontiera del Sudan con l’Eritrea. Le attuali tribù Beja del nord, che sono i più diretti discendenti dei Medjai e dei Blemmi, hanno la loro città più importante a Halaib, posta sulla costa del Sudan ai confini con l’Egitto. I Beja, di ceppo camitico, si dividono in cinque gruppi principali: il più arabizzato ed il più settentrionale è quello degli ‘Ababdeh’ (‘Ababda), carovanieri e allevatori di cammelli, che dalla Nubia si spingono in Egitto fino a nord di Kosseir. I ‘Bisharin’ sono il gruppo più ampiamente disseminato, che dalla parte nord-est del Sudan giungono fino all’Atbara; vengono quindi gli ‘Amaràr’, che abitano il retroterra di Port Sudan, e più a sud si trovano gli ‘Hadendoa’, che giungono fino alla valle del Gash. Il quinto gruppo, che è il più puro fra tutti i rami beja, è costituito dai ‘Beni Amer’, anch’essi pastori nomadi e allevatori di cammelli, che vive nella regione etiopica presso Barca, dalla quale periodicamente nomadizzano fino al Sahel. La lingua camitica originaria dei Beja è il ‘bedàwiye’, a cui i gruppi sudanesi sono rimasti i più fedeli, ma i casi di bilinguismo sono sempre più frequenti, e l’antica lingua tende ad essere sostituita dall’arabo; da tempo infatti tutti i gruppi beja sono divenuti musulmani. Del sangue beja scorre anche nelle vene dei ‘Kawahla’, che nomadizzano nel Kordofan sudanese, nei Gurham del Deserto Libico orientale, e in altri gruppi tribali che giungono fino all’Ennedi, come i ‘Bediat’ di origine bisciarina, e al Tibesti. I Beja vivono di pastorizia nomade o seminomade, allevando capre e soprattutto cammelli, che attualmente allevano e vendono annualmente nell’Alto Egitto. E’ probabile, anzi, che l’introduzione in Africa del cammello domestico, utilizzato soprattutto come mezzo di trasporto, sia proprio dovuta ai Blemmi e ai loro discendenti, i Beja. Infatti sappiamo da diverse fonti antiche che i Beja hanno avuto per lungo tempo un vero e proprio monopolio di questo animale, che a seguito dell’inaridimento dei deserti a oriente e a occidente del Nilo, divenne, fin dall’epoca della conquista persiana dell’Egitto, un mezzo di trasporto indispensabile sia per giungere dal Mar Rosso al Nilo, sia per raggiungere le oasi egiziane del deserto libico e per giungere in Libia e in Algeria da sud. L’allevamento del cammello domestico (Camelus dromedarius), ha avuto certamente origine nella penisola araba, ed è attestato sin dal III millennio a.C.; ed è certamente da lì che fu introdotto dai Blemmi nel Deserto Orientale, anche se è difficile stabilire quando. I Beja si servono di particolari cammelli, allevati e selezionati da loro stessi, per il traffico carovaniero, attività che è ancora oggi propria delle tribù di lingua bedàwiye. Le loro capanne sono costituite da un’ossatura di rami disposti ad arco, nella tipologia delle capanne camitiche ad archi paralleli, sulla quale si distendono pelli o stuoie di foglia di palma; questo tipo di capanna si presta ad essere agevolmente smontata e caricata su cammelli in occasione dei loro frequenti spostamenti. Alcune capanne di tipo permanente sono invece costituite da un basamento circolare di pietre a secco e da una copertura superiore di canne e frasche, quindi di tipologia del tutto simile ai resti delle ‘casette’ dei minatori del Deserto Orientale. L’agricoltura è del tutto trascurata, talvolta addirittura sconosciuta. La genealogia si trasmette in linea femminile e l’eredità tocca di diritto ai figli della sorella o della figlia: queste usanze di matriarcato furono parzialmente abbandonate con la conversione all’islamismo. In ogni caso, ancora oggi, la donna gode di una posizione privilegiata e di una grande libertà, fino al punto da poter cacciare il marito dalla casa, che solitamente è di proprietà della donna. Gli antichi egizi appresero dai Beja l’uso del poggiatesta e dello speciale bastone da getto ricurvo noto col nome di ‘trombash‘, che già troviamo nella cultura badariana. Altre usanze che si ricollegano con l’antico Egitto sono la costruzione di vasi in pietra steatite e l’usanza di seppellire cerimonialmente in appositi cimiteri i buoi più appariscenti, dei quali viene conservata la razza di generazione in generazione: un’usanza apparentemente molto simile veniva effettuata dall’antica cultura di Kerma. Ai tempi di al-Maqrizi, cioè nel XV secolo, i Beja praticavano ancora il monorchidismo, cioè l’ablazione del testicolo destro; la stessa usanza era praticata fino in epoca recente da alcuni gruppi San boscimani e dagli Ottentotti. Le donne sposate hanno il diritto di adornarsi con un anello infilato nella narice, la stessa usanza è ancora in uso presso i Teda dell’Ennedi e i Tebu del Tibesti. Come armi usano la spada a lama diritta, il coltello con lama larga a ‘S’, la lancia con punta larga di ferro, un grande scudo rotondo di cuoio e il trombash. Le donne usano portare i capelli riuniti in sottili trecce ingrassate col burro. Sono evidenti i ricordi di antichi tabù, come quello che vieta di cibarsi degli uccelli, la stessa proibizione in vigore presso i Gara (Gurham) del Dhofar, e quello che vieta di tagliare o divellere certi arbusti aromatici, sotto la pena di veder deperire i loro cammelli (fonte principale: Biasutti, 1967: 196-198). I Beja nomadizzano nel deserto di Barca dalla più lontana preistoria: sono già sicuramente presenti nel loro territorio durante il predinastico egiziano. Nei monumenti del periodo faraonico sono raffigurate le guerre degli Egizi contro i Beja, che sono rappresentati e menzionati come genti sorelle, non straniere. I conquistatori sudarabici del I millennio a.C. li trovarono più a sud già stanziati e padroni del paese nord-eritreo. La pastorizia nomade, di cui i Camiti furono i primi portatori in Africa dalle loro sedi asiatiche, rimase a fondamento della loro vita economica e sociale; solo presso le popolazioni più interne dell’altopiano etiopico si verificò in un secondo tempo la trasformazione in agricoltura sedentaria. La popolazione camita dei Beja adottò un linguaggio semitico, imparentato con la lingua ‘gheez’ axumita, in seguito a una o più antiche invasioni sudarabiche di cui restano alcune iscrizioni che risalgono al VII e V secolo a.C., da parte degli ‘Habasciat’ yemeniti, che diedero anche il nome all’Abissinia. Questa tribù conquistatrice sbarcò presso il porto eritreo di Adulis e diede inizio al regno di Axum, adottando in seguito la religione cristiana nel 330 con il re Ezana (Conti-Rossini, 1928: 102, 109-112; Biasutti, 1967: 184). I Blemmi-Beja ebbero diverse capitali nel corso dei secoli, una fu certamente Kasr Ibrim, Primis in epoca greco-romana, imponente città fortificata a oriente del Nilo che consentiva e proteggeva l’accesso nel loro territorio, fu trasferita, in seguito alla conquista cristiana del regno nubiano di Makuria e soprattutto a quella seguente musulmana del VII-VIII secolo, ad ‘Aidhab, dove molte fonti concordano che si trasferì anche il re dei Blemmi-Beja. Ma alcune fonti classiche, come Plinio, fanno ritenere che la “Città di Apollo”, la capitale dei Megabarri, che erano Trogloditi di stirpe blemma, o la “Apolline”, che Strabone pone nella Trogloditica al termine della pista del deserto che partiva da Coptos, fosse proprio la città di Alachi, fatto confermato in seguito da diversi autori arabi, come al-Andalusi, che sostengono che la città reale del re dei Beja divenne Allaki. ‘Aidhab è una località portuale situata sulla costa del Mar Rosso sudanese (22° 20’N – 36° 10’E, o 36° 30’E, a seconda delle fonti), molto a sud dell’antico porto tolemaico di Berenice Trogloditica, e a 18 km a nord-ovest del porto attuale di Halaib, divenuto attualmente la più importante città dei Beja del nord. La città di ‘Aidhab, le cui rovine sono attualmente chiamate “Suwàkin el-Qadìm”, divenne presto uno dei più importanti porti del mondo musulmano, dove il re Beja divenne coreggente col prefetto dell’Egitto arabo, ed è citata, fra gli altri, dal geografo del X secolo Ibn Haukal, come essere il porto dove veniva caricato l’oro proveniente dalle miniere dell’Uadi Allaki. Fino al XII secolo (per es. in al-Bacri) la città mantenne il vecchio nome di ‘Adhdhab, che presumibilmente derivava da “Ad-dahab“, cioè “Dell’oro”. La sua fama e ricchezza derivò, oltre dal commercio dell’oro delle miniere di Allaki, dal commercio con l’Arabia, con lo Yemen e con l’India, e in seguito divenne il principale porto di imbarco per i pellegrini musulmani che si recavano ai luoghi santi dell’Arabia. Situata in una zona desertica priva d’acqua, doveva importare tutte le provviste necessarie. I suoi abitanti erano molto ricchi, poiché esigevano una tassa su tutte le merci che transitavano di lì, e noleggiavano a caro prezzo le navi ai pellegrini che volevano recarsi a Jedda. Le loro navi erano costruite senza chiodi, come quelle dei loro predecessori, i Trogloditi, le assi erano legate con funi fatte con la fibbra di una palma da cocco e sigillate con del burro, o con dell’olio ricavato da una pianta, o estratto da un grande pesce che divorava coloro che cadevano in acqua. Le vele erano fatte di stuoia ricavata dall’albero di Mokel. I propietari delle barche le sovraccaricavano dicendo “A noi appartiene la cura della barca e ai pellegrini la loro propria persona”. Gli abitanti di ‘Aidhab soni i Beja, che non sono credenti e che si dice siano di poca intelligenza. Sia gli uomini che le donne non portano vesti, solo alcuni portano un brandello di stoffa attorno ai loro fianchi (Budge, 1907: II, 189-190). ‘Aidhab fu citata da moltissimi scrittori arabi e infine, a partire da Leone Africano, fu conosciuta dai cartografi europei del XVI-XVIII secolo col toponimo di Zibid o Buge. ‘Aidhab divenne presto “uno tra i più importanti porti del mondo, poiché le navi dell’India e dello Yemen sbarcano qui le loro mercanzie”, e da cui “provenivano 200.000 sharaf (ca. 2.400.000 franchi-oro) di entrate all’anno”. Dopo essere divenuta l’unica via possibile per i pellegrini musulmani che si recavano alla Mecca durante gli anni delle crociate, cioè a partire dal 1058, ‘Aidhab venne distrutta, come ci riferisce Leo Africanus, nel XV secolo dal sultano dell’Egitto, con l’aiuto dei soldati Turchi armati di ‘schioppetti’, poiché i Beja avevano attaccato una ricca carovana araba diretta alla Mecca. Furono uccisi oltre 4000 Beja e tutti gli altri abitanti che non riuscirono a fuggire, furono fatti prigionieri e deportati a Dongola e a Suakin, fondata precedentemente da degli Yemeniti dell’Hadramaut. Nella città risiedevano due governatori, uno nominato dal re dei Beja, l’altro dal sultano dell’Egitto; due terzi degli introiti del porto andavano al re dei Beja, il restante terzo al sultano dell’Egitto. Le rovine di ‘Aidhab furono probabilmente scoperte nel Gennaio del 1896 da Theodore Bent (1896: 336), anche se l’identificazione con l’antico porto non è del tutto certa, e in seguito l’unico altro studioso europeo a visitare il luogo sembra sia stato George Murray nel Dicembre 1925 (1926), che trovò tra le rovine diversi resti di ceramica verde di tipo orientale, perle di vetro rotte e alcune monete arabe del 1270. Molto recentemente una missione archeologica francese e in seguito una giapponese hanno iniziato una prospezione e uno studio dell’insediamento di ‘Aidhab (Hakem, 1992). I Beja si ribellarono più volte alla dominazione araba, e sotto il califfato di al-Ma’mun fu inviato il generale ‘Abd-Allah ibn Jahan che li sconfisse a più riprese, e che sottoscrisse col re dei Beja, Kanun, un nuovo trattato di pace nell’831, che prevedeva, oltre ai soliti tributi annuali, a cui furono aggiunti peraltro cento cammelli, la fornitura di provviste alimentari ai Beja da parte dello stesso califfato. Nell’854 i Beja si ribellarono ancora e rifiutarono di pagare al califfo l’abituale tributo annuale, che a quel tempo consisteva in 400 schiavi, oltre a dei cammelli, a degli elefanti e a delle giraffe. Essi si reimpossessarono delle miniere del Deserto Orientale e fecero prigionieri gli egiziani che vi stavano lavoravano. Quindi invasero l’Egitto e si impadronirono delle città di Aswan, di Esna e di Edfu. Di conseguenza l’allora governatore dell’Egitto, ‘Ambasa, agli ordini del califfo di Bagdad al-Mutawakkil, inviò le sue truppe, composte da diverse migliaia di uomini, sembra 20.000 fra cavalieri e fanteria, al comando di Muhammad di Qummi, che, partendo da Qus (Coptos), giunse fino alle miniere del Deserto Orientale e ad Alachi; e inviò contemporaneamente da Suez alcune navi cariche di provviste nei pressi dell’antico porto di ‘Aidhab. Il re dei Beja, ‘Ali Baba, che sembra si fosse alleato a quel tempo col re cristiano dei Nuba, Yurki, nonostante esistesse fra questi e gli Arabi un trattato di non belligeranza, si preparò allo scontro finale contando su una forza numericamente molto superiore, costituita dai suoi uomini a cammello, ma fu battuto dalla cavalleria araba con il famoso stratagemma di legare ai cavalli dei campanacci, cosa che ebbe l’effetto di terrorizzare i nervosi cammelli dei Beja, mettendoli in fuga con i loro cavalieri, che in parte furono calpestati dai loro stessi destrieri. Dopo un ultimo tentativo di attacco da parte del re, i Beja furono definitivamente sconfitti. Fu così che nel 855 ‘Ali Baba fu costretto a un trattato di resa col comandante arabo al-Qummi, che lo impegnava a pagare tutti i tributi dovuti anche per gli anni passati, e soprattutto a non impedire più agli Arabi di sfruttare le miniere del Deserto Orientale. L’anno dopo ‘Ali Baba fu portato alla corte del califfo di Bagdad, che acconsentì, dopo l’accordo, a farlo tornare nel suo regno (si veda anche in ‘Fonti arabe’: at-Tabari, al-Miskawaih, Qudama al-Baghdadi, Ibn Hawqal e Ibn al-Furat). Ma è interessante notare che questa famosa battaglia, che in un certo senso segnò il declino della forza beja per gli anni a venire, fu combattuta proprio nei pressi della città di Alachi, che per lungo tempo, come testimonia ancora nel XIII secolo al-Andalusi, fu la sede del re dei Beja (Vantini, 1975: 412). Infatti Qudama al-Baghdadi, descrivendo questa vicenda, racconta che il comandante al-Qummi giunse proprio ad “al-Ma’din” (“La Miniera”), dove si svolse la battaglia con i Beja, che è l’antico toponimo arabo della città di Alachi; e aggiunge inoltre che le barche arabe con le provviste sbarcarono ad ‘Aidhab, che è il porto più vicino ad Alachi (ibidem: 106). Ugualmente Ibn Hawqal riporta che questa battaglia si svolse nei dintorni della città di ‘Allaqi, dove risiedeva il re dei Beja con le sue truppe e alla cui miniera, di cui aveva precedentemente notato gli antichi lavori di sfruttamento minerario da parte dei “Greci” (“ar-Rum”), lavoravano a quel tempo migliaia di immigrati Arabi provenienti dallo Hijaz e dallo Yemen (ibidem: 156-157). Gli autori at-Tabari, al-Miskawaih, al-Athir ed al-Furat sono concordi ad affermare esplicitamente che il comandante arabo al-Qummi giunse a un ‘castello’, o a una ‘fortezza’, o a un ‘luogo fortificato’ nel deserto, dove risiedeva il re ‘Ali Baba con le sue truppe beja a cammello (ibidem: 101, 225, 351 e 535), inoltre ar-Rumi descrive ‘Allaqi come “una fortezza nel paese dei Beja” (ibidem: 345); da tutto questo si deduce chiaramente l’identificazione con i castelli di Alachi, che quindi sono necessariamente precedenti al 855, epoca della battaglia che lì si svolse. Nell’anno 878 Abu ‘Abd ar-Rahman ibn ‘Abd-Allah sfruttò le miniere d’oro del deserto con un gran numero di uomini e di cammelli, ma fu costretto a combattere contro i Nubiani di re Giorgio che gli creavano molti problemi nell’area di Dongola. Nell’anno 956 il comandante arabo Muhammad ibn ‘Abd-Allah marciò contro i Nubiani, che avevano nuovamente attaccato Aswan, e li sconfisse impossessandosi anche di Kasr Ibrim, che era da tempo in mano ai Beja e ai Nubiani. Nel 1005 un membro della famiglia reale omayyade, al-Walid ibn Hisham al-Khariji, che prese il soprannome di Abu Rakwa, cioè ‘il padre della bottiglia di pelle’, si impossessò dell’Egitto sconfiggendo le truppe del califfo. Si rifugiò in seguito in Nubia dove si alleò con i Nubiani, ma fu in seguito vinto in maniera cruenta, e 30.000 teste dei suoi seguaci furono portate in processione dal Cairo fino all’Eufrate. Finalmente nel 1173 fu intrapresa dagli Arabi una imponente spedizione contro i Nubiani cristiani sotto il comando di Turan Shah, fratello di Saladino, che, passando per lo Yemen, prese e rase al suolo la città fortificata di Kasr Ibrim, che era nel frattempo tornata nelle mani dei Nubiani. Nel 1275 i Musulmani annessero la Nubia, e di conseguenza il re nubiano Dawud (Davide) ruppe il trattato con gli Arabi, facendo prigionieri molti di loro che rinchiuse a Aswan e ad ‘Aidhab. Gli Arabi non riuscirono a sconfiggere i Nubiani, ma fecero a loro volta diversi prigionieri, fra cui ‘il Signore della Montagna’ che il califfo ordinò di tagliare in due. Shakanda, un nipote di re Dawud, si alleò con i Musulmani, e gli Arabi marciarono in forze contro i Nubiani attraverso il deserto e lungo il Nilo, distruggendo tutte le chiese e i vallaggi che incontravano. Re Dawud venne sconfitto, e il califfo nominò Shakanda re della Nubia, che accettò di pagare pesanti tributi ai Musulmani. Seguirono in Nubia secoli di disordini e ribellioni, duramente sedate dal sultano del Cairo, fino a quando, nel XIV secolo il regno cristiano di Nubia, che si estendeva da Aswan al Nilo Azzurro, cadde letteralmente a pezzi, oppresso da oltre sette secoli di guerre e pesanti tributi imposti dai Musulmani, e dalle tribù pagane del sud (Budge, 1907: II, 187-199). Imparentate con i Beja sono anche alcune popolazioni dell’Eritrea settentrionale, come gli ‘Habàb’, che appartengono alla classe dominante dei ‘Bet Asghedè’, e i ‘Naib’ di stirpe chiaramente Beja, che risiedono principalmente ad Archico e si spingono sulla costa fino a Massaua. Sono pastori nomadi un tempo cristiani che si convertirono in seguito all’islamismo, la loro attività principale è il trasporto con carovana. Simili a questi sono anche i ‘Beit Juk’, che al contrario dei precedenti, praticano anche l’agricoltura. I pastori ‘Beit Malà’, che vivono al limite settentrionale del Sahel, parlano un linguaggio Beja e pretendono di essere di origine araba. Comunque fra le popolazioni del Sahel vi sono tre tribù dedite alla pastorizia nomade, di origine certamente araba: gli ‘Ad Sheikh’, gli ‘Ad Muallìm’ e i ‘Rasciàida’. Questi ultimi, di recente immigrazione vivono tra Suakin e il littorale nord-eritreo, sono dediti anche alla pesca e mantengono i caratteri somatici, la lingua e i costumi degli Arabi, non si incrociano con gli indigeni, e commerciano con i loro sambuchi con gli Arabi della vicina penisola. Altre brevi citazioni sui Blemmi-Beja ci sono giunte da: -Aghathemere, “Ap. Geographos minores”, che li colloca presso il golfo di Adulis, li chiama “struzzofagi” (cioè mangiatori di struzzi). -Strabone, nella “Geografia” (Lib. XVII), riferisce che il loro paese si estende nel deserto a oriente di Meroe, e che erano confinanti con i Nubiani sotto Siene (Aswan). -Pomponius Mela, “De situ orbis”, seguito da Cellarius in “Notitiae orbis antiqui”, li situa nell’interno dell’Africa, dopo i Garamanti. -Zosimo, nella “Historia”, riferisce che sotto il regno di Probus si impadronirono delle città di Coptos e di Ptolemais (Tolemaide); ma questo principe gli inviò contro un esercito che li mise in fuga e fece molti prigionieri che inviò a Roma dove il loro aspetto fece grande impressione: in effetti, secondo Plinio, Solino, Mela e altri, essi non avevano testa; i loro occhi e le loro bocche infatti si trovavano sul petto. -Theodosio I (378-395), nel suo “Editto” e Marinus di Flavia, trent’anni dopo, nella sua “Vita di Proclus”, testimoniano che il culto di Iside fosse ai loro tempi ancora seguito dalle popolazioni dei Blemmi e dei Nobadi; questi ultimi si convertirono al Cristianesimo solo alla fine del VI secolo. -Claudiano (ca. 395) nel suo “De Consulatu Stilichonio” parla dei “Blemmi feroci”, dei “Nuba coronati di piccole frecce” e dei “veloci Garamanti”. -Epifanio (403) parla della nazione “Blemmia” attraversata dal Nilo che situa a sud della Tebaide; inoltre afferma: “Oggi Talmis (Kalabsha) è in mano ai Blemmi…vi sono altri metalli nel territorio degli stessi barbari blemmi, tra le montagne vicino a Talmis…i barbari li scavano e tagliano gli smeraldi”. Similmente Sulpizio Severo (410) afferma che i Blemmi confinano con la Tebaide. -Olimpiodoro, nativo di Tebe, visitò la Nubia (e la Tebaide) fra il 407 e il 425 su invito dei sacerdoti blemmi, afferma che a quel tempo i Blemmi, e le altre tribù Beja, erano pagani e che egli stesso incontrò a Talmis (Kalabsha) i loro filarchi e profeti che lo condussero fino a Primis (Kasr Ibrim). Inoltre sostiene che le città di Talmis, Primis (Prima), Phoinicon, Chiris e Thafis, o Tapis (Tafa), a quell’epoca fossero tutte in mano dei Blemmi, e che sentì parlare delle loro miniere di smeraldi presso Talmis che essi sfruttavano per il re d’Egitto, ma che non era possibile andarci senza il permesso del loro re. Appare chiaro che al tempo della sua visita i Blemmi erano i padroni di tutta la Bassa Nubia (allora chiamata dai Greci “Dodekaschoinos”, cioè dei “12 Schoinos“, equivalenti a 120 stadi, termine riferito alla lunghezza di quel territorio, lungo ca. 130 km). -Evagro riporta che nel 435 i Blemmi si impadronirono di Kharga e rapirono il patriarca Nestore in esilio, portandolo nella Tebaide. Gli scavi del villaggio cristiano intorno al tempio di Hibis hanno confermato tracce di incendio e distruzione attribuite all’invasione dei Blemmi verso il 450, da cui l’oasi non si solleverà più fino alla conquista musulmana, seguite dalle scorrerie sulle altre oasi del Deserto Occidentale. -Marziano Capella (439) riafferma, come Plinio e molti altri autori classici, che “I Blemmi sono senza testa e hanno gli occhi e la bocca infissi nel petto”. -Apione (ca. 450), vescovo di Siene (Aswan), chiede agli imperatori Teodosio II e Valentiniano di mandare rinforzi per proteggere la comunità cristiana di File dagli attacchi dei Blemmi e Nobati. -Nella “Vita di Shenute” si legge che i Blemmi avevano razziato il monastero di Sohàg per catturare uomini e bestiame. Il testo porta scambievolmente i termini “Balemmooui” e “Begia“, confermando l’identità dei due nomi. -Lo storico Prisco riferisce della “pace dei cento anni” firmata nel santuario di File tra il generale cristiano Massimino e i Blemmi alleati coi Nobati nel 452, che prevedeva il rilascio senza riscatto dei prigionieri romani e la restituzione del bestiame rubato. -Silko, re dei Nobati e degli Etiopi (axumiti), fa incidere verso il 540 sul tempio di Kalabsha una lunga iscrizione greca dove afferma di aver battuto per quattro volte i Blemmi che giurarono la pace “sui loro idoli” e di aver distrutto tutte le loro città da Primis fino a Talmis. -Poco tempo dopo Narsete, prefetto d’Egitto, su ordine di Giustiniano I fece chiudere il tempio di Iside a File e mise fine al culto pagano dei Blemmi. Narsete imprigionò i loro sacerdoti e li mandò a Bisanzio assieme ad alcune statue. -Due documenti in greco del VI secolo ci hanno tramandato il nome di due re dei Blemmi: Carachen e Pakitimne. -Stefano di Bisanzio, in “De urbibus“, afferma che i Blemmi costituiscono una nazione barbara della Libia. -Evagrius, nella “Historia ecclesiastica”, riferisce che Nestore, esiliato nell’oasi di Kharga (necropoli di el-Bughaouat) con i seguaci che aderivano alla sua eresia, fu catturato, nel V secolo, dai Blemmi (Beja), che in seguito lo rilasciarono senza avergli fatto del male. -I Beja, o Bedjah secondo gli Arabi, erano gli abitanti nomadi dei vasti deserti posti fra l’Egitto, la Nubia, l’Abissinia e il Mar Rosso. -Al-Hamadhani (al-Faqih), ca. 902. (Si veda anche citazione in ‘Fonti arabe’: Al-Faqih al-Hamadhani). Secondo al-Hamadani, Kanaan, figlio di Kham, che aveva sposato Aribab, figlia di Batouil, nipotina di Japhet, ebbe sei figli: Khafa, Asouad, Noubah, Fezzan, Zindj e Zaghawah che diedero la nascita delle differenti tribù dei Neri. Si dice che i Beja discendano da Kham, figlio di Noè. Secondo alcuni traggono la loro origine da Kousch, figlio di Kanaan; secondo altri sono solo una tribù abissina. I Beja vivono sotto tende di pelo (pelli di montone?). Hanno colorito più scuro che gli Abissini. Il loro costume è simile a quello degli Arabi. Presso di loro non si vedono né città né villaggi né terre coltivate. Tutte le scorte che consumano sono importate dall’Abissinia, dall’Egitto e dalla Nubia. Una volta erano idolatri, ma abbracciarono l’islamismo all’epoca di Abdallah b. Saad b. Abi-Serah, emiro d’Egitto. Questo popolo è generalmente liberale. Si divide in tribù e famiglie, di cui ciascuna ha un suo capo particolare. I Beja sono nomadi e non vivono che di carne e di latte. -Al-Mas’udi, 943. I Beja abitano tra il mare di Kolzoum (Mar Rosso) e il Nilo. Si dividono in diverse tribù e riconoscono l’autorità di un capo supremo. Si trovano nel loro paese miniere d’oro nativo e di smeraldo. Montando su dromedari, sia in corpo d’armata, sia in piccoli gruppi, fanno incursioni fino in Nubia e prendono molti prigionieri. Una volta i Nubiani erano più potenti dei Beja, ma dopo l’instaurarsi dell’islamismo un gran numero di Musulmani si stabilirono vicino alle miniere d’oro e nei paraggi di ‘Allaki e di ‘Aidhab. Una moltitudine di Arabi della tribù Rebiah, figlio di Nezar, figlio di Maad, figlio di Adnan si stabilirono nella stessa contea e divennero potenti. Essi presero delle donne Beja e a loro fecero sposare le loro figlie. I Beja acquisirono così nuova forza; e d’altro canto gli Arabi di Rebiah, con l’aiuto di questi nuovi alleati, furono in grado di vincere i loro vicini e i loro rivali, come gli Arabi di Kahtan e le altre tribù stabilitesi nella stessa contrada. All’epoca che scrivo questo, cioè nell’anno 332, la miniera è sotto il potere di Bescher, figlio di Merwan, figlio di Ishak, figlio di Rebiah. Quando questi si mette in opera, ha al suo seguito oltre tremila Arabi di Rebiah e dei loro alleati, quelli di Modar e dello Yemen, e poi trentamila guerrieri Beja, che montano sui dromedari, armati di scudi. Soli tra tutti i Beja, gli Hadarib hanno abbracciato l’islamismo; i Beja che vivono nell’interno del deserto sono pagani e hanno un idolo al quale rendono un culto religioso. Quanto ai Beja nomadi, che sono i padroni della miniera di smeraldo, vivono in un territorio che si estende fino all’Allaki, dove si trovano le miniere d’oro. Fra l’Allaki e il Nilo la distanza è di quindici giorni. La città più vicina è quella di Aswan. L’isola di Suaken è meno di un miglio lunga, per un miglio di larghezza. Essa è separata dal Mare d’Abissinia da un piccolo braccio di mare che si passa a guado. Gli abitanti sono una tribù Beja che si chiama al-Khasa. Sono musulmani e hanno un principe che risiede in quella città. -Al-Maqrizi (1364-1442), tratto dal testo probabilmente oggi perduto di Ibn Selim al-Aswani (o al-Assouani): “Storia dei Nuba, di Maqurra, di ‘Alwa, dei Beja e del Nilo”, in cui sono riportate precise e importanti informazioni di carattere storico-etnologico sui Beja. Descrizione dei Beja. (…) (Si veda anche in ‘Fonti arabe’: Al-Aswani). Si dice che i Beja siano un popolo berbero. I Beja sono nomadi e abitano sotto tende di cuoio, che trasportano dove trovano pastura. Essi contano la loro genealogia dal lato matrilineare; ciascuna sezione delle loro tribù possiede un proprio capo, ma non hanno un re. Essi non seguono la religione di Dio. Presso di loro l’eredità passa al figlio della sorella, o a quello della figlia, in pregiudizio rispetto al figlio del defunto. Per giustificare questa usanza, sostengono che la nascita dei figli della sorella non può essere messa in discussione e che essi appartengono incontestabilmente alla famiglia, qualsiasi ne sia il padre. Essi avevano un tempo un capo supremo, al quale erano tutti subordinati e che stava in un villaggio chiamato Hajar (o Hadjr: in arabo “Pietra”), situato all’estremità del paese dei Beja. Questa gente monta dei dromedari di colore bruno chiaro (o rossiccio) che nascono in quel paese. Hanno anche un gran numero di cammelli di razza araba. Le loro mandrie di buoi, capre e montoni sono innumerevoli. I loro buoi, che sono belli e di un colore stupefacente, hanno la testa adorna di grosse e grandi corna, mentre altri dei loro buoi non hanno corna. Le loro capre e le loro pecore, che sono di razza tigrata (o macchiata), danno molto latte. Il loro cibo consiste di carne e un po’ di formaggio, la loro bevanda preferita è il latte. I loro corpi sono robusti e i loro stomachi sono magri, la loro pelle è abbastanza chiara (di tinta giallognola). Sono molto veloci: essi superano tutti gli altri uomini nella corsa. Anche i loro cammelli sono molto veloci: possono tenere un passo lesto per molto tempo, senza sentire la necessità di abbeverarsi. I Beja montano a cammello dietro la gobba, e possono superare in battaglia i loro avversari che montano a cavallo: essi gli girano attorno come vogliono, e possono scorrazzare per una incredibile distanza nel loro paese. Bisogna anche menzionare che i Beja si recano al combattimento sui cammelli lanciando dei giavellotti: se questo ha raggiunto il bersaglio, il cammello corre verso esso, in modo che il suo padrone possa afferrarlo; ma se il giavellotto cade a terra, il cammello china il suo collo verso terra, così che il suo padrone possa facilmente riafferrarlo dal suolo. (…?) Qualche tempo fa, fra loro si mise in luce un uomo chiamato Kilaz (Kilar). Era forte e coraggioso, e possedeva un cammello di una velocità incredibile: il cammello, come il suo proprietario, aveva solo un occhio. Egli promise al suo popolo che si sarebbe recato alla massalà di Fustat (Cairo) nel giorno della festa. Questo giorno era così vicino, che ciò sembrava impossibile, ma egli mantenne la promessa ed arrivò in tempo a Moqattam. Molti cavalieri partirono dopo di lui, ma nessuno riuscì a superarlo. Fu a causa di questo fatto che furono messe delle sentinelle ai piedi di Moqattam all’inizio della festa. I Tulunidi e altri emiri dell’Egitto usavano infatti mettere ai piedi della montagna di Moqattam, in un luogo situato presso il quartiere degli Habash, una numerosa guarnigione incaricata della sicurezza della popolazione, fino a quando la festa fosse finita. I costumi dei Beja. I Beja sono un popolo che vive sotto la protezione dell’Islam; se qualcuno compie un tradimento, la persona che lo ha subito alza un pezzo di stoffa su una punta di lancia e dice: ‘Questo appartiene allo sconosciuto’ (‘Questa è la tenda di qualcuno’), intendendo dire con questo gesto: ‘Io stesso sono il colpevole del mal tolto’. In questo modo egli vuole rivendicare la responsabilità su lui stesso, fino a quando non si giunga ad un accomodamento. Essi sono eccessivamente ospitali: se un visitatore giunge presso uno di loro, l’ospite uccide un agnello in suo onore. Se i visitatori sono più di tre, l’ospite uccide un cammello preso dalla mandria più vicina, sia che appartenga a lui o a qualcun altro. Ma se non ci sono assolutamente animali nei dintorni, egli uccide il montone, o il cammello, dell’ospite stesso, ricompensandolo in seguito con uno migliore. Le loro armi sono delle lance lunghe in totale sette cubiti chiamate “Sebaiah” (suba’ iyya), così soprannominate perché la punta in ferro con cui sono equipaggiate misura tre cubiti, lunghezza che equivale a quella di una spada, e l’asta di legno misura quattro cubiti, per la quale ragione esse sono chiamate “Sebaiah” (cioè di sette cubiti). Le lanciano raramente, poiché all’estremità dell’asta di legno c’è una specie di laccio che serve a non sfuggirgli di mano. Le donne costruiscono queste lance in un luogo dove nessun uomo può entrare, se non per acquistarle. Se qualcuna di queste donne ha una bambina da uno dei visitatori, esse la tengono presso di loro, ma se al contrario una di loro ha un bambino, esse lo uccidono, dicendo che gli uomini sono capaci solo di litigare e di fare la guerra. I loro scudi sono fatti di pelli di bue col loro pelo, e hanno anche degli scudi particolari, che chiamano ‘axumiti’ (aksumiyya), di sagoma capovolta e fatti di cuoio di bufalo, altri chiamati ‘dahlakiani’ (dahlakiyyah), ed altri ancora fatti con la pelle di un animale marino. I loro archi sono grandi, spessi e fatti di legno di cedro o di tasso (legno non africano, tipico nella costruzione degli archi europei; ndr), e hanno la forma degli archi arabi. Se ne servono per lanciare frecce avvelenate. Il loro veleno si ricava dalle radici di un albero chiamato Ghalqah, o Falfa (Peganum harmala, un albero velenoso indigeno dell’Arabia; ndr), che fanno bollire sul fuoco, fino a quando il suo succo non abbia la consistenza della colla. Quando vogliono provarlo, uno fra loro si taglia la pelle e, lasciando colare il sangue, gli applica sopra il veleno: se il sangue torna indietro (potrebbe significare ‘se il sangue si ferma’, cioè si coagula ?; ndr), significa che il veleno è efficace. Colui che ha fatto la prova succhia innanzitutto il sangue, per paura che non rientri nel suo corpo, e gli causi per questo la morte. Poiché qualsiasi uomo che venga raggiunto da una di queste frecce avvelenate muore immediatamente, anche se la puntura non è più grande di uno spillo. Del resto il veleno non ha effetto che quando penetra nel sangue da una ferita; infatti, anche se lo si beve, non fa alcun male. (…) Il paese dei Beja. (…) Tutti i loro uomini sono privati del testicolo destro, e le loro donne sono private delle grandi labbra: i margini vengono congiunti assieme e fatti cicatrizzare, così che, al matrimonio, è necessario fare un’incisione conveniente per l’organo maschile. Questa pratica sta diventando rara. Si dice che la ragione di queste pratiche sia dovuta a un re che, avendo sconfitto i Beja in guerra, fece un trattato di pace fra le cui condizioni c’era l’obbligo che alla nascita, tutte le bambine dovessero essere private del loro petto e tutti i bambini dei loro organi genitali: in questo modo egli intendeva fermare la loro procreazione. Essi accettarono queste condizioni, ma ne capovolsero i termini, così che essi tagliano i petti degli uomini e le vulve delle donne. Alcuni inoltre si tolgono i due denti incisivi, si dice per paura di assomigliare agli asini (alle scimmie). Al termine estremo del loro territorio, c’è un’altra tribù dei Beja chiamata Bazah, fra cui tutte le donne hanno lo stesso nome, e così anche gli uomini. Capitò a un Musulmano, proprietario di un cammello, di passare attraverso quel paese; essi si chiamavano l’un l’altro dicendo: ‘Questo è un Dio che viene dal cielo e ora è seduto sotto un albero!’ Mentre essi lo guardavano da distante. Essi tengono in grande considerazione i serpenti. I serpenti di questo paese sono grandi e appartengono a molte specie diverse: si racconta che un serpente si trovava una volta in uno stagno, con la sua coda sopra l’acqua, e che una donna, che andava in cerca d’acqua, quando lo vide morì di convulsioni. Qui vive un serpente senza testa, non molto grande, con entrambe le estremità simili, e di colore macchiato. Se una persona cammina sopra le sue tracce, muore; e se esso viene ucciso, e la persona tiene nelle mani il bastone con cui lo ha colpito, muore egli stesso: uno di questi serpenti una volta venne ucciso con un bastone, ed esso si divise improvvisamente in due. Se si guarda a lungo uno di questi serpenti, sia vivo che morto, se ne ha danno. (…) (segue in ‘Fonti arabe’: al Aswani). I maghi dei Beja. I Beja dell’interno, che vivono nel deserto della regione di ‘Alwa, lungo il Mar Rosso fino alla frontiera degli Habasha, sono, come gli Hadarib, nomadi e pastori, hanno lo stesso cibo, utilizzano gli stessi animali da carico e lo stesso tipo di armi; la sola differenza è che gli Hadarib sono più coraggiosi e meno turbolenti. I Beja della regione interna sono rimasti pagani, seguendo il credo di Satana e i giudizi dei loro maghi. Ciascuna tribù possiede il proprio mago, che costruisce una capanna a cupola di pelle dove essi praticano le loro credenze. Se essi vogliono consultarlo sulle loro necessità, egli si toglie i suoi abiti e entra nella capanna camminando all’indietro, poi egli ne esce con le sembianze di un pazzo, urlando: ‘Il Diavolo vi saluta e vi avverte di spostarvi in tale e tale posto, per tema che un certo popolo vi attacchi. Voi avete chiesto su tale e tal’altra scorreria: bene, andate, poiché la vittoria sarà vostra e voi prenderete tale e tale bottino; i cammelli che voi catturerete da tale e tale posto saranno miei, così come le ragazze schiave che troverete nascoste in tale e tale posto, e così le pecore di tale e tale tipo’. Egli emette queste e altre simili parole ed essi credono che la maggior parte delle sue predizioni si verificheranno. Se prendono un bottino, essi separano la parte che egli ha designato e la danno al mago. Se qualcuno non è d’accordo su questo, essi gli tolgono il diritto di bere il latte delle loro cammelle. Se decidono di spostarsi in un altro luogo, il mago carica la sua capanna di pelle su un cammello particolare, ed essi affermano che quel cammello riesca solo con grande difficoltà ad alzarsi in piedi, che riesca a camminare a fatica e che sudi in abbondanza, sebbene la capanna sia vuota. Anche tra gli Hadarib ci sono alcuni che seguono ancora queste pratiche, mentre altri seguono queste credenze insieme all’Islam. Lo storico della Nubia, da cui io ho riassunto quello che ho relazionato qui sopra, afferma che ha letto una lettera scritta da alcune tribù al Comandante dei Credenti Alì ibn Taleb, dove sono menzionati i Beja e i Kajah. In questa lettera si dice che essi sono gente selvaggia, ma poco incline al furto. Effettivamente questo è vero per i Beja, ma non conosco i Kajah. Qui termina quello che ha riportato Abdalla b. Ahmed al-Aswani, lo storico della Nubia. -L’autore (?) del Kitab al-Fehrest riferisce che i Beja avevano una scrittura particolare (segreta?, ndr), ma che lui non l’aveva mai vista. -Abou Taleb al-Djemhy riferisce che quando un Beja si presenta davanti a un principe lo saluta mettendogli una mano sulla spalla. Se vuole testimoniare il più grande rispetto alza la mano e la ripone nello stesso luogo più volte consecutive. -Ibn Khaldun (Storico e genealogista), nato in Tunisia nel 1332, morto nel 1406: “Storia delle dinastie musulmane e delle tribù arabe e berbere” – “Popoli e nazioni del mondo”. (Secondo questo autore, la razza berbera si divide in due grandi gruppi, forse discendenti dallo stesso progenitore Berr, figlio di Màzigh, figlio di Canaan, o comunque dalla stessa madre: i discendenti di Madghis el-Abter, che diedero origine al gruppo chiamato ‘al-Butr’, e i discendenti di Bernes, chiamati ‘al-Barànis’. Questi ultimi formarono sette tribù: gli Azdàia, i Macmùda, gli Awraba, gli ‘Ajìsa, i Ketàma, i Canhàja, gli Awrìgha; a alcuni aggiungono i Lamta, gli Haskùra e i Gezùla. Ma Ibn al-Kalbì afferma che i Ketàma e i Canhàja non sono tribù berbere; essi appartengono al gruppo arabo-yemenita che Ifrìqish, figlio di Cayfì, aveva stabilito in Ifrìqiya con le truppe che egli aveva lasciato a guardia del paese. Dai Butr discendono quattro tribù: gli Addàsa, raggruppati sotto il nome degli Huwàra, fratello appunto di Addàs; i Neffùsa, i Dariya e i Banù Luwà el-Akbar, da cui discendono i Louata. I Louata sono probabilmente gli ‘Lauguatan’ descritti nel poema storico che Corippo scrisse per celebrare la vittoria bizantina contro le tribù libiche.) “Secondo al-Mas’udi, una numerosa popolazione louatiana occupava le oasi dell’Egitto, regioni che conosceva bene all’epoca in cui scriveva; ma al presente Dio solo sa cosa quello che queste genti sono diventate. Gli Zenara, del gruppo dei Louata, abitano le pianure che si estendono dal lago di Bahira di Alessandria fino al Cairo…Qualche resto delle tribù Louata si incontra in Egitto e nei villaggi del Sahid (cioè nel Deserto Orientale egiziano), dove si occupano di fare pascolare i loro armenti e di coltivare la terra. Anche nella campagna di Bougia (cioè del paese dei Beja) si vede una frazione che porta lo stesso nome di Louata. Questa abita la piana di Tagrert dove coltiva la terra e fa pascolare le greggi. Essa prende i suoi capi da una loro famiglia, quella di Radjeh-Ibn-Souab; ma essa è tenuta a pagare un’imposta al governatorato di Bougia ed a fornire un contingente all’armata del sultano. Ecco tutte le divisioni delle tribù dei Louata che si conoscono attualmente, ma ve ne sono ancora un gran numero che si sono mescolate e confuse con altre tribù.” -Botero Giovanni (Geografo), Venezia 1618: “Delle Relationi Universali.” “Aggiunta alla Quarta Parte dell’Indie”: (Descrizione dei Blemmi con fattezze mostruose; corredata da due illustrazioni.) (Capitolo Terzo) “Nelle selue dell’Asia albergano huomini senza capo, c’hanno gli occhi nel petto, e vanno ignudi fuori che nelle parti, che la natura fece vergognose; per l’ardor del Sole portano nella sommità delle spalle un cappello grandissimo, che da quella arsente ingiuria gli difende, e con esso colgono il pepe, che a mercatanti stranieri vendono. Invero che costoro sembran’un miracolo di natura, o piu tosto un’aborto, e ha del prodigio, perche non un solo nasce cosi, mà le migliaia, onde pare che la natura, che tutte le cose forma perfette, in costoro manchi, quasi ch’essa cosi gisse scherzando, e si compiacesse di cosi mostruose forme, de’ quali per appunto son costoro.” (Capitolo Quarto) “L’Egitto Regno dovitiosissimo, già sede di Piramidi, e d’altre meraviglie terrene, ha nella sommità delle Alpi, animali difformi, che huomini paiono, perche il volto, il collo, il petto, le mammelle, le braccia, e i piedi sono simili, e in nulla differenti a quelli de gl’huomini, il rimanente del corpo, a i cameli simiglia, non fanno piu che due figliuoli per uno, che sopra le spalle portano, fin che sono atti a caminare da se stessi. Non viuono piu che trenta anni, e per la rozzezza loro (viuendo tra le selue) corrono velocemente. Gli huomini attendono alle pescagioni, e hanno proprio Signore, a cui ubidiscono.” -J. Bruce (1790) esploratore inglese in Egitto, Sudan ed Etiopia. L’autore delimita il territorio Beja in questi termini: “Il paese che si estende lungo la costa dopo Masuah fino a Suakem, e che poi volge all’occidente e continua a seguire questa direzione fino al deserto di Selima; limitato dal Nilo a mezzogiorno e dal Tropico a settentrione, si chiama il paese dei Beja”. In più punti inoltre l’autore parla della lingua Beja, o dei pastori, che è secondo lui uguale al “Greez”, o antico etiopico. Altrove menziona una razza di pastori chiamati Agaazi, i più bellicosi di tutti, che abitano le montagne di Hahab, la cui catena si estende nei dintorni di Masuah fino a Suakem. C’è d’altronde un altro popolo che sembra discendere direttamente dagli antichi Beja, gli Ababdes che errano nei vasti deserti compresi fra l’alto Egitto, il Mar Rosso, i confini della Nubia e quelli dell’Abissinia. Secondo la maggioranza degli scrittori gli Arabi non sono originari dell’Arabia e differiscono completamente dagli Arabi d’Egitto nei costumi, nella lingua e nelle usanze. Sono molto scuri, ma non hanno i caratteri della figura negra: i loro tratti rassomigliano a quelli europei. La maggioranza sono nudi fino alla cintura, e per vestito non hanno che un pezzo di tela che attaccano sopra le anche. Ciascun Arabo tiene nella mano destra una lancia lunga cinque piedi, con la punta larga e molto arrotondata. Come arma difensiva usa uno scudo rotondo di pelle d’elefante. Possiedono un gran numero di bestiame e soprattutto di cammelli. Allevano dei dromedari chiamati ‘eguines’ (hedjin) molto veloci nella corsa. Essi ne vendono qualcuno e riservano gli altri per montarli nei loro viaggi o nei combattimenti; poiché non si servono mai di cavalli. Mediante una retribuzione scortano carovane e le riforniscono di cammelli. Fanno fino a cento leghe in quattro giorni. Gli Arabi abitano i deserti e le montagne situate ad oriente del Nilo, dopo la valle di Koseir fino molto all’interno della Nubia. Possiedono inoltre molti villaggi sulla riva destra del Nilo, come Daroo, Scheikh-Amer e Radesih. Gli Arabi conoscono la lingua araba, ma ne posseggono un’altra che sembra comune ai popoli che abitano all’oriente del Nilo, il “geez”.(…). Si può considerare come Beja l’origine dei Bishareens, o Bicharies, che abitano nelle gole vicino al Mar Rosso, sopra Suakem fino a Esna.” -G. de Gaury (1946). L’autore sostiene che tribù araba dei Maaz è imparentata con quella degli Anaza. Qualche centinaio d’anni fa essi emigrarono dall’Hejaz, nel Nord-ovest dell’Arabia, e si stabilirono nell’Egitto e nella penisola del Sinai. Sono attualmente circa 20.000 persone, e nomadizzano principalmente nel Deserto Orientale egiziano, che si estende da Halwan fino alla strada da Qana a Qosair. Sopravvivono chiare connessioni fra i Maaz dell’Hejaz e quelli del Sinai e dell’Egitto, e spesso, ancora oggi, i Maaz dell’Arabia si recano a trovare i loro confratelli egiziani. (Questa è probabilmente solo una delle ultime migrazioni di popoli di razza araba in Nord Africa, migrazioni che sono attestate da diversi autori sin dai tempi più antichi, ben prima dell’avvento dell’Islam; come, per esempio, il racconto di al-Hamawi che, nel XIII secolo scrisse sulle conquiste del sovrano yemenita Ifriqis, che sottomise, verso il X secolo a.C., tutto il Nord Africa, e che perciò diede il nome a questo continente; ndr). -G. Mandel (1973). Yakut ibn ‘Abdallah al-Hamawi (1179-1229), Geografo, afferma che lo Yemen fu sede delle più antiche genti della terra che quindi furono gli Arabi. Gli Yemeniti discendono direttamente da Qahtan, figlio di ‘Abir, figlio di Shalekh, figlio di Arfakhshad, figlio di Sem, figlio di Noè e Qahtan stesso fu il primo re dello Yemen: fu da suo figlio Ya’rub che derivò appunto il nome degli Arabi. A Ya’rub successe Yashgiub il cui figlio Saba’ sottomise prima la Persia, l’Armenia e la Siria, poi passò in Africa e, attraverso la regione del Nilo sarebbe giunto nel paese dei Berberi. Un suo successore, il re Ifriqis conquistò l’Africa settentrionale fondando la città di Ifriqiya popolata da Yemeniti che diede il nome al continente africano. Il suo successore Hadhad ben Sarh fu il padre della famosa regina di Saba, Bilqis, che fece visita al re Salomone. A Bilqis successe il re Yasir, che, oltre la Siria, invase l’Egitto e l’Africa settentrionale che, giunto ai confini di un grande deserto, fece fondere una statua di bronzo con l’iscrizione “Io, il Re Hymiarita Yasir Tan’am el Ya’furi sono giunto fin qui, dove nessun altro era giunto. Qui non ci sono più genti, e chi oltrepasserà questo Wadi morirà”. -W.Y. Adams (1977). Epilogo dell’impero: Dinastie e imperi. (Cap. 13: 422-423). Rimane da considerare il ruolo svolto dai Blemmi. Questi indigeni delle colline del Mar Rosso, in un secondo tempo in possesso dei cammelli e della potenza militare che derivò da questo, sembra abbiano stabilito un considerevole affermazione nel Dodekaschoinos, anche durante il dominio romano. Alla fine fu a causa delle loro scorrerie, e della incapacità dei Romani di controllarli, che prvocò l’abbandono da parte di questi della regione e l’arretramento della frontiera imperiale ad Aswan, sotto Diocleziano. Pan-Grave Culture. Contemporanea al periodo di Kerma, è così chiamata perché i pozzi di sepoltura mantengono la loro caratteristica forma ovale tipica delle prime culture nubiane. Essa appare sporadicamente sia in Bassa Nubia che in Egitto, e talvolta tra il “Gruppo-C” di Nubia. E’ però facilmente distinguibile dalle tipiche sepolture dell’Orizzonte-C, e sembra rappresentare una intrusione di un popolo forestiero. Si è ritenuto che fossero sepolture di soldati mercenari provenienti dall’Alta Nubia, ma un’analisi più dettagliata ha dimostrato che si tratta di una cultura diversa dal “Gruppo-C” e da quella di Kerma, e quindi rappresenti un terzo gruppo di popolazione nubiana, identificabile con i Medjai dei testi egizi. Quindi non fu una popolazione del Nilo, ma nomadi del Deserto Orientale, che talvolta vendevano i loro servigi come mercenari sia al re di Kerma, sia ai faraoni egizi. Molte sepolture sono riferibili al Secondo Periodo Intermedio e al successivo periodo della dominazione degli Hyksos, quindi dal 1785 al 1580 a.C., quando la potenza di Kerma era al suo apice. -G. Camps (1980). Gli scrittori arabi medioevali sono concordi nel dare ai Berberi un’origine orientale che Ifricos, figlio di Golia, avrebbe condotto in Africa e che questa venne chiamata così dal nome di questo re. Ibn Khaldoum assicura che i Berberi sono i discendenti di Canaan, figli di Cam, figlio di Noè, imparentati con i Philistins e discesi in Africa in seguito alle guerre contro gli Israeliti. Ma più avanti afferma: “Tutti i genealogisti arabi si trovano d’accordo a considerare le diverse tribù berbere di cui ho indicato i nomi, come appartenenti realmente a questa razza; solo i Sanhadja e i Ketama hanno un’origine controversa. Nell’opinione generalmente accettata queste due tribù facevano parte degli Yemeniti che Ifricos stabilì in Ifrikiya quando invase questo paese…D’altro canto i genealogisti berberi pretendono che molte delle loro tribù, come quella dei Louata, siano Arabe e discendano da Himyer (capostipite degli Himyairiti, che costituivano l’ultimo regno sudarabico prima dell’Islam; ndr)…”. Il reame dei Mauri è ancora oggi poco conosciuto. Si conoscono però i nomi dei capi principali che successero al re Bogoud, a partire dal I secolo a.C. e che furono Baga, Bocchus, Bogud e Bocchus il Giovane, ultimo re. Questi sovrani formarono una nazione che fu chiamata Regno di Baga (si tratta versimilmente del Regno dei Beja, o Bega, ndr), posto ai confini sud-orientali del reame dei Mauri e che, fra l’altro, fornì ben 4000 uomini di scorta al re mauro Massinissa. Strabone scrive che Bogoud combattè gli Etiopi, quindi questo regno probabilmente si doveva spingere molto ad oriente. In seguito i sovrani Baga inviarono in aiuto di Massinissa delle truppe per lo scontro finale fra Scipione ed Annibale e che contribuirono alla disfatta dei Cartaginesi. E’ probabile che i re Baga erano i capi di una antica confederazione tribale che si estendeva a sud-est del regno dei Mauri, e forse collaborarono con i Fenici alla fondazione della antica città commerciale di Lixus (Larache) sull’Atlantico, tradizionalmente datata nel 1000 a.C., e all’altro emporio sull’isola di Mogador che risale all’VIII secolo. -B. de Rachewiltz (1968 e 1984): “Missione…tra i Bega” e “Note sui begia” (= Bega = Beja). -Linguaggio appartenente al ceppo hamito-cuscita (= camito-cuscita). -I Beja sono uno dei più importanti gruppi hamitici (= camitici) dell’Africa e la loro storia e del più alto interesse. Attuali gruppi tribali: Bisciarini (a sud di Aswan e lungo il Nilo, il gruppo più puro e meno alterato), Ababda (il gruppo maggiormente arabizzato), Hadendowa e Amrar (a sud dei Bisciarini, entrambi nell’Etbai, a sud del Gash e nell’Alto Atbara) e i Beni-Amer (ai confini tra il Sudan e l’Eritrea): attualmente il loro numero complessivo raggiunge quasi il milione di individui. -Secondo C.M. Firth (1909), durante il predinastico egiziano, i Beja camiti avrebbero seguito le montagne del Mar Rosso provenienti da sud; quindi dall’Etbai sarebbero così giunti nella valle del Nilo a Quena, espandendosi a nord e a sud da questo centro. Infatti il vasellame del più antico predinastico è paragonabile alla produzione attuale dei Bisciarini. -G.E. Sandars (in Firth) precisa “E’ generalmente accettato che i Bisciarini siano una branca del gruppo hamitico che, sotto il nome di Beja o di Blemmi, hanno abitato il deserto nubiano per almeno gli ultimi 4000 anni e che presentano rapporti di identità o derivazione con gli Egiziani predinastici”. -J. Spenser-Triningham afferma che in epoca antichissima l’Africa fu invasa, probabilmente dall’Arabia meridionale, da gruppi “hamito-caucasici” appartenenti alla stessa stirpe di molti europei (?): “Gli Egiziani predinastici e i Beja di oggi sono i rappresentanti inalterati di questa razza”. -In epoca faraonica i Beja sono menzionati da Thutmosi III e localizzati a Wawat (Uauat), regione allora ricca in miniere d’oro e di pietre preziose, situata tra i confini dell’Egitto e la depressione di Taka ; cioè nella vasta regione della catena arabica dall’altezza di Aswan fino al fiume Atbara. -Nel Nuovo Regno, il loro nome in geroglifico è “Betjau”, da cui deriva il termine attuale Beja (= Bedja, Bega). Noti in epoca faraonica anche col nome di Medjw, Madjai, essi fornivano personale al corpo di polizia impiegato sia nel deserto che nella sorveglianza della necropoli tebana, e in un dipinto della tomba di Tahuny (Nuovo Regno, 1422-1411 a.C.), è rappresentata una loro pattuglia in marcia con la tipica pettinatura (a casco) dei Beja attuali (v. foto). -Lepsius trovò diverse affinità fra l’antico linguaggio beja e quello meroitico. -Il regno meroitico (iniziato ca. nel 590 a.C.) deve parte del suo disfacimento dalla pressione esercitata dai Beja che gli autori antichi chiamavano Blemmi (Blemmyes, Blemiae, Balnemmioui e Belahmou), questi furono menzionati per la prima volta da Eraostene nel 240 a.C., che li situa, come Teocrito, Tolomeo e Dionisio Periegete, nell’area di Meroe e di Asteboras, mentre altri viaggiatori di allora, come Olimpiodoro e Prisco, li ricordano nei pressi di Siene; Plinio, seguito da molti altri, li descrive senza testa e con gli occhi sul petto, probabilmente a causa delle grandi ed elaborate capigliature dei Beja che, a una certa distanza, li fanno sembrare dei personaggi acefali; Diodoro, Strabone e altri autori classici li chiamarono Trogloditi (ovvero ‘abitanti delle grotte’). -Sotto il regno di Decio, i Beja attaccano l’Egitto da sud, e subito dopo sembra che avessero un capo, poiché a Esna, dopo l’imperatore Decio e probabilmente divenne re nel periodo dei trenta tiranni proseguendo i lavori del tempio, appare il duplice cartiglio col nome “Autocrate Cesare Pisharin Augusto”: “Pisharin” potrebbe ben derivare da “Bisharin”; nel 250 i Romani cominciano a preoccuparsi della loro forza; nel 261 Marco Giulio Emiliano li respinge oltre la Prima Cateratta, ma essi passano alla riscossa all’epoca di Aureliano (270-275), e diventano signori dell’Alto Egitto, nel 274 vengono sconfitti s otto la guida del loro capo, il tiranno Firmus e Pomponio Mela ricorda lo stupore dei Romani per il loro aspetto quando li videro sfilare prigionieri; sotto Probo (276-280) essi occupano le città di Coptos e Tolemais, ma poi vennero nuovamente sconfitti; sotto Diocleziano i Blemmi sconfiggono i Romani in Nubia e li costringono ad arretrare il confine dell’impero fino a Elefantina (Siene): i Beja diventano quindi i padroni di tutta l’alta valle del Nilo; in seguito i Beja estesero le loro razzie nel Deserto Occidentale fino all’oasi di Kharga. -I Beja furono gli ultimi cultori della antica religione egiziana, fino al 535, quando furono sconfitti da Silko, re dei Nobadi cristianizzati. Adoravano Iside, Osiride e il dio della fertilità Min (cioè il dio Pan dei Greci, in seguito identificato con il dio Priapo dai Romani, ndr) e sembra che facessero dei sacrifici umani al sole. Essi combatterono più volte contro i Romani per il possesso del tempio di File, il luogo sacro di Iside, cosa che gli fu concessa da Diocleziano, che gli permise, fra l’altro, di compiere i pellegrinaggi rituali sulle sacre barche della Nubia. -Costantino tra il 323 e il 327, poi Valente (364-378) e Teodosio II (408-450) furono costretti a respingere gli attacchi dei Blemmi alleati coi Nobadi, in seguito essi non poterono più essere contenuti a sud di Siene ed estesero le loro razzie in tutta la Tebaide e all’oasi di Kharga. Sotto Marciano (450-457), il generale cristiano Massimino li sconfisse nel 451, ma, nonostante la vittoria, questi fu costretto a stipulare una pace di cento anni, permettendogli il culto al tempio di File e di portare fuori dal tempio una volta all’anno la sacra statua di Iside. Teodosio inviò il predicatore Giuliano tra i Nobadi della Bassa Nubia che li cristianizzò; in seguito Teodoro, vescovo di File, trasformò il tempio di Iside in una chiesa cristiana. Nel 535 Silko, re dei Nobadi, sconfisse per tre volte i Blemmi, rimasti pagani, a Kalabsha dove fece incidere un’iscrizione commemorativa delle sue vittorie e questi si dedicarono allora alle razzie delle carovane axumite che trasportavano ad Adulis oro, avorio, ebano e gli smeraldi del paese dei Blemmi. Ad Adulis Tolomeo III Evergete fece incidere il ricordo delle sue gesta sulla famosa iscrizione detta Monumenta Adulitanum che menziona i Beja. In seguito essi vennero parzialmente islamizzati, anche se in maniera superficiale. I Beja con tutta probabilità parteciparono all’assedio e alla distruzione del Castello di Halaib (porto presso ‘Aidhab), estremo avamposto meridionale dei Crociati, e presumibilmente risale a quell’epoca la diffusione presso di loro della spada di tipo crociato. Nel XIX secolo la confederazione degli Hadendowa raggiunse un elevato grado di potenza sotto il derviscio Osman Digna. Ma la guerra mahadista (1883-98) si risolse in una catastrofe per i Bisciarini che vennero depredati dei loro cammelli e dei loro averi. -I Beja occidentali, provenienti dal deserto di Bayuda, sopravvivono tra i Bedyat dell’Ennedi, la cui principale sezione, la Bisherla, è appunto di origine bisciarina. -I Beja amano definirsi “i figli dei Gin (= folletti, geni) delle montagne”, e mantengono tuttora molti degli usi e delle credenze antiche. -I Beja si riferiscono ai tumuli dei propri antenati con il termine “akratel” che non sembra trovare alcuna corrispondenza né nel “To Bedawi” (il loro linguaggio), né in arabo; tale termine probabilmente deriva dall’antico egiziano “ikr.t” (fon. akret) designante la necropoli. Akratel quindi sembra una sopravvivenza dall’epoca faraonica, e si possono riferire allo stesso periodo le più antiche tombe dei Beja. Queste necropoli sono ritenute sede di spiriti o “afarit” e nessun Beja desidera per questo collaborare a lavori archeologici. -Scavi, iniziati nel 1955 da L. Keimer (allievo di G. Schweinfurth) e proseguiti poi dall’autore, nell’area della necropoli di Khor Mog, a 12 km OSO di Port Sudan; il I tumulo scavato h 2,5 m e 0 di base tra 8 e 9 m con esterno ottogonale 0 3 m e interno cilindrico, spesso ca. 0,5 m, con archetti ottenuti mediante mattoni di corallo e stucco (simile a quelli di Suakin), ha rivelato una sepoltura a -1 m con uno scheletro (di scarsa consistenza) appartenente a un alto individuo (h orig. 1,8 m) del gruppo beja in posizione allungata, con testa a NE, senza alcun corredo: probabilmente è una sepoltura d’epoca islamica. Ripulitura di un altro tumulo simile, ma ottogonale anche all’interno: molte ossa umane, forse 5 individui, probabilmente il tumulo fu reimpiegato in epoca relativamente recente come sepoltura collettiva. Scavi nella necropoli (che ha tombe di vari periodi, anche musulmane, altre rettangolari tipo mastaba, probabilmente medievali) di Khor Kamoi, a 15 km O di Port Sudan: tomba antica nell’akratel in cima al colle a pianta circolare di 5 m di 0 e h 1,5 m, con apertura circolare di 1,2 m di 0, riempita di pietrisco e sabbia e riutilizzata in epoca posteriore (ossa umane in posizione confusa a 1,3 m). La sepoltura originale si trovava nella roccia di base che era scavata per 30 cm e 1,7 m di l. Si è trovato uno scheletro di una fanciulla con le caratteristiche del gruppo beja in posizione fetale; resti di una finissima collana in pasta vitrea, altri periformi bianchi e bracciali di pietre dure sfaccettate alle caviglie. Da un altro tumulo con 0 di 5 m e h 1,7 m, con riempimento di pietrisco e lastroni di pietra al centro nella parte superiore, provengono frammenti di vasellame e uno strumento per cosmesi in bronzo uguale a quelli usati nell’antico Egitto. Entrambi i tumuli sembrano coevi e appartengono evidentemente al “Gruppo-X”. Nelle vicinanze si è rinvenuta una pietra incisa di 50 cm di h con un graffito di un animale dalle lunghe corna preso al lazzo, probabilmente del periodo dei cacciatori nomadi preistorici, forse riutilizzata nelle tombe. -Sembra quindi esserci assoluta identità, confermata da questi reperti di scavo, fra gli antichi Beja e il “Gruppo-X” di Emery risalenti all’epoca faraonica, in base alla comparazione dei reperti, alle caratteristiche antropologiche, ecc. -I Beja attuali si possono definire come “museo vivente”, ma la politica di Egitto e Sudan tende a imporre la perdita della loro identità etnica. Per esempio, il “To Bedawi“, il loro linguaggio orale, viene sostituito sempre di più dall’Arabo insegnato attualmente come lingua madre. Forse siamo alla vigilia della scomparsa di questo antichissimo gruppo etnico. -“Nubit” è una delle più importanti città minerarie aurifere egizie nei pressi della “Montagna pura” in Nubia ed è citata frequentemente nei testi del Nuovo Regno, come la “Lista delle miniere” di Luxor (non è assolutamente chiara l’identificazione del sito con il toponimo Nubit: potrebbe meglio essere identificato con Alachi!). La tradizione beja parla di una misteriosa città chiamata Nubit (o “Khor Nubt” = “Fiume dell’Oro” in lingua egizia?!) e localizzata all’altezza della Terza Cateratta in zona desertica e rocciosa, ma i Beja non vi si recano perché pensano sia sede di spiriti. La missione raggiunse un’area mineriara (situata a ca. 19°55’N-36°20’E) con muraglie di pietre (?), un villaggio minerario, tombe circolari e un grande edificio al centro, forse, secondo la tradizione beja (?), la residenza del governatore greco (“rumi“) che combattè, a causa della sua bellissima figlia, contro i Bit Hillal una feroce battaglia che portò alla distruzione della città, e sotto le rovine, secondo la tradizione, giacciono ancora i resti dei combattenti: per questo pensano che la zona sia tuttora abitata dagli spiriti. Altri ritrovamenti in superficie: mole per il quarzo, sigilli (?), vasellame, ecc. Su un rilievo impervio si sono rinvenuti dei lastroni con iscrizioni rupestri (l’autore non dice quali), attualmente allo studio. Successivamente, nei pressi dell’antica città mineraria, nacque un insediamento islamico, ora deserto, che utilizzò parte del vecchio materiale da costruzione per le case, la moschea e le tombe; vi sono delle stele in pietra simile all’alabastro (?) con importanti iscrizioni cufiche (rilevate e studiate in seguito dal prof. Oman, ma non ancora pubblicate [Oman, comunicazione personale, 1991]). -Nota 2): Introduzione del cammello in Nord Africa. L’introduzione del cammello in Africa è ancora oggi oggetto di discussione. In particolare la maggior parte degli studiosi ritiene che il cammello (Camelus dromedarius) si sia diffuso in Nord Africa solo verso il I secolo d.C. Ma la questione è ancora aperta, poiché vi sono diverse testimonianze di un’introduzione ben più antica, forse risalente all’Antico Regno, anche se gli Egizi, per una strana forma di censura (tabù?), o più probabilmente perché veniva considerato un animale ‘tifonico’ appartenente alla cultura a loro estranea dei nomadi beduini, l’hanno raffigurato molto raramente, comunque mai nei loro monumenti, e non ne hanno mai parlato. Ma sia Joleaud (1933) che Epstein (1970), fra gli altri, fanno rilevare che il dromedario è rappresentato, sia pur raramente, in Egitto fin dall’epoca predinastica. Infatti esso è sicuramente riprodotto, secondo questi autori, nel predinastico di Gurna e di Maadi, su una terracotta di Hieraconpolis, su alcuni marchi per ceramica a Nagada; inoltre ad Abusir el-Maleq fu rinvenuto da Moller in una tomba megalitica del III millennio a.C. un vasetto protodinastico di arenaria indubitabilmente a forma di cammello col suo carico; e Schiapparelli acquistò a Luxor una terracotta, probabilmente predinastica, di un uomo che cavalca un dromedario. Altre raffigurazioni risalgono certamente alle prime dinastie, come quella di una testa di cammello proveniente da Abidos, dove inoltre Budge riferisce di aver visto, nel corso di alcuni scavi in tombe risalenti alla IV Dinastia, diverse statuette di cammelli. Che la addomesticazione del dromedario risalga almeno all’Antico Regno risulta inoltre da alcune incisioni nei dintorni di Aswan, rilevate da Schweinfurth nel 1912, dove, per esempio, una figura di dromedario dell’Uadi Abu Ajaj è associata a un’iscrizione in caratteri ieratici della VI dinastia; un’altra incisione di dromedario nell’Uadi Hammamat è riferita alla XI Dinastia e Petrie ne trovò altre presso il Gebel Silsileh che fece risalire alla XVIII Dinastia. Delle altre statuette di cammelli, provviste di basto, sono state rinvenute in alcune sepolture della XII Dinastia. Altri analoghi ritrovamenti sono riferibili al Nuovo Regno, come una figura di cammello trovata a Medamoud, un’altra piccola statuetta del periodo di Amarna, ora al Louvre, una figura di cammello caricato con delle giare per l’acqua risalente alla XIX Dinastia, altre statuette della XVIII-XIX Dinastia, ecc. Infine un certo numero di ossa di cammello furono scoperte in una tomba intatta risalente al 3200 a.C. di una delle necropoli di Helwan, presso il Cairo, un teschio di cammello fu trovato a Fayum, tra frammenti di ceramica datati tra la XII e la XVIII Dinastia, e Caton-Thompson trovò, nel corso dei suoi scavi nel nord di Fayum, una corda di pelo di cammello intrecciato, lunga quasi un metro, sopra un deposito omogeneo riferibile alla III Dinastia, o al massimo all’inizio della IV. Quindi il dromedario sembra essere stato presente in tutti i principali periodi della civiltà egizia, ma apparentemente fu molto raro e, durante il periodo che intercorre dalla sua apparizione nel IV millennio a.C. fino al suo generale impiego in epoca greco-romana, può essere praticamente scomparso dalla valle del Nilo, ed essere invece presente nei deserti a oriente e occidente di esso. Dal punto di vista storico-letterario sappiamo dalla Genesi (XXII: 16) che Abramo ricevette dei cammelli in dono dal faraone dell’epoca, fra degli altri animali domestici; e che i cammelli dei Palestinesi apparsero sul delta del Nilo all’incirca nel 700 a.C. Esaraddone di Assiria (680-668 a.C.) impiegò dei cammelli per caricare le ghirbe d’acqua per il suo esercito in Egitto ed è certo che Cambise, quando invase l’Egitto nel 525 a.C., come ci tramanda anche Erodoto, avesse al suo seguito dei dromedari, sempre per caricare l’acqua, che aveva ottenuto dagli Arabi nabatei. Dario I verso il 500 a.C. li introdusse, come animali da lavoro, addirittura nelle oasi egiziane del Deserto Libico, assicurando inoltre tramite questi animali il collegamento tra le oasi e la valle del Nilo. Inoltre lo storico Quinto Curzio Rufo ci tramanda che lo stesso Alessandro Magno, quando si recò all’oasi di Siwa nel 332 a.C., utilizzò una piccola carovana di cammelli; Tolomeo Filadelfo (283-247 a.C.), ci tramanda Strabone, manteneva il collegamento tra la valle del Nilo, le miniere del Deserto Orientale e Nubiano con i porti del Mar Rosso, tramite carovane di cammelli e nel I secolo a.C. il dromedario è sicuramente un animale comune in Cirenaica, dato che è rappresentato su alcune monete di quell’epoca. Comunque la prima citazione storica certa sui dromedari risale solo al 46 a.C., quando nei ‘Commentari di Cesare’ si afferma che l’esercito romano si impadronì di 22 dromedari in seguito alla sua vittoria sul re Juba. I Somali, i Blemmi ed altre tribù del deserto a nord-ovest dell’Egitto sembra abbiano intrapreso l’allevamento dei cammelli molto prima che gli Egizi iniziassero ad utilizzare questo animale. Walz ritiene che sia stato introdotto nel Deserto Orientale e nel Corno d’Africa forse prima del I millennio a.C., attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb. All’interno della costa del Golfo Persico, e quindi probabilmente anche all’interno dell’Arabia, l’allevamento del cammello è attestato prima del 2000 a.C. I principali, e probabilmente i primi, allevatori nord-africani dei cammelli furono quasi certamente i Blemmi del Deserto Orientale, che lo rappresentarono in innumerevoli graffiti nel loro territorio anche in associazione ad un’antica fauna selvaggia sicuramente predinastica, fra cui è presente l’elefante; ai Blemmi successero i Beja dei tempi medievali. Anche Staffe ritiene che il cammello fu introdotto in epoca molto antica dai Blemmi dall’Arabia in Egitto, attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb, e che da lì raggiunse le coste dell’Africa mediterranea attraverso il Sudan e le oasi del Sahara. Un’altra via di migrazione da parte di popolazioni arabe, dal Medio Oriente attraverso la penisola del Sinai, sarebbe avvenuta molto più tardivamente. I cammelli dei Palestinesi comunque apparsero sul delta del Nilo circa nel 700 a.C.; e Esaraddone di Assiria (680-668 a.C.) impiegò dei dromedari per caricare ghirbe d’acqua per la spedizione del suo esercito in Egitto. Ugualmente Cambise ottenne dei dromedari dagli Arabi nabatei nel 525 a.C. per caricare l’acqua, al tempo della sua conquista dell’Egitto; e similmente, verso il 500 a.C., Dario I li introdusse nell’Oasi del sud per il lavoro nel deserto. Tramite dei cammelli i Persiani assicuravano il collegamento tra la valle del Nilo e le oasi egiziane del deserto libico già nel VI secolo a.C.; e secondo lo storico romano Quintus Curtius Rufus, la spedizione di Alessandro Magno del 332 a.C. all’oasi di Siwa fu fatta con cammelli. Come riferisce Strabone, i cammelli venivano utilizzati sulla strada commerciale da Koptos a Berenice e Myos Hormos, sul Mar Rosso, aperta da Tolomeo Filadelfo (283-247 a.C.). Il cammello infine è sicuramente presente in Cirenaica dal I secolo a.C. poiché è rappresentato su alcune monete di quell’epoca. Il cammello inoltre sembra essere stato presente in tutti i principali periodi della civiltà egizia, ma apparentemente fu molto raro e, durante il lungo periodo che intercorre dalla sua apparizione nel IV millennio a.C., fino al suo impiego generalizzato in epoca greco-romana, può essere scomparso dalla valle del Nilo per lunghi periodi. Cammelli selvatici sembra fossero presenti in Nord Africa, nel littorale dalla Tunisia al Marocco, fino in epoca neolitica e calcolitica; e probabilmente appartengono a questa specie i 14 crani di cammello trovati da Mook ad Helwan, associati a manufatti di quei periodi. In effetti molti ritrovamenti di ossa fossili sono stati effettuati in Algeria, Tunisia, in Marocco e in Mauritania; ma il cammello selvatico, portato forse dai primi immigranti dall’Arabia, non sembra che sia sopravvissuto in Nord Africa fino all’arrivo della specie domestica. E’ interessante notare come le prime rappresentazioni di cammelli risalenti al predinastico e primo periodo dinastico in Egitto rappresentino non la razza selvatica nord-africana, ma il cammello dell’Arabia, portato probabilmente in Egitto da popolazioni semitiche, o via terra, attraverso il Sinai, o attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb. -Nota 3): Tailamun. Inizialmente i geografi arabi consideravano la montagna di Tailamun (“Gebel Tailamoun“) come una montagna singola, prima posta nel Deserto Occidentale all’incirca all’altezza di Assiut (per es. in Idrisi), poi situata su entrambe le sponde del Nilo, poi infine posta nel Deserto Orientale, nel deserto di Said e nel paese dei Beja. In seguito, cominciarono a descrivere Tailamun come una montagna lunga 36 miglia. Ancora in seguito, presso alcuni geografi arabi, come per es. Idrisi, la montagna di Tailamun designa anche una lunga catena di montagne, che dal Mar Rosso si estende fino al Nilo e prosegue sulla sponda occidentale, formando inoltre lo sbarramento della Seconda Cateratta del Nilo. In effetti, la stessa ininterrotta catena di montagne che circonda l’Uadi Allaki, inizia poco distante dal Mar Rosso per giungere sino al Nilo, all’altezza dell’antica fortezza di Kubham, che era posta sull’imboccatura dell’Uadi Allaki al fine di controllare la carovaniera delle miniere d’oro, oggi sommersa dalle acque del lago Nasser. Estendendo questo concetto, in epoca più tarda, presso i geografi arabi le montagne di Tailamun diventano due; una posta sulla sponda orientale del Nilo, l’altra, di fronte, su quella occidentale, designando appunto lo sbarramento naturale della zona montagnosa situata all’altezza della Seconda Cateratta del Nilo, cioè le cosiddette “Porte della Nubia” delle prime mappe occidentali. Inoltre, con lo stesso nome di “Tailamoun” si designa anche una località, descritta come una grande montagna posta in una lugo favoloso del deserto e sormontata da un fiabesco castello di cristallo abitato da una fata circondata da geni, nel romanzo epico-arabo “Le avventure di Antar”, scritto originariamente nel VII secolo (Norris: 1980); il che sembra adattarsi molto bene al mistero e alla situazione di inacessibilità di Alachi e delle sue rosse montagne ricche di quarzo e di oro.