By Marino Zecchini
Originally Posted Sunday, January 17, 2010
L’ANIMA DEL FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL SAHARA DI DOUZ
La manifestazione tradizionale si svolge nel grande spazio di Hinich sulle dune alla periferia della cittadina di Douz. Questo avvenimento dove un tempo sfilavano solo cavalieri e dromedari in una grandiosa giostra di costume da alcuni anni si è finalmente arricchito di una consistente anima intellettuale, fattore indispensabile per tenere vivo e fermare nella memoria l’autentico spirito del Sahara perché tutto non scada come stava avvenendo in una espressione semplicemente spettacolare.
L’anima del Festival Internazionale del Sahara di Douz consiste in un seminario sui temi del deserto, un incontro in cui in ogni ricorrenza annuale si confrontano numerosi esperti provenienti dal mondo arabo e dall’occidentale.
L’autore e l’iniziatore di questa manifestazione è dovuto alla lucida intelligenza del Professor M’hamed Hassine Fantar che presiede la “Chaire Ben Ali pour le Dialogue des Civilisations et des Religions” a cui va il merito e l’impegno di mantenere viva in Tunisia e non solo, l’attenzione sul delicato equilibrio naturalistico ed umano del deserto.
Durante gli incontri degli scorsi anni sono stati presentati lavori, ricerche e progetti che hanno affrontato un vasto spettro di discipline: gli aspetti geologici, nelle sue principali categorie: desertificazione, morfologia del territorio, ricchezze sotterranee. Il mondo floro-faunistico nelle competenze zootecniche, alimentari e medicinali e l’uomo, attraverso ricerche antropologiche, etniche e storiche che hanno spaziato dal periodo primitivo attraverso le testimonianze litiche ed archeologiche sino ai giorni odierni. Le relazioni e gli interventi proposti, eseguiti anche con sistemi moderni ed informatici hanno a tutt’oggi formato un archivio di studi che costituiscono una importante piattaforma da cui lanciare nuove ricerche di quella parte di superficie terrestre che da alcuni autori è stata descritta come “la terra vaga”.
Il deserto che si trova a sud delle zone altamente urbanizzate della costa nord africana rappresenta nell’immaginario della popolazione delle città la parte arretrata da modernizzare, ma è anche pensato come uno scrigno di ricchezze misteriose di cui tutti sono in attesa di trarne profitto. Giacimenti di minerali preziosi, petrolio, uranio ed altri beni sono immaginati nascosti tra le dune, il tesoro ambito sognato e affannosamente ricercato come nel film: “Les Baliseur du Désert”.
Ma il deserto è anche la fonte di molte delle tradizioni che hanno formato l’identità del popolo tunisino e più in generale nord Africano.
Il deserto è il crogiuolo delle tre religioni rivelate: l’Ebraismo, per la permanenza del popolo ebraico durante i 40 anni dopo la fuga dall’Egitto, periodo in cui questo popolo ha avuto la rivelazione del decalogo sul monte Sinai con tutte le implicazioni simboliche che si estendono al mondo intero.
Il Cristianesimo in cui il deserto diventa il luogo del digiuno e della spiritualità, dove il Cristo è stato tentato dal demonio. Luogo di ritiro delle prime congregazioni cristiane che hanno prodotto quella tipica spiritualità dei “Padri del Deserto” tuttora viva nel misticismo cristiano e nella vita monastica.
L’Islam, o meglio il mondo musulmano permeato di vita e simbologie che si fondono con le tradizioni antiche e moderne che tuttora insegue un sogno di purezza fortemente ambientato nei luoghi che più somigliano a quelli della rivelazione del Profeta. L’idea assunta del deserto e tutte le sue inplicanze sono lo spazio di riferimento per il compimento di una vita carica di ideali in cui il deserto diventa palcoscenico.
Il rapido cambiamento degli aspetti politico-sociali che la Tunisia ha subito dal periodo post-coloniale hanno formato nell’immaginario collettivo modi differenti di intendere il deserto, per questo è necessario oggi esaminare il tema all’interno di una nuova dialettica. Il deserto, caricato di tutte le idealizzazioni ha creato nuove aspettative e si è aperto ad un mondo che gli era sconosciuto si sono scoperte in esso nuove potenzialità economiche e culturali. Non solo lo sfruttamento del sottosuolo con i pozzi petroliferi lo hanno abitato con parametri e categorie diverse dal passato, ma soprattutto il turismo sahariano ha creato un impatto sociale ed ambientale che necessitano di osservazioni e studi affinché si producano indirizzi che non snaturino l’ambiente e la ricchezza culturale della gente che lo abita. Il deserto deve a mio avviso rimane quel territorio dai valori interiori e esteriori capaci di innescare una vasta riflessione a beneficio soprattutto della realtà sociale del sud. Una riflessione che conferma e si unisce allo sforzo che il Professor M’hamed Hassine Fantar compie nella elaborazione degli studi sul mondo sahariano.
Quest’anno i temi del colloquio internazionale si svolgeranno a Douz dal 27 al 30 dicembre su due poli principali della tradizione storico sociale della gente del sud: “la tenda e il palmeto”, ovvero il nomadismo e l’oasi. Due poli che si amalgamano nella vita reale in un solo binomio: il “seminomadismo”,
Quella realtà sociale svoltasi in quei territori nel lento passare dei secoli, che oggi si presenta ancora vivente ma carica di modi e metodi modificati velocemente nell’ultimo e breve spazio temporale ha subito una sorta di trauma che ha provocato nei valori e nei modi di vita locale un cambiamento ambientale e di costume reso visibile dal mutamento degli spazi oggi affollati da sguardi curiosi che giungono con le auto fuoristrada come alieni da un altro pianeta. Dalla presenza di castelli-hotel ospitanti una popolazione che svolge una vita lontana da ogni comprensione. Forme nuove di benessere ma anche costruzione di confini artificiali, di isole in cui si svolgono avvenimenti che non si amalgameranno se non con uno studio profondo ed adeguato dell’impatto con la popolazione locale.
La tenda e il palmeto sono simboli ma anche la realtà di una vita trascorsa in questo mondo di sabbia dalla gente del sud Tunisia. La tenda vissuta come una casa e l’altro come terreno da dissodare e rendere fertile sovente in una lotta impari per la sopravvivenza.
La tenda che non è solo il rifugio della famiglia ma muta funzione durante tutti i momenti allegri e drammatici della famiglia. Luogo del riparo, del sonno, dagli sguardi indiscreti, luogo di gestazione della vita e della morte che a differenza di una dimora fissa prende le sembianze del luogo adattandosi alle grandi dune amalgamandosi a loro nella forma. Simbolo d’estensione del clan e della tribù dell’uomo nel vento del deserto. Casa mobile di pelo (bit chaa’r) della primavera (r’bya) portata in transumanza (mah’rul). Parole che nel linguaggio beduino hanno un valore sconosciuto alla gente della città.
Nelle città del nord quando si pensa all’oasi si ha una visione di un luogo bucolico che per opera della natura si è magicamente formato tra le dune di sabbia: una sorgente, un gruppo di palme, una comoda sedia lunga e l’uomo che sorseggia una fresca bibita. Nulla di più falso poiché noi che nel deserto ci siamo a lungo vissuti sappiamo che l’oasi è sempre un prodotto dell’ingegno e della fatica umana. Il frutto di estremi sacrifici, il conto delle gocce d’acqua necessarie senza spreco, che il maestro d’acqua elargisce affinché il terreno sia fertile. La sua agricoltura, che gli esperti hanno definito “intercalare” cioè su tre livelli: il cappello fogliare dell’albero principe che è la palma (nahkla) che difende dagli implacabili raggi solari il terreno sottostante e permette la piantumazione e coltivazione di alberi da frutto di cui i più esemplari sono il fico (karmus) e il melograno (rummen) e in fine più in basso gli ortaggi. Questa palma, che l’uomo asseconda e la pone alla distanza vitale l’una dall’altra per creare con i rami (jerid) la necessaria copertura affinché il vapore che sale dal terreno verso l’alto si riconverta in miliardi di goccioline d’acqua ricadenti a terra recuperando umidità e formando quel microclima necessario alla esistenza dell’oasi.
E poi, le oasi non sono tutte eguali, almeno tre sono le tipologie: ci sono le oasi cosi dette filiformi, cioè che la piantumazione è eseguita ai margini di uno wed (fiume) come la più grande oasi del Sahara che è l’oasi del fiume Nilo che si stende per centinai di chilometri. L’oasi di depressione che è la tipica oasi del sud Tunisia e cioè che sono realizzate ai margini di grandi zone lacustri come il Chott el Jerid in cui l’umidità è presente attraverso le falde freatiche del sottosuolo che giungono dalle vicine montagne. Ed in fine le oasi sono anche realizzate in pieno erg tra le alte dune di sabbia come nell’Wed Suf Algerino. Gli uomini capaci, ma soprattutto tenaci scavano dei veri crateri nel bel mezzo di alte dune, invasi anche di alcune centinaia di metri di diametro sino a scoprire il terreno duro sottostante dove vengono piantate le palme. Con questo tipo di oasi l’agricoltore è consapevole che per mantenere vivo il palmeto sarà costretto per tutta la vita a vuotarlo dalla sabbia portata dal vento. In questa tipologia le oasi sono chiamate: oasi puntiforme” per il tipico disegno circolare ad occhio verde tra l’ocra delle dune circostanti visibile con i rilievi aerei.
E’ anche vero che in questi ultimi tempi grazie alle innovazioni agricole e alla lungimiranza del governo, i sistemi agricoli e pastorali tradizionali sono mutati, ma noi intellettuali e sognatori del Sahara sappiamo che questo substrato ideale, immaginato e reale vogliamo non sia ucciso ma che sia profondamente considerato per non perdere quelle radici e quei valori che il deserto esprime, quel deserto che ci accompagna nelle nostre introspezioni scientifiche, letterarie resta la sorgente di insegnamenti e percorso anche dei nostri deserti interiori.
Marino Alberto Zecchini