By Luciano PieriOriginally Posted Monday, July 9, 2012
ETIOPIA – DAL TIGRAY AL LAGO TANA (SULLE TRACCE DELL’ARCA)
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di Luciano Pieri
Si arriva a Lalibela da Addis Abeba per una lunga e impervia strada che attraversa verdi vallate e colline ricoperte di aloe, di gigantesche euforbie, di boschi di eucalipti, e quando siamo arrivati in questa città, unica al mondo, si é ripagati per tutte le difficoltà incontrate.
All’inizio del 1200, l’imperatore Lalibela, volendo una Gerusalemme in terra d’Africa, per risparmiare ai suoi sudditi, seguaci del più antico ramo del cristianesimo, quello copto, il lungo viaggio fino alla Terra Santa, chiamò dall’Egitto e dalla stessa Gerusalemme i migliori artigiani del lapideo.
Nell’arco di ventitre anni, si dice che di notte lavorassero gli angeli, in questa ridente conca furono letteralmente scavate in una specie di gres rossastro a grana grossa, undici chiese monolitiche che ricreano i luoghi sacri della tradizione cristiana.
Ogni chiesa é costituita da un unico grosso masso la cui base é ancora unita alla roccia, scavato all’interno dove tutto, dal tetto, alle porte, alle finestre, agli altari, é ricavato a colpi di mazzuolo e scalpello.
Opere finissime che presuppongono un progetto lucido ed originale, che oltre a ricavare dalla viva roccia questi gioielli, dalla stessa vengono tenuti nascosti fino a quando non si giunge davanti a loro.
A distanza di ottocento anni queste chiese sono ancora abitate dai monaci e per le scadenze liturgiche, le loro feste sono qualcosa di toccante.
Si lascia Lalibela a malincuore, mai sazi dei suoi monumenti, proseguendo verso nord.
Superata l’impressionante muraglia dell’Amba Alagi, per la storia coloniale italiana carica di ricordi drammatici, si aprono davanti agli occhi gli orizzonti aspri e immensi della regione del Tigray.
In questa parte dell’Etiopia, cercando in strette vallate e su pareti rocciose difficilmente accessibili, si possono scoprire più di cento chiese rupestri, meno famose di quelle di Lalibela, ma più antiche e di un fascino particolare dato anche dalla difficoltà per raggiungerle.
Sono un collegamento cronologico ed artistico fra la civiltà di Axun e di Lalibela, costruite in posizioni molto impervie, o per sfruttare grotte già esistenti, o per aumentare la possibilita di sopravvivenza in caso di invasioni di infedeli.
Alcune sono esternamente colorate con i toni più ricorrenti in Africa, il rosso, il giallo, il nero, il verde; tutte sono internamente decorate con pitture murali, affreschi e dipinti, i temi sono la vita del Cristo e dei santi.
Usando colori violenti, linee marcate e forme stilizzate é dato un effetto molto simile a quello delle vetrate istoriate che ornano le chiese gotiche in Europa.
La loro bellezza ed unicità dà sensazioni che giustificano ampiamente anche il rischio fisico che si affronta per arrivaci.
Caso più significativo: la salita al monastero di Debre Damo.
Abbarbicato su di una piatta montagna alta 2800 metri, dove una superfice di circa mezzo chilometro quadrato circondata da pareti a picco racchiude nelle sue due chiese ricchi tesori di croci d’oro e antichissimi incunaboli, é il simbolo tangibile dell’impresa.
Per salire qui, cosa riservata solo agli uomini, bisogna scalare una parete a picco di 24 metri, legati da una improbabile corda che i frati calano per aiutarti a salire, o meglio dire, tirarti su come un salame, una volta imbrigliato sotto le braccia.
Siamo nell’estremo nord dell’Etiopia, da Debre Damo, attraverso la valle di Adua dove nel 1896 il generale italiano Baratieri prese una storica batosta dall’imperatore abissino Menelik 2°, si arriva ad Axun.
Secondo il grande poema epico etiope il “Kebra Negast”, Axum era la capitale del regno della regina di Saba e poi di Menelik, suo figlio, concepito con il re Salomone, già nel decimo secolo avanti Cristo.
La sua passata grandezza é leggibile nelle grandi tombe di granito, nelle famose stele alte più di venti metri e riccamente decorate e nelle chiese contenenti arredi di alta oreficeria.
Però la più famosa, che avrebbe fatto gola ad Indiana Jones, é quella di Santa Maria di Zion, dov’è custudita da un solo sacerdote, si dice che contenga l’Arca dell’Alleanza.
Ma nessuno ha mai potuto vederla, pena essere avvolti dalle fiamme.
Gli archeologi calcolano che solo il 2% del patrimonio axumita é stato portato alla luce, il rimanente sarà a disposizione delle future generazioni.
Attraverso la valle del fiume Tacazzè, lussureggiante di vegetazione, si entra nel parco del Simien.
Con picchi e altipiani che si alzano fra i 3000 ed i 4000 metri, con stupendi panorami sulle valli vulcaniche, con incontri ravvicinati a uccelli rapaci e mammiferi di alta montagna tra i quali il Walia ibex (lo stambecco abissino), in questo ambiente creato dalla lava fusa circa quaranta milioni di anni fa, il paradiso terrestre non é sembra lontano.
Già Omero, ai suoi tempi, narrava che gli dei avevano eletto i monti Simien a loro luogo di riposo dalle fatiche causate dai mortali, ritirandosi qui per giocare a scacchi.
I rari villaggi costruiti a capanne circolari con tetti di fibre vegetali a cono (tukul), riportano alle immagini dei vecchi libri, fatte dai primi esploratori.
Uscendo dalla zona del parco in direzione della città di Gondar, si incontra il villaggio di Wolleka la cui particolarità é data dai suoi abitanti.
Sono infatti ebrei etiopi, i falasha, ultimi di un’antichissima stirpe precristiana, quando il giudaesimo fù per secoli la principale religione dell’Etiopia.
Il loro numero é esiguo perchè sono i pochi a non essere voluti partire per “la terra promessa”, quando gli israeliani, negli anni ’80, organizzarono un ponte aereo per riunirli nello stato ebraico.
E si giunge a Gondar, in una amena valle, dove intorno al 1640 l’imperatore Fasiladas la fece costruire assurgendola a sua capitale.
E’ chiamata la Camelot d’Africa per i suoi innumerevoli castelli imperiali e per le sue quarantaquattro antiche chiese.
I castelli ricordano vagamente le costruzioni del nostro rinascimento poiché il grande imperatore Fasiladas utilizzò come abili capimastri, meticci portoghese, levantini ed indiani.
Le chiese sono adornate da ricche pitture, la più famosa, Debre Berham Selassiè è universalmente celebre per il suo soffitto decorato da quaranta serafini tutti con espressioni del viso diverse.
A sud, poco lontano da Gondar, si trova il lago Tana, grande specchio d’acqua di circa 5000 chilometri quadrati e dal quale nasce il Nilo Azzurro attraverso la cascata di Tississat.
Le sue acque erano date dalle lacrime di Iside alla ricerca del suo amato sposo Osiride ucciso dal fratello Seth.
Le trentuno isole che costellano questo lago posto a 1860 metri di altezza, celano chiese e monasteri dove trovarono rifugio e sepoltura monaci e re nei momenti bui della storia etiope.
Sono arricchite da pitture che illustrano scene del Nuovo Testamento e della vita dei santi, da croci finemente cesellate, da manoscritti risalenti al medio evo, in una di queste sembra sia stata nascosta in tempi difficili l’Arca dell’alleanza.
Attraverso un altipiano e per una strada che costeggia la valle del Nilo Azzurro, si ritorna ad Addis Abeba.
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LA CERIMONIA DEL CAFFE’
Per noi occidentali, sempre di corsa, sempre in lotta col tempo, è qualcosa di impensabile ma in Etiopia è uno degli aspetti più gentili della loro ospitalità.
E’ un rito che si compie al termine del pasto.
Gli ospiti vengono fatti accomodare su piccoli sgabelli, intorno vengono sparsi fiori freschi ed erba appena tagliata, davanti viene posto un fornelletto con carbone acceso.
In una padella vengono tostati i chicchi di caffè crudo.
Quando l’olfatto percepisce il gradevole aroma del tostato, i chicchi sono schiacciati in un mortaio, poi la polvere viene messa in un pentolino con l’acqua calda e portata all’ebollizione.
Il caffè viene servito in tazzine di ceramica con tre cucchiaini di zucchero e di solito accompagnato con pop corn.