By G.F.Catania
Originally Posted Sunday, August 28, 2005
IL SOTTOMARINO DEL DESERTO
STRETTA NELLE SUE MURA DI FANGO E ARGILLA,GHADAMES EMERGE DA UN MARE DI SABBIA.
Tahar Ben Jelloum noto scrittore marocchino,ha asserito in una recente intervista che il deserto,di cui si parla spesso nelle sue opere,rappresenta per l’immaginario occidentale un pensiero astratto,un fenomeno mitologico-meditativo piuttosto che la riproduzione i una realtà.In verità il deserto non è solo silenzio,luce,vuoto,spazio infinito e fantastico,ma una terra viva,popolata da uomini,cose,città.
Vi è tuttavia un luogo dove il mistero della vita sahariana sembra far vacillare la visione “disincantata” dell’intellettuale magrebino;un luogo in cui il mito,così caro all’Occidente,è rimasto pressochè intatto.Questo luogo è senz’altro Ghadames (si pronuncia Ràdames),città-oasi del Sahara libico settentrionale situata ai margini estrami della Hammada El Hamra,un infinito tavolato di pietrisco rossiccio circondato da un mare di dune (Ramlet El Bab,ossia “Porta delle sabbie”) del sud Algerino.
Emozioni e testimonianze storiche che invadono l’animo del viaggiatore e che nascono da un trascorso millenario tuttora insepolto e fuso con la realtà di questo fine-millennio.
E’ sufficente trascorrere pochi giorni a Ghadames per venire assimilati dalla nuova dimensione che offre l’incontaminata natura sahariana dei suoi dintorni.
Ghadames non è l’ultima novità sahariana impacchettata e commercializzata per il piacere del turista,bensì una delle rare tangibili testimonianze dell’immutata continuità e capacità di vita di un tassello di Africa.
Paradossalmente,il crescente interesse che oggi la Jamahiriya,nome moderno per un antico paese,riscuote grazie al suo Sahara non inquinato dal turismo di massa,è dovuto proprio a quella sua inviolabilità turistica,ad una struttura alberghiera limitata che regala l’ebrezza di vagare indisturbati,sicuri che dietro l’angolo non ci si imbatterà in frotte di nasi per aria,di venditori di souvenir,di chioschi avvolti dal rumore di mille radioline,ma semplicemente in gente semplice ed ospitale,non ancora uniformata al turismo di massa.
Nell’oasi di Ghadames e nella città vecchia la circolazione dei mezzi a motore è impedita da divieti di origine “naturale”,da spazi e da vie troppo angusti per essere battuti se non a piedi.
Sulle tracce della storia
Probabilmente già abitata nel paleolitico,o almeno dal neolitico,Ghadames è certamente uno dei più antichi centri libici.
Cydamus è il primo nome con cui la storia ne attesta l’esistenza.Così infatti venne chiamamata dai romani che,al comando del proconsole Lucio Cornelio Balbo Minore,la occuparono nel 10 a.C.,sottraendola ai leggendari guerrieri Garamanti,descritti da Erodoto come i più veloci dell’epoca nell’attraversare il Sahara con bighe leggere trainate da quattro cavalli (così come testimoniano diverse pitture rupestri situate a sud dell’oasi).Ghadames rappresentò l’estremo punto meridionale dell’impero romano e di quegli immensi territori africani allora genericamente identificati sulle carte geografiche come “hic sunt leones”.
Come il dominio si fosse mantenuto ed affermato non è del tutto noto,certo che alla fine del secondo secolo un distaccamento della terza legione,ricostruita dall’imperatore Settimo Severo nativo di Leptis Magna (città imperiale dei Severi),vi teneva una stabile sede fortificata.
La sua lontananza dal resto dell’Impero e la presenza di minacciose tribù locali costrinsero i Romani e concedere una quasi completa autonomia all’oasi.
Il Duveryrier (noto esploratore – geologo francese del secolo scorso) raccolse in un giardino un frammento recante l’iscrizione che risaliva al regno di Alessandro Severo (221-235) e che attestava la presenza di una legione romana a presidio.
Alla scomparsa dei romani la storia diventa oscura,e se è quasi certo che i Vandali non vi penetrarono,vi giunsero invece i Bizantini che, esercitando indisturbati il loro dominio per quasi due secoli,dotarono la città di una certa importanza.
In quel periodo vissero a Ghadames quattro vescovi della Tripolitania e dai resti di una delle loro chiese gli arabi eressero una moscea (Sidi El Bedri o di Tinghessin) che ancor oggi è possibile visitare.La ricchezza delle colonne di marmo screziato,abbellite di capitelli di raffinata stilizzazione composita o bizantina,testimonia l’esistenza di un antico tempio innalzato a Diana oppure di una basilica cristiana dedicata alla Vergine,fatta erigere da Giustiniano Imperatore.
Dopo la disgregazione degli ultimi presidi militari libici di Giustiniano,Ghadames oppose agli arabi una fiera resistenza capitanata con tenace costanza da Dihia,la “professoressa dei berberi” che,secondo la leggenda,custodiva nei sotterranei della città i prigionieri catturati durante le scorrerie in Tripolitania.
Una volta capitolata,l’antica Cydamus adottò solo in parte i costumi degli invasori,mantenendo tuttavia intatti quegli usi e quei caratteri originali,ancor oggi argomento di studio e di ricerche archeologiche.
Fu l’arrivo della bandiera del Profeta (anno 46 dell’Egira,ossia 666/667 d.C.) a segnare una svolta decisiva nella millenaria esistenza di Ghadames,che abbracciò definitivamente la fede islmanica (culminata il 24 dicembre 1951 con l’indipendenza della nazione Libica).
DI CASA IN CASA
Una tipica casa,ottimamente conservata ed adibita a museo,si trova nel quartiere Tesku,e pare fosse dimora di un ricco mercante di nome Dembaro.
In fondo alla via principale del mercato Tesku si eleva,invece,la casa del “Num” (no).
La tradizione racconta che in questo luogo si radurarono,molti secoli fa,tutti i più importanti personaggi di Ghadames per decidere come rispondere alla richiesta di Ukba Ibn Nafi che ordinava l’abiura del cristianesimo.Tutti decidero concordi per il “no” ed allora Ukba li fece massacrare con un tranello,in quanto i suoi guerrieri non sarebbero potuti entrare nella città vecchia.Ancora oggi i gadamsini ricordano l’aneddoto per onorare la massima che sentenzia che senza la religione del profeta non vi è salvezza.E quella casa porta ancora il nome di “hosc el Num”.
Inoltrandosi nel buio della conoscenza storica,ecco che si incontrano i nomadi razziatori Touareg che,accordandosi con gli abitanti di Ghadames,difesero la città assicurandole per lungo tempo protezione e prosperità in cambio di vitto,alloggio e della buona guardia delle mercanzie depredate alle carovane.
E’ questo il periodo di maggiore splendore dell’oasi:i commercianti gadamsini,che avevano i loro rappresentanti stabili nelle più importanti città costiere del mediterraneo e nell’entroterra del Sudan,si arricchirono a dismisura,la popolazione crebbe notevolmente e l’agricoltura,in pieno sviluppo,utilizzò fino all’ultima goccia d’acqua.
Ma il fiorire delle linee marittime attraverso l’atlantico inflisse il primo grave colpo al commercio di Ghadames affievolendole il transito locale via terra.
Successivamente,l’alternarsi delle occupazioni turche,francesi e italiane (1931) aggravarono la situazione.L’Italia tuttavia ebbe il pieno controllo sola a pertire dal 1924 dopo avere subito una fiera opposizione piegata solo con l’uso dei primi bombardamenti aerei della storia,causa di ingenti danni alla città vecchia.
Dai tetti,alle viscere della città
Originariamente indicata dagli europei come città interdetta a causa della sfortunata spedizione Vogel/Richardson di cui si perse ogni traccia,fù battezzata negli anni ’50 la “perla del deserto” in quanto i “vip” del tempo la raggiungevano per trascorrervi esclusivi fine settimana.
Ma in realtà sarebbe più esatto identificarla come “sottomarino del deserto”.
Quasi interamente costruita in mattoni di fango e argilla,Ghadames emerge appena dalla sabbia che la circonda,stretta da una sottile cerchia di mura rosa nel verde dell’oasi.Il minareto della moschea Jaami rl Kebir,perfetto modello di arte cubista,spunta isolato come un periscopio.Salendo sul minareto,ogni cosa dall’alto appare a misura e a dimensione di uomo.
Le case si tingono do rosso o di bianco a seconda della luce del sole,le porte sono decorate con maniglie di rame,specchi ed affreschi dai motivi geometrici;il focolare domestico è protetto contro il malocchio e la stregoneria da corna di gazzella o di bue poste sulla sommità dell’ingresso;le rare ed alte finestre difendono la privacy familiare da sguardi indiscreti.Sui tetti spuntano invece numerose cupole (sacrari di famiglia o piccole camere per la preghiera) e fuochi domestici per consentire alle onne di accudire le faccende “casalinghe” senza perdere di vista i bambini.
Perchè è sui tetti che la vita quotidiana sembra scandire i propri ritmi tra l’azzurro del cielo e le viscere della terra.Due mondi complementari,uno aereo e uno sotterraneo,uno maschile e uno femminile,che conferiscono a ghadames una struttura architettonica inaudita,unica al mondo.
A copertura delle abitazioni si eleva infatti un ulteriore “tetto sui tetti”,regno riservato al mondo femminile.Questo dominio,autentica espressione di un modo di vivere che si perde nella notte dei tempi è inviolabile,assolato ed aereo,una specie di “grande terrazza” che mette in comunicazione tutte le abitazioni,simbolicamente divise e protette dal malocchio da merli triangolari che spintano sugli spigoli.
In basso,molto più in basso ecco le vie di Ghadames.Ricavate da tortuosi corridoi inseriti nel corpo dei fabbricati,sembrano scavate nelle viscere della terra .Quasi un gigantesco termitaio che si percorre camminando al buio o,piuttosto,in mistica penombra.Un fresco venticello le percorre trasportando contemporeanamente odori acri,profumi di spezie ed essenze depositate nei magazzini.Rari e violenti sprazzi di luce provengono di tanto in tanto da feritoie aperte sul soffitto.Queste vie sotterranee,lungo le quali si incontrano tavolta panchine pigramente allungate nelle mura domestiche o portici avvolti in una luce silenziosa,sono dominio degli uomini che vi scivolano silenziosi,avvolti nei loro futtluanti vestiti con il volto coperto dal Litham (localmente chiamato “smala”),si riuniscono nelle piazzette per il rito del tè,per fumare e fantasticare su storie e leggende lontane e vicine.
Percorsi carovanieri
Ghadames ha sette entrate,di cui due ben distinte che accedono a quartieri separati abitati da due famiglie ostili di origine berbera,i Banu Uazit e i Banu Ulid,che sebbene riappacificatesi dopo l’occupazione turca del 1843 decisero di non “contaminarsi”,continuando a vivere ognuna in una parte precisa della città.Le entrate minori portano invece ai quartieri berberi di Gerissan,Tinghzin,Tferfera,e Tesku o al quartiere arabo,degli Uled Belei,il solo ad aprirsi verso il cielo con le sue case ad un solo piano,bianchissime e prive di finestre dal lato della via,quasi dei colossali dadi messi in fila.
Oscuri i quartieri dei Banu Derar e dei Banu Mazingh,un tempo destinati agli schiavi affrancati che disimpegnavano i mestieri ed i servizi più umili.Al centro di questo impenetrabile e oscuro labirinto (è consigliabile avere una torcia) si apre la piazza del mercato o del gelso(Ussaiet et Tut o Mayadan Tata)dove,al posto degli attuali prodotti di artigianato locale,venivano esposti gli schiavi,divisi per sesso ed età.
Tristemente famosa per il traffico di mercanzia umana (non a caso molti degli attuali abitanti ne sono i diretti discendenti),Ghadames rappresentava anche un importante snodo carovaniero di smistamento verso l’Europa.In merito alle correnti carovaniere cito un passo della monografia edita da Franceso Corò,direttore della rivista “Tripolitania” nel 1937 dopo l’occupazione italiana:
“..questa linea era monopolizzata dai mercanti gadamsini stabiliti a Tripoli e il loro successo era motivato,oltre che dalla loro indiscutibile intelligenza negli affari,dalla posizione geografica del loro paese,sentinella avanzata delle regioni sahariane,e dalla rara conoscenza che essi avevano delle diverse lingue parlate dalle popolazioni nomadi del deserto e dell’Haussa con le quali commerciavano.La linea faceva capo a Tripoli e si svolgeva per Ghadames,Ghat,Air,Zinder e Kano,passando successivamente dal territorio ottomano a quello francese ed inglese,attraversando regioni percorse ed insidiate da tribù nomadi dedite al predonaggio,come i Touareg Azgher ed Hoggar.Le carovane che percorrevano questa strada non impiegavano meno di otto o nove mesi di viaggio fra andata e ritorno.
Sebbene questa via fosse la più lunga delle tre che svolgevano il traffico colle regioni del sud africano,e la più irta di pericoli,pure era quella che fino al 1096 era stata la meno soggetta alle vicissitudini sfavorevoli ai commercianti e che offriva ancora ai mercanti tripolini soddisfazione e rendimento”.
BUSKER SAHARIANI
A qualche chilometro di distanza dalle mura dell’antica città,le strade rettilinee della Ghadames moderna,costruita dal regime dopo la rivoluzione del 1 settembre 1969,si contendono la medesima sabbia.Qui vivono ancora ventimila sahariani,fra cui numerosi Touareg che ancora oggi si incontrano per danzare e suonare davanti al trascurato,ma affascinante albergo “Ain el fras”,ogni qualvolta il numero dei visitatori lo giustifica.Disponendo di tempo,econ un pizzico di fortuna,è possibile incontrarli al rientro dai frequenti spostamenti per seguire le mandrie di cammelli e dividere con loro il rito del tè.
Proprio di recente si è tenuto a Ghadames un festival di musica Touareg,durante il quale si è ridato vita alle caratteristiche danze che cantano l’eterna lotta di sopravvivenza contro la natura e gli invasori.Nelle piccole piazze,”Majlis”,due soli combattenti,valorosi,nobili ed indomiti guerrieri nomadi,si sono fronteggiati al rullo dei tamburi ed accompagnati da antiche danze sahariane.
Segreti di casa
All’esterno la Zawiya Senussita (scuola coranica) si presenta sotto forma di bastione medievale,mentre all’interno è del tutto simile ad una moschea.Le abitazioni di argilla,calce e tronchi di palma,costruite su due o tre piani messi in comunicazione da ritorte e strette scale,sono concepite per sottrarre il minore spazio possibile alle preziose colture dell’oasi.Un’architettura originalissima,elegante e ricca di ornamenti.Arredate sontuosamente con profusione di piatti,quadri,stuoie,cuscinetti e tappeti di pregio,le abitazioni conservano una minuscola cameretta riccamente decorata da archi e dentelle dai vivaci colri solari,la “hubba”,che la tradizione vuole fosse ultimata la notte prima del matrimonio dalle giovani spose per trascorrervi il tempo dell’amore.
Svolta la sua unica funzione,la “hubba” diventava luogo di esposizione dei regali ricevuti e degli oggetti più cari alla famiglia.Tra i più caratteristici i coprivivande di forma conica,tessuti con fibre di palma e fili di lana e di seta,che le spose portavano in dote a centinaia.
I tre piani che generalmente compongono le abitazioni sono adibiti a diverse funzioni:il piano terreno è un magazzino,il primo è dedicato alla vita familiare e il secondo alla vita intima delle donne.Assente invece,il consueto cortile interno tipico delle case arabe,sostituito dalla stanza-soggiorno del primo piano che riceve luce ed aria dall’unica apertura quadrangolare del soffitto.
Sulle pareti,decorate con disegni e nicchie ricavate nel muro,sono incastonati in posizioni strategiche piccoli frammenti di specchio,punti di riferimento per chi doveva muoversi a lume di candela.
Un tempo scandito dall’acqua
Il punto di partenza per visitare la città sotterranea è il trascurato ed affascinante albergo “Ain el Frass”,abituale riferimento locale per programmare o improvvisare incontri,costruito nel 1932 su volontà del maresciallo Balbo.
Ma Ain el Frass è anche il nome della fonte (esattamente la”fonte della giumenta”),circondata da un’alto muraglione di epoca romana e da palmeti di notevoli dimensioni,da cui proviene gran parte dell’acqua che garantisce all’oasi di sopravvivere(possono trascorrere anni senza che il cielo ne mandi una goccia).Il celebre condottiero arabo Sidi Uqba Ibn Nafi,detto il Santo,legò infatti il suo nome ad un avvenimento eccezionale.
Si racconta che egli,giunto a Ghadames estenuato dal caldo e dalle dure battaglie intaprese contro le enigmatiche tribù dei giganteschi Soo (o So) della mitica fortezza di Kahwar (gruppo d’oasi al centro dell’attuale Tenerè) avesse cercato invano refrigerio per sè ed i suoi uomini.
All’improviso la magica giumenta che l’aveva accompagnato attraverdo il deserto,battè con lo zoccolo il terreno mettendo a nudo una roccia da dove scaturì un limpido e fresco zampillo.
La leggenda evidentemente trova antiche associazioni nella mitologia semitica e greca oltre che nella deificazione egiziana del nilo,ma soprattutto nell’esigenza di spiegare con un’origine divina lo sbocciare della vita nel bel mezzo delle aride sabbie sahariane.
In verità l’acqua della sorgente,termale (29°C) e ricca di magnesio,nasce ad una profondità di 120 metri ed oggi,perdendo gran parte del suo fascino viene sollevata da una pompa elettrica.
Inoltrandosi in un labirinto di vie sotterranee,aggrovigliate e tortuose,sono ancora visibili,le nicchie dove un tempo stava accoccolato il “ghaddas”,l’uomo che di generazione in generazione provvedeva a distribuire quotidianamente l’acqua della fonte.Lo faceva ritmicamente,in base ad un complicato conteggio di nodi e per mezzo di un secchiello di rame bucato nel fondo (“il ghaddus”),attraverso cui regolava l’erogazione e la durata dell’afflusso nelle varie “seghie”,fitta rete di canaletti che dal bacino centrale della sorgente portavano acqua alle colture sapientemente distribuite su livelli degradanti.L’acqua tiepida scorreva,per un determinato numero di minuti,dal buco del secchio come in una clessidra:Ad ogni secchio che si svuotava,l’uomo addetto alla misurazione del tempo (il mestiere di ghaddas era ereditario ed affidato alla famiglia degli Attara) aggiungeva un nodo al lungo cordone di foglie di palma posto al suo fianco per poi ritornare a riempire un ennesimo “ghaddus”,lasciare che l’acqua filtrasse nuovamente dal buco,fare un’altro nodo e così via per settimane,mesi,anni.Per segnalare il termine della fornitura d’acqua stabilita per ogni oroto (“dermisa”) il guardiano dell’acqua buttava un pugno di paglia trita nell’alveo.Trasportatat dalla corrente,essa indicava la cessazione dell’irrigazione di un determinato orto e così un altro uomo,utilizzando le saracinesche di questo primitivo ma preciso sistema indirizzava l’acqua altrove,mentre il ghaddas,imperturbabile,proseguiva nei suoi calcoli.
Seguendo il percorso sotterraneo dell’acqua si scopre che essa raggiunge la moschea ed i relativi lavatoi,strette celle in cui può entrare una sola persona,utilizzati per le abluzioni da compiersi prima della preghiera.
Oggi come ieri,nei bagni della moschea risuona il sommesso sguazzare degli abitanti di Ghadames che continuano a preferirli a quelli di casa dove l’acqua è più calda a causa dell’esposizione al sole delle cisterne.
Civiltà avvolte nel mistero
L’oasi finisce all’improvviso,senza sfumature.
Un metro prima ci sono le case,un metro dopo la sabbia gialla,dovunque distese di pietre,o perlomeno di ciò che al profano potrebbero sembrare delle semplici pietre sparse un pò ovunque.Sono invece dei vasti cimiteri a testimonianza della vissuta importanza di Ghadames.
Per i mussulmani la migliore tomba è quella che non mostra nessun segno del valore umano e così,quasi tutte,non hanno nemmeno il nome del defunto.
Le rare,curiose,piccole costruzioni a cupola che invece spiccano nella solitudine sono invece l’estrema dimora dei marabutti.
Ll’area ospita inoltre le rovine,poche in verità,della prima moschea della città,la Jamia Yinus al Kadim,e di Gasr Maqdul,tipico esempio di granaio fortificato che,al tempo del Limes romano,serviva anche da caravanserraglio.
Al limitare dell’oasi,fra palma e palma,si intravedono gli “El Asnam” (idoli,in arabo),le misteriose rovine che parlano di una millenaria civiltà,probabilmente antecedente a quella dei Garamanti.
Potrebbe trattarsi del grande impero negroide,i cui possedimenti si sarebbero spinti,secondo alcuni studiosi francesi,fino nel nord del Fezzan.Per i gadamsini essi rappresentano le pietre sacre dei Giailia,una sconosciuta leggendaria etnia dalla gigantesca corporatura che,secondo le tradizioni libiche,avrebbe padroneggiato su tutta l’Africa.
Ma c’è anche chi intravede fra le rovine la presenza dei famosi e sconosciuti “Hyksos”,probabili pastori nomadi cacciati dall’impero dei faraoni,e chi addirittura ipotizza un legame con i “Mejah”,misteriosa popolazione di feroci guerrieri originari dell’alta Nubia e utilizzata dagli egizi nelle scorribande sahariane.
In realtà si tratta di cinque modesti ruderi di probabili mausolei di importanti famiglieromane che,modellati nei secoli da vento,sabbia e sole,appaiono ora agli occhi della popolazione locale sotto le sembianze di idoli strani.
Un tempo non lontano,da questo strano luogo i gadamsini si riunivano in occasione delle ricorrenze religiose per cantare e danzare al suono dei tradizionali strumenti a fiato o a percussione.
Feste folcloristiche sempre più rare,ma che ancora oggi riservano emozioni di un inconsueto spettacolo che può durare fino all’alba.In occasione della più nota,detta “Singhelèbi”,festa che ha luogo durante il periodo dell’Asciura (ricorrenza religiosa della durata di dieci giorni),si adotta l’uso delle maschere.
Una vecchia donna con vestiti appositamente laceri e consunti scimmiott,con vere e proprie corna fissate tra le pieghe del turbante,la caricatura di un caprone.
Seguita da un corteo di anziane,la maschera umana corre e urla per le vie della città fingendo di volere trafiggere i bambini che, impauriti e in fuga,verrano successivamente ricompensati con le tipiche “grgràgesh”,frittelle locali di grano macinato,latte acido e zucchero fritte in olio,tuffate nel grasso di agnello e spolverate di zucchero.
Uno sguardo dalla collina
A circa 15 chilometri,verso il triplice confine algerino,libico,tunisino,su una modesta collina denominata “Ras Ghadamsi”,sono adagiati i resti del “castello degli spettri” (Gasr el Ghoul)),roccaforte di epoca romana che domina,in un unica e magnifica veduta,il panorama sahariano che i tre stati condividono.I dintorni testimoniano una presenza fossile del mare,confermata peraltro dai due laghetti salmastri che i gadamsini frequentano il giovedì ed il venerdì in occasione del fine settimana libico.
Il mito del Sahara e l’incanto delle sue città sembrano fondersi nello scenario che offre Ghadames.Un mondo a se stante,difficile da dimenticare e che deve avere suscitato profonde emozioni anche nell’animo del primo esploratore europeo,Axander Gordon Laing,che nel 1824 vi sostò durante il suo famoso viaggio verso Timbouctou.
E chissà se la perla del Sahara avrà trafitto il cuore di Sophia Loren e di John Wayne che agli inizi degli anni sessanta vi soggiornarono una ventina di giorni per girare il film “Timbuctù”? Ancora oggi qualche indigeno porta con sè qualche foto sdrucita,scattata all’epoca dal fotografo Rosario Casella durante le riprese.
Forse è bene che nel nostro tempo,che tutto computerizza a commercializza, rimanga incontaminato un angolo di mondo dove è ancora possibile sognare e fantasticare.
Una cittadella dei sogni,una magica sentinella del Sahara da preservare per il nostro futuro.