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Il mare e il deserto By Marino Zecchini

– Posted in: Cultura, Storia, Usi e Costumi

By Marino Zecchini
Originally Posted Sunday, November 4, 2007

IL MARE E IL DESERTO

Il mare è come il deserto, le dune sono le onde, le oasi i porti. Luoghi di sovrapposizioni ideali e semantiche per ciò che evocano sul piano delle idee e delle rappresentazioni. Forse non ci sono elementi della natura più densi di significati simbolici con parallelismi e connessioni pur nella loro apparente contraddizione. Il segno simbolico, mare-deserto sta probabilmente nel suo essere materia solida e liquida in ambedue mobile, immensa e imperscrutabile, cangiante eppure immutabile. Il mare come il deserto è placenta, involucro protettivo delle prime e delle ultime forme di vita. Sono l’inizio e la fine di un percorso dalla nascita alla morte dalla fertilità dell’acqua alla sabbia ultima espressione della desertificazione. Due momenti estremi della vita dell’uomo. Ma soprattutto di quegli uomini che vivono in questi due estremi elementi. Rappresentazioni quanto mai esemplari ed emblematiche dell’infinito e dell’assoluto. Dalla terra abitata dai pescatori e dai beduini delle oasi si guarda al mare d’acqua e di sabbia come ad una madre severa e generosa, cosmo di memorie e identità. centro gravitazionale dei pensieri, dei gesti e delle parole di tutta la comunità, che si affida ai cicli biologici che sono il calendario delle stagioni e dei ritmi della vita. Da una riva all’altra l’acqua e la sabbia uniscono gli uomini, mescolano le lingue, mischiano oggetti e simboli, contaminano culture e civiltà. Mare e Deserto, infatti, sono stati il ponte, di comunicazione, veicolo di traffici materiali e di scambi culturali, teatro di incursioni piratesche e di razzie, di vicende commerciali, di trasgressioni individuali e collettive come la tratta degli schiavi, di rocambolesche storie di uomini sempre alla ricerca della giusta direzione. Sinonimi di libertà e di avventura, il mare ed il deserto si identificano con l’idea stessa del viaggiare, del partire e del ritornare, dell’allontanarsi e del riapprodare, del separarsi e del ricongiungersi. Al di là dei loro orizzonti la fantasia popolare ha immaginato mondi felici, paradisi incontaminati, paesi di cuccagna. Paesaggi mai convenzionali, abitati da miti e simboli da cui hanno preso forma riti e culti delle più antiche religioni dell’uomo.

Gli occhi di un uomo di Mare

Sulla scogliera di Ras el Marmour nei pressi di Zarzis, là dove si trova la gubba di Lalla Miriam c’è una piccola insenatura dove un gruppo di pescatori ancorano le loro piccole barche di legno al sicuro dalle soventi e furiose mareggiate.

Al calare della notte e alle prime luci dell’alba, gli uomini partono ognuno con la propria barca, vanno e vengono, spingono i remi con gli occhi pieni di sonno, di speranza, in silenzio, tutti sembrano conoscere e sapere, non parlano con nessuno, sembrano sfidare e assecondare il mare secondo i capricci del vento e delle temute onde.

Là ho trovato Tahar con l’immancabile scescia bianca in testa. Non si può capire la sua età anagrafica che potrebbe essere tra i 70 e 100 anni, una roccia con una secca e appuntita barba e gli occhi penetranti, profondi come il sua mare. Una vita alla ricerca continua della soluzione economica per la sua famiglia. Tahar, discendente di una stirpe di pescatori, suo padre e i suoi parenti giacciono in un piccolo terreno contornato da un muretto a secco li a pochi metri dalla scogliera, sovente lo scopro sopra le tombe a versare i suoi pensieri nel mortaio delle sue idee.

Presso la gubba di Lalla Miriam, su di un piccolo spazio battuto dalla posa delle reti ad asciugare, lo ritrovo mentre aggiusta le sue reti. L’alluce del piede destro infilato in una maglia per tendere il tramaglio e nelle mani un attrezzo con avvolto del filo bianco per ricucire la verginità alle sue trappole lacerate. Il suo viso e i suoi modi sono segnati dagli insulti del sale e del sole, tuttavia la sua religione, l’Islam che lo vuole saggio e pio gli ha ritagliato un angolo di attenzione per gli altri e la natura, mi porta i fiori del suo giardino perché io goda osservandoli del loro colore e del loro profumo, La sua vita si è svolta tra la scogliera e l’orizzonte del mare, conosce ogni scoglio nascosto sotto il pelo dell’acqua, il mare è per lui il dono che Allah gli ha consegnato come fonte di sopravvivenza per la sua famiglia.

Una mattina di primavera lo trovai ritto sugli scogli che osservava il mare con una attenzione insolita e gli chiesi. “cosa cerchi Tahar tra le onde” non mi rispose subito era attento, voleva essere certo di ciò che aveva visto, poi senza lasciare lo sguardo disse “sciuft mzef” nel mare a pochi metri dalla riva un nugolo di milioni di piccoli pesci passavano e tracciavano l’acqua come una grande nuvola nera che si spostava lentamente. Lui corse al gurbi (capanno) dove aveva riposto la catasta delle sue reti, ne prese tra le braccia una lunga dalla trama fitta, ricavata dalle tende di casa cucite una presso l’altra, si getto nell’acqua, legò in un attimo un lembo allo scoglio e si mise a nuotare svolgendo il rimanente man mano che si allontanava nell’acqua, girò attorno alla nuvola dei piccoli pesci, li circondò con la rete ritornando al punto in cui aveva legato il primo lembo che slegò dallo scoglio in un attimo, poi, raccogliendo tutta la forza che aveva iniziò a tirare contemporaneamente i due lembi insieme. I milioni di pesci erano nella trappola. Tirò la rete sino a pochi metri da lui, e fu impressionante vedere il pallone vivente dentro la rete gonfiarsi. Sul viso di Tahar si erano formate le rughe della battaglia e lo sguardo della vittoria, come un antico cavaliere nel suo atto più cruento fatto per un nobile fine. Raccolse con fatica il pallone di pesci che aveva preso dentro la rete, lo tirò fuori dall’acqua e subito lo sparse sugli scogli a seccare, le rocce tutt’attorno sembravano animate ma presto il sole calmò il nervoso muoversi delle piccole vite. Il giorno seguente quando il caldo sole del sud aveva terminato la sua opera sullo mzef giunsero le donne di Tahar, sua moglie e le sue figlie che con l’aiuto di un ramo di palma usato come una scopa ravvicinò i piccoli pesci in mucchietti che misero nei sacchi e li portarono via.

Tahar esempio vivente di uomo del mare al tramonto, ultimo tra i sopravvissuti di una nobile società in estinzione, ogni giorno continua a scrutare il mare e ad accumulare segreti che la sua mente custodisce muta, i suoi occhi a volte ne rivelano alcuni.

Ipnotismo e dromedari

I dromedari camminano liberi nei pascoli estivi, a volte sostano per mangiare avidamente gli arbusti rinsecchiti, come un gioco ingoiano gli spinosi vegetali roteando le mandibole in una smorfia di scherno. Altre volte essi sostano immobili, sembrano bloccati dagli ipnotici raggi del sole estivo. Come pietrificati attendono, incomprensibilmente. All’improvviso alcuni si muovono, solitari o a piccoli gruppi si incamminano decisi, tutti verso la medesima direzione. Sembra sappiano con precisione ciò che desiderano. Il richiamo che sentono a distanze impensabili li convoglia assetati e in fila verso l’odore dell’acqua, tutti prendono la strada del pozzo. Quando giungono nei pressi il loro passo si affretta ed inizia una sorta di competizione, a volte giungono a gruppi numerosi, dieci o quindici animali assetati, impazienti di bere, ma l’acqua è nel profondo buco, il desiderio incontrollabile si manifesta in pericolosa irruenza. Il giovane pastore corre al pozzo, afferra il delu (secchio) ed inizia il suo lavoro. Un gioco di intesa tra uomo e animale, intenso momento frenetico ed estenuante lavoro, l’acqua nell’abbeveratoio è sempre poca, i dromedari reclamano con strazianti urla, ed in breve attorno al pozzo sembra si accenda una gigantesca disputa. Dieci, cento, cinquecento volte mille litri d’acqua passano dal secchio all’abbeveratoio. Il secchio viene immerso infinite volte, la falda è profonda, la corda incandescente nelle mani strappa la pelle, le bestie nervose competono violentemente tra loro per accaparrarsi il prezioso elemento.

Al giovane pastore sembra per un momento sfuggire il controllo. I dromedari, in queste circostanze potrebbero ferirsi ed i loro proprietari non perdonerebbero facilmente l’incapacità del giovane e dai compagni sarebbe deriso.

Allora il pastore intona un canto, ritmico, coordinato ai suoi movimenti e quelli dei dromedari. La fune del secchio, tirata a tratti, secondo la lunghezza delle braccia, dà il tempo alla canzone, suono e parole prevalgono sull’irruenza animale, la tensione si placa sotto il dominio dell’uomo che gode soddisfatto della sua capacità. Il canto progressivamente si abbassa di tono fino ad essere un filo di voce che scompare nell’aria lasciando il rumore dello sciacquio dell’acqua che i dromedari provocano bevendo.

 

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