By Marino Zecchini
Originally Posted Monday, September 28, 2009
LAMPI DI DESERTO
Il deserto è uno spazio segnato dal ricordo di piste di sabbia da me calpestate, marcate dalle orme del mio passaggio, un deserto assolato, chiuso imprigionato nella sua immensità… sconfinato. Dove perdermi è sempre un pensiero costante, dove sento in ogni istante la sensazione di disgrazia incombente. Nel deserto non ci sono nato, ma durante la mia primavera l’ho incontrato e subito amato. Con una passione infantile lo incastrato nella metafora dei simboli, fermato e moltiplicato nei fiori delle mie allegorie. Ho usato il deserto come madre del mio essere, l’ho tradito e poi riamato con passione violenta, passione sensuale, non di rado incestuosa. Sorgente del mio misticismo è la forza che muove la mia penna quando traccia la sua narrazione, lettera dopo lettera, punto dopo punto. Smarrito dalla sua configurazione reale lo vedo e lo scrivo oscillante, in bilico come una sfera, che ora cade nel reale ora rotola nell’immaginato.
Cavaliere arabo
Questo è il cammino della mia ricerca, una realtà concreta e contemporaneamente virtuale. Il deserto per quanto astratto venga rappresentato si pone sempre come un mondo reale, sono io narratore che mi trovo al di la della rete nel mio intimo, quando abbraccio il deserto sublimato nella descrizione, il deserto diventa lo spazio di definizione e di esame della stessa scrittura, il veicolo della mia letteratura, sorgente e rivelatore del senso. Come una madre che educa, da cui scaturisce sapienza e saggezza infinita. Sul filo narrativo le piste scompaiono diventando metafore di un cammino che porta sul limite del mondo reale, le storie incontrate sono il parallelo e l’accavallarsi dei ricordi che vengono srotolati nella linearità del testo come in un mondo equivalente. In continua osmosi tra il vero e l’immaginato. Le tracce intermittenti del passato assoggettate al disordine della mia memoria. Tutti i ricordi sono assimilati nella sfera del nulla e prendono la forma del deserto dove trovo lussureggianti oasi irrorate da ruscelli in cui scorrono acque come sangue nelle vene di un corpo diffondendo la vita sino all’ultimo filo d’erba. Rivoli dai colori cangianti che trasformo in metafore dei miei racconti sgorgano dalla sorgente, parola dopo parola diventano il corpo delle mie incerte narrazioni che come segni si imprimono instabili sulla sabbia, cancellati e riscritti mille volte, sempre gli stessi, sono firme di testi malati, accanimenti di idee scritte, lette, mille volte ripetute, domande di cui le risposte sono come lampi compresi solo a metà. Sempre in viaggio per le piste sabbiose, mulinelli di polvere turbinano e svaniscono come desideri mai soddisfatti. La pista punta a sud, decolla dopo una grande duna su di una piana in prossimità di un villaggio e poi, la sabbia diventa asfalto. Attorno venditori di galline e meloni sono sdraiati all’ombra di tende sudice e gualcite. Donne arabe velate stringono tra i denti gli scialli, abbassano il viso e camminano come stessero fuggendo da un mondo nemico. Ragliare di asini e piccoli minareti e poi tutt’attorno la steppa… vastissima…un terreno per cavalieri, un campo di battaglia per grandi manovre del passato. Guido in stato di trance sulla stessa pista dei Banu Hillel, osservo a sinistra un varco, è il solco di un oued, linea di convergenza seguita dagli arabi invasori che giunsero con ghigni di conquista, feroci, brutali, provenienti dall’Est. Là su quelle piste potrei guidare a occhi chiusi, conosco tutti i passaggi e le pietre, ripercorro le piste immaginando gli eserciti beduini. Sciabole scintillanti e coltelli ricurvi piantati nel lungo tessuto avvoltolato attorno alla vita. Teste fasciate in logori turbanti dai lembi sventolanti. Cavalli dalle narici larghe e soffianti attraversano la steppa cavalcati da demoni, distruggono città dove le sacre prostitute bizantine si davano ai forestieri. La nella vastissima piana che gli arabi chiamano hammada si è combattuto. Questa terra che ha masticato e digerito migliaia di punte di freccia e litri e litri di sangue oggi è come un campo santo cosparso di arbusti e di fiori, la pace ed il silenzio è assoluto, solo nel vento si ascolta un eco sottile, come se portasse impresso le grida delle battaglie, io li sento …e se chiudo gli occhi li vedo. Una cicogna sorvola le dune, ali larghe, plana lenta dietro gli arbusti, mi siedo, la osservo curioso, mi ha distratto… lei ambasciatrice di luoghi lontani mi ha raggiunto qui nel deserto osservando dall’alto seguendo un disegno da me sconosciuto, lei regina dei nomadi volanti è giunta in Numidia la terra dei transumanti. Sono solo tra il canto delle cicale, cammino e tra la sterpaglia si apre una fessura, scendo su un viottolo pietroso sino all’ingresso di una grotta.
luogo di magia
Ovunque sugli incavi delle pareti tracce di segni votivi. Luogo di donne in cui vengono a chiedere grazia per i loro malanni, fertilità insoddisfatte, richieste di guarigioni, dolori prodotti da uomini traditori. Fazzoletti annodati su arbusti, cocci di anfore, segni e simboli sulle pietre di colore ocra. Tracce di una fonte asciugata come un occhio senza più lacrime da cui si dirama un piccolo solco, il segno del pianto. Immagine creatrice della illusione di una verità del passato, oggi pietrificata dall’instancabile lavoro della natura che muta, come mutano velocemente i pensieri, lampi di idee che rincorro e fatico a “spiegarli” sul un foglio di carta, sono i testimoni della realtà del mio deserto interiore viaggiato, esplorato ed ancora sconosciuto.
Marino Alberto Zecchini