By Nicola Ferrulli
Originally Posted Monday, August 9, 2004
L’Etiopia, alle 22,30 del giorno 22 dicembre 2001, vince per 2 a 1 contro il Kenya.
L’Etiopia è campione 2001 del RWANDA CHALLENGE, campionato di calcio dell’Africa Orientale. L’aveva vinto, l’ultima volta, nel 1987.
L’Addis Ababa della TV e del pallone è in festa: sembra di essere in una qualsiasi città europea che ha vinto un titolo simile. Urla e fischi di gioia, clacson e canti festanti.
Finalmente una buona notizia per l’Etiopia, dopo anni di guerra ed una situazione economica infelice.
Chissà se anche i SURMA partecipano a questa gioia.
Siamo arrivati ad Addis Ababa questa mattina alle 7,30, con circa un’ora di ritardo sul previsto: lo stesso che l’aereo aveva al momento del decollo dal Leonardo da Vinci di Roma.
Lo scopo principale per cui anche quest’anno siamo ritornati in Etiopia è andare a trovare i SURMA.
E’ una delle poche etnie che mantengono ancora tradizioni cultura e costumi non eccessivamente corrotti dalla cultura schiacciasassi occidentale.
E’, insomma, la prosecuzione ideale del viaggio che, nello stesso periodo dell’anno scorso, fu fatto per conoscere un po’ più da vicino i MURSI, i KARO, gli HAMER, i GALEB ed i KONSO.
Tanto per avere un’idea sommaria dei luoghi, in entrambi i viaggi la destinazione finale è il Sud dell’Etiopia: quella che confina con il Kenya e la Somalia, e quindi ad Est, il viaggio fatto l’anno scorso; quella che confina con il Kenya ed il Sudan, e quindi ad Ovest, il viaggio fatto quest’anno: spartiacque il fiume OMO.
Una complicazione, quest’anno, è data dalla mancanza di vie di comunicazioni carrozzabili.
Per una settimana, dal venerdì 28 al giovedì 3, compiremo un “round trip”, che da TUM ci riporterà a TUM: sarà un’impresa sportiva che farà da supporto al viaggio più prettamente di “curiosità” : è un esperimento nuovo per il nostro gruppo; sarà una sorpresa.
L’Empire Hotel, dove prendiamo alloggio, ha stanze piccole e non molto pulite. Il materasso poggia su assi di legno precariamente tenute assieme da due fili di ferro paralleli, cosicché, se appena ti agiti un po’ di più, rischi di essere travolto nel suo crollo e trovarti steso sul pavimento: storie di ordinaria amministrazione a queste coordinate geografiche.
Addis, è ora, a differenza di un anno fa, piena di cantieri: ci sembra evidente la voglia di riprendere, ad un anno dalla fine delle ostilità che l’hanno contrapposta all’Eritrea.
E’ piena di gente ed il traffico è tanto e, non occorre dirlo, caotico.
Domani partiamo per l’ Ovest del Paese, Jimma e Gambela, al confine con il Sudan.
L’idea è di svegliarci alle 6 per partire poi alle 7, ma è il gallo del cortile, alle 4 in punto, a darci la sveglia: nessuno l’aveva informato delle nostre intenzioni.
Una muta di cani, probabilmente convinta che il pennuto non sarebbe riuscito nel suo intento, incomincia disperatamente ad abbaiare.
Tanto vale accendere la luce e mettersi a leggere il bel libro di Turnbull sui Pigmei.
Partenza alle 7,15 ed arrivo a Jima alle 16.
Quasi 9 ore per poco più di 300 Km e domani ci aspetta la tappa di 420 Km di strada ancora peggiore, che da Jima ci porterà a Gambela, all’estremo Ovest del Paese, quasi ai confini con il Sudan.
La strada attraversa un villaggio di cultura Gurache, del gruppo Chevena: ci fermiamo e ci accolgono con maniere molto gentili ed ospitali, ci fanno accomodare nelle loro capanne circolari.
Nonostante le prime apparenze, è una popolazione completamente integrata alla cultura occidentale e ben presto noi ci sentiamo degli intrusi.
Li salutiamo e proseguiamo per la nostra strada.
Grandi buche, grandi quanto crateri, deturpano la strada per Jima e gli autisti, compreso il nostro che si chiama Wubishe e che è bravissimo, vedendosi costretti a continue deviazioni per evitarle, sembrano ubriachi che non riescono a tenere fermo lo sterzo.
Alle 9 il sole è già alto e caldo, cosicché prima ci liberiamo dei maglioni, poi arrotoliamo le maniche delle camice ed infine incominciamo a sudare.
La vegetazione è fiorente e le piante di ensete, il falso banano, crescono rigogliose dappertutto.
Jima, capitale della regione del Kaffa, grazie alle coltivazioni di caffè, da cui la regione prende il nome e di cui si producono intorno ai 2,5 milioni di quintali all’anno, è il centro più prospero della regione.
E’ purtroppo una città che per noi non presenta motivi di particolare interesse.
Stanchi per il viaggio, dopo avere per un po’ bighellonato intorno all’hotel che ci ospita ed aver cenato, alle 9 di sera, preso un whisky, ci rintaniamo in un letto in attesa della partenza dell’indomani, fissata per le 7.
I 150 Km della strada che collega Jima a Bedele, attraversati dalle graziose ma impaurite scimmie colobi, bianche e nere, percorsi da asini pazienti, da capre capricciose e cani latranti, invasi da mandrie di nobili bovini indifferenti, sono più affollati delle strade di S. Faustino, a Brescia, il 15 febbraio. L’autista, fra brusche frenate e lente accelerate, cerca di schivare la gente che va e viene dal lavoro quotidiano.
Foreste di alberi di acacie ed eucalipti ci accompagnano lungo la strada non più asfaltata.
Siamo diretti a Gambela, è il 24 dicembre, giorno di vigilia e questa sera daremo fondo alle nostre provviste di Natale.
Durante una sosta a Bedele per una birra, che mano a mano che ci inoltriamo all’interno diventa sempre più tiepida, veniamo circondati da ragazzi di un mondo che ormai nulla più accomuna al nostro.
Si cerca di comunicare ed uno di questi ci mostra un disegno.
E’ lo schizzo, sommariamente abbozzato, di un gran carrarmato che sputa fuoco contro piccoli aerei che gli volteggiano intorno: le scritte TORA BORA ed AL QUOEDA lo collocano nel presente storico.
Si riaffaccia l’Afganistan, ci riporta ai nostri fantasmi che ormai credevamo di aver dimenticato
E’ proprio vero che il viaggiatore cerca perennemente di sfuggire ad una realtà, ma inutilmente, perché la realtà da cui cerca di fuggire altro non è che quella che si porta dentro.
Forse allora viaggiare non è altro che, come tutta la vita, sogno.
Mano a mano che ci si allontana da Bedele, nella direzione di Gambela, la strada peggiora e ritroviamo i crateri; eroici pezzi di asfalto resistono a ricordo di un passato che si fa sempre più lontano.
Incrociamo un paio di camionette dell’ONU a testimonianza del lavoro che stanno portando avanti nella zona di Gambela a favore dei rifugiati Sudanesi.
A Gambela ci troviamo a festeggiare la vigilia di Natale in una lurida locanda, sotto una zanzariera che se ti protegge, forse, dalla malaria, non ti protegge dalla cimici e dalle pulci che infestano il letto e che, come te, hanno diritto a mangiare anche loro.
Speravamo di trovare per cena del pesce, magari l’ottimo capitaine, fiume di acqua dolce, ma al ristorante dell’hotel Ethiopia, il migliore del posto, ci dicono che non ne hanno.
Dopo aver mangiato la solita ‘ngera (vedi resoconto anno scorso), ci spremiamo sul pane dell’ottimo pathé di salmone e dei filetti di acciuga per chiudere poi con un panettoncino bello caldo e appena sfornato da uno zaino che durante tutto il viaggio era stato esposto al sole.
Gambela, capitale dello stato omonimo, ha una superficie di 25.275 Kmq, una popolazione di circa 182.000 abitanti ed un glorioso passato che le deriva dall’essere stato, all’inizio del secolo, uno dei maggiori porti fluviali.
L’attraversa il fiume Baro e, fino al 1955, grandi barche hanno trasportato caffè resine e pelli, raggiungendo Khartoum in sette giorni e ritornando, cariche di tessuti e cotone, in undici a Gambela.
L’attuale situazione in Sudan, con cui l’Etiopia condivide ben 1.606 Km di confini, ha fatto di Gambela solo una scomoda città di confine, terra di rifugiati, che chiedono all’Etiopia solo di poter sopravvivere.
Ci dicono che attualmente i Sudanesi rifugiati in questa regione siano circa 600.000(2) : alcuni, i più intraprendenti, si sono dedicati ai commerci, mentre la maggior parte vive nei campi gestiti dall’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR).
E’ abitata dalle due principali etnie dei NUER e dagli ANUAK, che vivono di pesca e caccia ed in minor misura di agricoltura e che hanno mantenuto i loro costumi, le loro tradizioni e le loro credenze animistiche.
Domani, giorno di Natale. Lo passeremo ad Itang, a Ovest di Gambela, entrambe, all’inizio del secolo, enclave Britanniche in Etiopia.
Itang, per 5 anni, fra il 1902 ed il 1907, era stato il porto da cui era partito il traffico commerciale per il Sudan prima che venisse costruito quello di Gambela che, occupando sul Baro una posizione più a monte, offriva alle imbarcazioni di lavorare per un periodo più lungo nel corso dell’anno.
Qui vivono i NUER: popolazione slanciata, dai tratti fini ed una satinata pelle nera.
La popolazione è costituita da 64,907 individui (censimento del 1998), conosciuti anche come NAATH.
Gli uomini, come le donne, portano scarificazioni a mosaico, che decorano lo stomaco ed il petto.
Il passaggio dall’età giovanile all’età adulta, per i maschi all’età di 14 anni, avviene mediante riti di iniziazione che prevedono scarificazioni sulla fronte procurate da sei staffilate che, se non riescono perfettamente parallele, indicheranno per tutta la vita la codardia di chi, durante la prova, non ha saputo stoicamente sopportare il dolore.
Sempre alla stessa età, le ragazze, nel corso di cerimonie di iniziazione, per ragioni estetiche, rimuovono 6 incisivi: la bellezza, in questi posti e presso queste etnie, assume canoni notevolmente diversi dai nostri ma anche da quelli di altre etnie che pure non sono da loro particolarmente distanti.
Il villaggio è composto da un numero variabile di capanne circolari, ognuna delle quali è abitata da una sola famiglia.
Distanziate l’una dall’altra, ciascuna abitazione è dotata di uno spiazzo irto di paletti affioranti dal terreno nel quale sono profondamente infissi. A ciascun paletto è fissata una corda che termina con un cappio, a cui verranno legati per una zampa gli animali al ritorno dal pascolo.
Essendo una zona malarica, per proteggere gli animali dalle zanzare malefiche, nel terreno sono stati praticati dei piccoli crateri che, riempiti di sterco secco a cui viene dato fuoco, eruttano un fumo acre che dovrebbe tenerle lontane.
Sotto una costruzione totemica, che ne indica l’ubicazione, ardono perennemente i tizzoni che serviranno da esca ai nuovi focolai.
I bovini, più che per l’alimentazione, vengono allevati in quanto simboli di ricchezza che i genitori daranno al figlio perché li porti in dote alla famiglia della donna che sposerà.
Una donna, inginocchiata davanti ad una pentola in terracotta esternamente annerita dall’uso, cura la cottura di alcuni zampetti di capra.
Ci spiega che sta preparando una zuppa che avrà la funzione terapeutica di rimettere a posto delle ossa rotte e ci assicura che non c’è medicina migliore per quel tipo di malanno.
Una anziana donna, inginocchiata davanti alla macina consunta dall’uso, con grande abilità, dopo aver spinto con un rapido colpettino delle dita sotto il pestello a forma di “baguette” un mucchietto di granelli di sorgo che si trovano sulla parte alta della macina stessa, li sfarina con leggeri movimenti a pendolo del busto; il macinato cade su una pelle stesa sotto il bordo inferiore della macina e, così, poco alla volta, i grani di sorgo diminuiscono e la montagnetta di farina aumenta.
I suoi gesti, fatti con innata eleganza, non fanno pensare alla quotidiana fatica ma piuttosto che per quella donna, quello, sia proprio il momento del meritato riposo
Il villaggio è popolato da donne e bambini; i ragazzi e gli uomini sono al pascolo con le greggi e gli armenti.
Di vecchi se ne vedono pochi in un Paese che ha una speranza di vita di 46 anni per gli uomini e di 48 per le donne.
Il 26 dicembre torniamo a Gambela per raggiungere la locale agenzia della Ethiopian e lì confermare i nostri voli di ritorno.
A mezzogiorno, fatti i rifornimenti di viveri e benzina, partiamo per TEPI, dove saremo ospiti di un accogliente club di piantatori di caffè.
L’indomani, 27 dicembre, l’ultima tappa in auto che ci porterà a TUM, da dove inizierà la settimana di trekking con prima destinazione Maji, abitata dai DIZI e, quindi per ADIKAS, nella terra dei SURMA o SUMI, come essi stessi si definiscono.
Lo sterrato che da Tepi porta al Sud è un continuo saliscendi che attraversa una fitta foresta di tipo tropicale densamente popolata.
Fra ali di bambini che urlano “Farenji Farenji”(3), attraversiamo a passo d’uomo CHACO’, un brutto villaggio di baracche.
In questa zona un progetto governativo prevede l’installazione di grandi coltivazioni di caffè e di gomma: il primo è già partito, mentre per il secondo si è ancora alle sperimentali fasi iniziali.
Arrivati a DIMA’, superato il fiume ACOVO, si prende una pista sulla destra ed in serata si raggiunge TUM.
Qui ci aspettavamo di trovare la carovana dei muli che avrebbe dovuto accompagnarci durante il trekking ma di questi animali non c’è traccia: sembra che un gruppo di americani, arrivati prima di noi ne abbiano fatto incetta lasciandoci a piedi.
E’, questo, un bel problema se si tien conto che, fra zaini, provviste, tende e materassini ci sarà da trasportare per una settimana qualche “quintalata” di roba.
Per quanto ridotti al minimo, i nostri bagagli pesano fra i 15 ed i 20 chili, siamo in sette, oltre alle guide, ed al cuoco.
Tesfay, la guida, ci assicura però che i muli sarebbero arrivati comunque durante la notte.
Fatto il campo, si va al mercato dove un gruppo di donne Dizi, ma anche Tishena e Zilmano, vendono qualche papaia, qualche arancia un po’ di verdure e poco altro.
Chi vuole, facendo circa un chilometro, può andare al fiume e bagnarsi, soprattutto lavarsi, nelle sue acque.
Dopo aver cenato con una ottima zuppa calda, fatta dal cuoco a cui attribuiremo sul campo le 4 stelle, si va in tenda a dormire sotto una stupenda luna piena.
Viene fissata la partenza per il trekking alle 7, dopo aver fatto colazione alle 6,30.
Si cerca così di ridurre al minimo le ore di esposizione al sole, che, come nei giorni scorsi, raggiunge temperature di 40° all’ombra.
Il giorno dopo, al contrario di ciò che ci aveva assicurato la guida, i muli non ci sono: sembra che siano in viaggio e che ci raggiungeranno presto.
Li aspettiamo fino alle nove ma, trattandosi di un trasferimento che si preannuncia faticoso, preferiamo partire, lasciando lì la guida, il cuoco e tutti i bagagli che, invece, ci raggiungeranno a Maji, destinazione del nostro viaggio di trasferimento, all’arrivo dei muli.
Si affiancano a noi due ragazzi Dizi che conoscono la zona come le loro tasche, uno dei quali parla anche la lingua Surma.
Oggi percorreremo circa 26 Km superando un dislivello di 1.000 metri, passando da 1.250 a 2.340 metri.
Dopo un paio di ore di marcia siamo raggiunti dalla guida che, finalmente, ci dice che, purtroppo, i muli, per quella giornata non saranno disponibili.
Proteste, urla, minacce, ultimatum: ormai la fiducia in Tesfay è ridotta a poco più di zero. Cerca di rassicurarci dicendo che tutto sarà trasportato all’arrivo da portatori che lui stesso, ritornando a TUM, avrebbe provveduto a reclutare.
Proseguiamo nella nostra marcia che diventa sempre più faticosa, sia per il sole sempre più caldo, sia per le pendenze sempre più ripide.
In compenso la natura che stiamo attraversando esplode in forme, colori e suoni che ci ripagano abbondantemente.
Il verde in tutte le sue sfumature è interrotto dalla sottile striscia color mattone che identifica precariamente il sentiero che stiamo percorrendo; in cima ad un dislivello, la foresta si allarga per schiudersi in un’ampia radura delimitata all’orizzonte dalla foresta che la circonda: sembra essere, quella, la tavolozza da cui la natura ha attinto le tonalità infinite del suo colore verde.
Di tanto in tanto, si intravedono, impaurite, scimmie colobi e famiglie di babbuini Anubis, che si rifugiano sui più alti rami degli alberi circostanti.
Verso mezzogiorno, ormai in quota, una nuvola offusca il sole.
Ora che il cielo è completamente coperto di nubi si va molto meglio e si soffre meno il caldo; l’aria è però impregnata di una forte umidità, che di lì a poco si scaricherà in un fitto acquazzone che dura qualche minuto.
Ci ripariamo alla meglio sotto un albero, aspettiamo che spiova e, rinfrescatici, ripartiamo.
Ora la marcia diventa più difficile per le pozzanghere e per il fango viscido.
Verso l’una ci fermiamo per una veloce colazione a base di pane e formaggini e soprattutto arance o pompelmi, che sono gli alimenti che si fanno apprezzare di più per vincere la sete, dato che l’acqua delle borracce è ormai imbevibile.
Un violento scroscio di acqua ci costringe al riparo sotto le piante.
Questa volta però le piante, per quanto grandi, non bastano a proteggerci e la pioggia non accenna a smettere.
Imbocchiamo di corsa un viottolo nella speranza di trovare un riparo.
In un tucul una famiglia Dizi si ripara dalla pioggia scrosciante ed a loro chiediamo ospitalità.
Ci fanno entrare, per chi ha voglia di entrare; offrono il riparo esterno della paglia del tetto a chi non vuole e preferisce restare all’esterno.
L’interno, in cui in quattro si entra, è buio ed impregnato dal fumo sviluppato dalla brace che lo scalda.
Poco alla volta la vista si abitua ed i contorni di persone e cose si delineano meglio.
Ha pianta circolare rotta da due lobi contrapposti: in uno, separato da una staccionata dal resto dell’abitazione, una mucca che rumina con il suo vitellino, mentre nella posizione opposta, nell’altra protuberanza che fuoriesce dalla circonferenza, è sistemata la zona che di notte occupano i padroni di casa per dormire.
Al centro il fuoco sempre acceso, qualche panchetto per sedercisi, alcune pentole di terracotta annerite dal fumo, un paio di galline.
All’interno bisogna stare seduti o comunque piegati, dato che il soffitto alto circa un metro e mezzo è costituito da un piano fatto di rami usato per stivare nella parte posteriore le provviste della famiglia.
Impossibilitati a comunicare, ci guardiamo, accenniamo a qualche sorriso che i padroni di casa, marito e moglie, a cui si aggiungerà più tardi una donna anziana, ricambiano.
Dopo circa un quarto d’ora lo scroscio dell’acqua cala d’intensità per lasciar gradatamente spazio al sereno.
Offriamo alcuni birr (4) per ripagarli dell’ospitalità e ritorniamo al sole che si sta scrollando di dosso le ultime nuvole.
Ora, abbattuta dalla calura che l’aveva avvampata nelle ore precedenti, l’aria è più tersa ma anche più umida.
Si riprende il cammino cercando di non scivolare sul fango viscido e finalmente, fatta l’ultima rampa, ci ritroviamo a Maji.
La stanchezza si fa sentire e, nonostante in quella cittadina sia in corso una festa con balli in piazza, la prima cosa che si cerca è un posto dove si possa bere una birra o un thé caldo.
Rinfrancati dalla fatica, si esce e ci si mescola alla gente in festa.
L’area di Maji storicamente ha sempre rappresentato la frontiera fra i domini coloniali inglesi ed il libero impero etiope.
La zona fu conquistata ed annessa all’Etiopia da MENELIK II nel 1899-1900 e, nonostante siano passati cento anni, è ancora ai margini politici ed economici del Paese.
Non esistono strade e solo ora se ne sta costruendo una.
Non esistono banche, né telefoni, né mezzi di trasporto, se non i muli. A 5/6 ore di cammino, a TUM, un campo erboso, quello su cui nella notte abbiamo fatto il campo, usato come campo di atterraggio per piccoli aerei, costituisce l’unico legame con il mondo circostante.
In quel campo, fino a qualche tempo fa, gli aerei atterravano tre volte la settimana, ora, invece, ne atterra solo uno, il venerdì.
E’ considerata “zona di esilio” dagli Etiopi e zona di frontiera, dove è ancora impunemente praticato l’abigeato, il contrabbando di avorio e di oro, trovato dai cercatori nei corsi d’acqua circostanti.
Maji è la terra dei DIZI, una etnia formata da 22.000 ( 21.894 nel 1998 ) individui che fra i nomi alternativi vengono pure identificati come MAJI, DIZI-MAJI, oltre a SIZI e TWOYU.
Sono coltivatori sedentari, di lingua Omotica, che occupano un territorio contiguo a quello dei SURI: vicinanza che li costringe, contro la loro natura pacifica, a doversi difendere dai più aggressivi vicini.
Noi arriviamo nel corso di una festa che coinvolge l’intera popolazione: ragazze e ragazzi, in gonna e pantaloni, ballano affiancati all’interno di un cerchio di folla che, battendo le mani, cantando e battendo due pezzi di legno fra loro, ritmano la danza.
Di tanto in tanto uno della folla entra nel cerchio e sembra voglia scompaginare le coppie già formate, ma queste resistono unite per continuare a ballare.
Ci spiegano che il ballo altro non è che una metafora della vita in cui le circostanze o gli stessi spiriti cattivi cercano di dividere le coppie formate, alcune volte anche riuscendoci.
Dopo un paio d’ore vedo passare, sulle spalle di un portatore che attraversa la folla quasi di corsa, il mio zaino.
Lo seguo, cercando di tenergli il passo, scendendo una valletta ed inerpicandomi su di una salitella dove, arrivato in cima, il mio portatore lo ha lasciato cadere con aria di sollievo: è il primo dei nostri bagagli che, incredibile ma vero, portati a spalla, stanno arrivando da Tum.
Nel giro di un’ora è tutto lì, zaini, casse, materassini e tende.
Questa notte dormiremo per terra, visto che i materassini sono completamente imbevuti dell’acqua che, come noi, aveva sorpreso durante la salita anche i portatori. Gli ultimi lampi di sole non saranno infatti sufficienti per asciugarli.
La zona è malarica per cui, al calar del sole, occorre coprirsi il più possibile: il fatto di avere i nostri zaini con dentro l’occorrente per contrastare le zanzare è cosa che ci tranquillizza.
In ogni caso, tirate su le tende, mangiata l’ottima zuppa preparata dal nostro cuoco, si va in tenda a cercare il riposo, guadagnato in una giornata che è stata faticosa ma, consideriamo, meno del previsto.
Domani si entrerà nella parte del viaggio più interessante, sia per chi lo ha affrontato con interessi maggiormente rivolti all’etnologia, sia per chi ha interessi maggiormente rivolti alla fotografia.
A tal proposito, forse, può essere utile sottolineare che viaggi di questo genere se alla loro base non hanno solide motivazioni, rischiano di trasformarsi, per chi si avventuri a farli, in un calvario a cui non si vede l’ora di porre la parola fine.
Queste popolazioni africane sono ancora fra le non molte che hanno cercato di mantenere il più possibile integri i loro costumi e che, data la loro ubicazione geografica, non sono stati ancora raggiunti dal turismo “africano” di massa.
La mancanza di strade di accesso li ha, finora, preservati dall’essere considerati degli esseri da giardino zoologico; anche lì però le cose stanno cambiando: la strada che mancava è in costruzione.
Non ci sono sembrati particolarmente infelici per il loro isolamento, né particolarmente desiderosi di essere raggiunti dalla nostra cultura: basta ed avanza quella che vorrebbero lì portare i missionari.
Fra i due gruppi che si incontravano, e cioè il nostro ed il loro, ci è sembrato che quello più pittoresco da fotografare fosse probabilmente proprio il nostro.
Il 29 dicembre si riparte, dopo aver smontato il campo, con destinazione Adikas. La tappa odierna si prevede meno faticosa di quella di ieri: si scenderà da 2.340 a 1.920 metri con una tappa di circa 8/9 ore di cammino.
I muli dovrebbero arrivare a Maji in giornata e, per un’altra strada, raggiungere Adikas prima di noi: continua a rassicurarci Tesfay.
Ci raccomandiamo alla guida, ancora una volta accordandogli ostinatamente la nostra fiducia, che, arrivando ad Adikas, che è poco più di un posto di polizia una scuola e quattro capanne, ci faccia trovare del thé caldo o caffè, che ci ristorino delle fatiche del trasferimento.
I paesaggi sono gli stessi, meravigliosi, di ieri, ma la minor fatica del trasferimento ce li fa maggiormente apprezzare. E’ i questo tragitto che la foresta, divenuta più rarefatta, si trasforma in savana.
Adikas è un vero e proprio posto di frontiera, fra i Dizi ed i Surma, e la polizia locale è posta dal potere di Addis Ababa a presidio del territorio allo scopo di prevenire le incursioni dei Surma contro il bestiame dei Dizi.
I Surma che passano di qui vengono infatti fermati dai poliziotti, controllati ed interrogati sulle loro intenzioni.
Si arriva sul posto alle cinque del pomeriggio ma, sia dei muli che della guida, neanche l’ombra. La cosa incomincia a preoccuparci dato che alle 6 il sole tramonta e le riserve di acqua sono ormai esaurite.
Troviamo i pochi locali che si riposano delle fatiche della giornata e ci uniamo a loro per stenderci e, riposandoci, prendere così l’ultimo sole della giornata.
I muli arriveranno, finalmente, poco prima dell’imbrunire: in tempo cioè per scaricarli, preparare il campo, cenare e prepararsi per la notte.
Sono una dozzina e sufficienti per portare tutto il carico.
Vederli arrivare ci rende euforici; inizia ora la parte più interessante del viaggio e non averli ci avrebbe certamente creato grossi problemi di trasferimento, al punto da costringerci a dover rinunciare a proseguire il nostro viaggio.
Si parte la mattina del 30 per Kibish, che è il primo villaggio SURMA.
Ci fermeremo lì un paio di giorni e costituirà la base di partenza per visitare altri villaggi.
Arriviamo lì verso le cinque del pomeriggio.
Prendiamo “possesso” del campo assegnatoci, ci ristoriamo, chi con un thé caldo, chi con un caffè, chi con delle arance e, quindi, si va a visitare il mercato che, arrivando, abbiamo visto sul bordo della strada di accesso al villaggio.
Un po’ più grande di quello di TUM, è animato da donne che vendono birra di sorgo, papaie, miglio e poco altro.
In questa zona i mercati assolvono alla funzione di punto di smistamento delle informazioni, che la gente qui si scambia, su ciò che sta accadendo nei dintorni.
Più tardi, chi vorrà, potrà recarsi al fiume a bagnarsi.
Siamo fra i Surma: è arrivato il momento di conoscerli più da vicino (5). E’ stato proprio questo lo scopo che ci ha spinto a intraprendere questo viaggio.
Il sud-ovest etiope è popolato da diverse e differenti etno-culture, composte da popolazioni fra circa 25.000 e 65.000 individui. Fra essi i linguaggi parlati sono all’incirca una dozzina.
La cartina identifica sia la zona di cui stiamo parlando, sia le popolazioni che in essa sono insediate.
I SURMA o SURI costituiscono una popolazione attualmente di 20.600 individui (censimento del 1998).
Vengono identificati come SURMA, ma anche come SHURI, CHURI, DHURI, SHURO, EASTERN SURI.
D’ora in avanti, per rispetto al nome con cui loro stessi preferiscono identificarsi, li chiameremo SURI, essendo Surma il nome attribuito loro dagli Etiopi.
I dialetti parlati, di origine nilo-sahariana, sono il TIRMA (TIRIMA, TEREMA, TERNA, DIRMA, CIRMA, TIRMAGA, TIRMAGI, TID) ed il CHAI (CAI, CACI). Tali lingue, peraltro, identificano anche i due gruppi in cui si suddivide la cultura SURI.
La loro STRUTTURA SOCIALE è suddivisa per classi di età e, all’interno di esse, è una società assolutamente egualitaria ed omogenea.
Tale struttura, soprattutto fra i maschi, è determinante ai fini della considerazione sociale.
E’ importante considerare che, pur essendo basata su una simile struttura, non esiste all’interno di quella società un segmento che ricopra il ruolo di “organizzazione militare”: i giovani (TE’GAY), utilizzati soprattutto per accudire i greggi e per la difesa, non sono cioè, all’interno di quella società, considerati “guerrieri”.
Come i MURSI, i SURI hanno 3 leaders o mediatori, capi rituali o sacerdoti (KOMORU), che, pur avendo autorità morale e funzione di intermediazione fra di loro e fra loro e la divinità, non hanno alcun potere esecutivo o di imporre sanzioni mentre la loro funzione si trasmette ereditariamente di padre in figlio.
Per darci l’idea di quanto egualitaristica fosse la società SURI, il pastore protestante che abbiamo incontrato a Tulgit ci diceva che, per esemplificare, nessuno dei presenti, in una assemblea in cui tutti fossero seduti, penserebbe di alzarsi e di cedere il posto all’arrivo di un leader del gruppo.
Secondo un sociologo tedesco, i SURI non avrebbero alcuna religione, in realtà la loro è una religione animistica ed il loro dio è il cielo.
Lo si deduce da come trattano sia la morte che la malattia. La sepoltura avviene laddove l’individuo è morto, non esistono cioè luoghi deputati a riceverne le spoglie, ma la loro testa deve essere rivolta verso l’est, da cui credono di provenire.
Un fulmine, lanciato dal dio CIELO, è un suo segno di malevolenza nei loro confronti, cosicché il campo in cui questo è caduto dovrà essere purificato.
Per fare ciò, si preparano dei sacrifici.
Si accenderà quindi un fuoco e sarà un segno della ritrovata benevolenza del dio il fatto che il fumo salga verticalmente.
In caso di omicidio, le vendette fra le due famiglie cesseranno solo quando uno dei membri di una delle due avrà sposato un componente dell’altra famiglia.
Si procederà allora con un sacrificio di purificazione: si sgozzerà una pecora che sarà stata messa sulle spalle dell’omicida: ciò allo scopo di sostituire con il sangue buono dell’animale, che scorrerà sul suo corpo, il sangue cattivo dell’uomo che ha ucciso il suo simile.
Sono patrilineari, come i vicini DIZI, ed anche l’insediamento è di tipo patrilocale. Ciascun villaggio, ci diceva sempre il missionario protestante, altro non è che una grande famiglia allargata.
I villaggi sono infatti formati da membri di diversi clan, che si trovano quindi ad essere riuniti per esogamia, per effetto, cioè, di scambi matrimoniali.
La donna, con il matrimonio, viene assorbita dal clan del marito, pur non perdendo l’appartenenza al proprio clan.
In caso di morte del marito ne sposa il fratello.
Poligamici, con un numero massimo di mogli che arriva fino a sette, le loro unioni sono peraltro molto stabili, con un numero di divorzi che si aggira intorno al 5%.
Fra Suri e Dizi esistono scambi, anche matrimoniali, ma una Dizi, in genere, tende a non sposare un Suri, da cui si sente culturalmente molto lontana.
Le donne Suri sono madri affettuose e buone organizzatrici della vita dei loro villaggi, oltre che detentrici del Know-how per la produzione per la comunità della birra di sorgo, che vendono e bevono dappertutto.
La diffusione delle armi fra la popolazione sta portando all’uccisione di molti uomini, cosicché l’uomo si trova caricato di più mogli: questo però non è segno di ricchezza, si sta cioè venendo creando all’interno di quella società una forma di prostituzione a cui le donne sono spinte per trovare un mezzo di sopravvivere.
La ragazza SURI, come la MURSI, dopo aver eliminato i quattro incisivi inferiori, all’età di 15/16 anni usa tagliare il labbro, che verrà via via allargato introducendovi piattelli sempre più grandi: è quindi un segno di passaggio alla maggiore età.
Circa le motivazioni che la spingono a farlo se ne danno almeno tre.
La prima la si fa risalire al periodo della schiavitù.
Le donne, si dice, si imbruttivano per essere scartate dai mercanti che ricercavano donne giovani da avviare al lavoro coatto.
L’obbiezione che viene mossa a questa teoria è che non si vede perché oggigiorno le donne debbano continuare in questa pratica.
La seconda, invece, ne dà una motivazione opposta: i SURI ed i MURSI ritengono che quel labbro così visibilmente deformato costituisca un motivo di fascino che abbellisce più che imbruttire. Un po’ come le donne-giraffa o le nostre donne siliconate.
L’ultima motivazione, invece, fa riferimento alla fertilità femminile.
Un grande piattello sta ad indicare una maggiore elasticità della pelle e, quindi, una maggiore fertilità della donna che riesce a portarlo. Più grande è il piattello, infatti, più figli genererà e maggiore sarà quindi il prezzo che il futuro sposo dovrà sborsare alla sua famiglia per averla.
Sta di fatto che nessuno ha saputo darci una spiegazione convincente.
Gli uomini, invece, usano allargare i lobi delle orecchie per infilarci dentro, a mo’ di ornamento, dei manufatti in terracotta a forma, grosso modo, di tappi di champagne.
Come in molte altre popolazioni del sud dell’Etiopia, sia gli uomini che le donne decorano il corpo con profonde scarificazioni.
Le donne in particolare hanno il ventre interamente attraversato orizzontalmente da due serie parallele di ferite puntiformi rilevate a forma di cintura, ognuna delle quali è formata da tre file parallele di ferite inferte a uguale distanza l’una dall’altra. Un’altra serie di ferite, della stessa forma e disegno, attraversa verticalmente lo sterno a congiungere le scarificazioni precedenti.
Le scarificazioni degli uomini, invece, a forma di ferro di cavallo, stanno ad indicare che chi se ne adorna ha ucciso almeno una volta.
Sono dispersi in circa 45 villaggi, abbastanza compatti, aventi una dimensione massima di 2.500/3.000 individui e dislocati fra i 1.000 ed i 1.200 metri di altitudine. La loro è una zona fertile ma soggetta a siccità, l’ultima delle quali risale al 1997.
Sono allevatori di bovini e coltivatori saltuari.
Il loro bestiame pascola nelle terre basse, sotto i 1.000 di altezza a distanza di circa 1 giorno di cammino dal villaggio di insediamento.
I pascoli sono organizzati in “unità aggregate” (b’uran), essendo sfruttati da bestiami provenienti da diversi clan e villaggi, vicini fra di loro.
Ciascun capofamiglia ha da 40 a 60 capi di bestiame. Anche le donne possono possedere propri capi di bestiame che però vengono condotti al pascolo dall’uomo della famiglia.
Ciò che caratterizza il popolo SURI è la grande lealtà e, a differenza delle vicine popolazioni, una spiccata aggressività, che li spinge a continui conflitti con i vicini NYANGATOM, TOPOSA ed ANUAK, per le razzie di bestiame che perpetrano ai danni di queste popolazioni.
Nell’ultima decade si è visto un incremento dei conflitti, in particolare con la comunità DIZI.
Fra Dizi e Suri esiste una grande rivalità che deriva, anche e soprattutto, da culture profondamente diverse
I Suri accusano i Dizi di essere troppo sedentari, di avere villaggi sporchi di fango e di non avere bestiame, mentre i Dizi, a loro volta, considerano i Suri incivili, incolti ed assassini.
L’altra ragione di ostilità fra le due popolazioni va ricercata nell’espansione dei NYANGAYOM e dei TOPOSA nei territori SURI cosicché i SURI si sono riversati, risalendo la montagna, nei territori DIZI: ciò ha aumentato le occasioni di conflitto, che peraltro già preesistevano fra le due popolazioni.
I due gruppi, che pure sono costretti a convivere negli stessi territori, hanno però posto in essere dei meccanismi sociali di compensazione che sono finalizzati a scongiurare che i conflitti deflagrino in situazioni non più controllabili.
Il rituale della pioggia, di seguito descritto, è uno di questi.
I DIZI discendono da antiche popolazioni di agricoltori che, in passato, erano tre volte più numerosi di quanto non siano oggi, decimati dalle malattie e dalla schiavitù.
Sono gli abitatori più antichi della regione, mentre i SURI vi sono arrivati circa 200 anni fa e, pur vivendo vicini, i loro ambienti, in quanto dislocati ad altitudini diverse, sono differenti per temperatura, vegetazione.
I Dizi sono un popolo di agricoltori che coltiva mais, sorgo, legumi, spezie e caffè, e solo marginalmente coltivatori, mentre i Suri, come abbiamo già detto, sono un popolo di allevatori e solo marginalmente agricoltori
Vivendo sulle montagne sovrastanti i territori SURI, i DIZI sono riconosciuti dai loro “condomini del piano di sotto” come i “maestri della pioggia”.
Fra i due gruppi esiste un accordo rituale finalizzato ad impetrare la pioggia, cosicché periodicamente i capi SURI si recano dai tre maggiori capi DIZI per sacrificare congiuntamente un toro nero, una capra dello stesso colore e, dopo essersi cosparso il corpo delle interiora degli animali, elevare insieme preghiere al Dio del Cielo.
Un altro meccanismo di compensazione sociale viene praticato allorché, essendosi accumulate violenze fra i due gruppi, la pace fra gli stessi potrebbe essere in pericolo.
Viene allora organizzata una cerimonia di riconciliazione che dura da due a tre giorni e che è caratterizzata da regole che, tutte, dovranno essere rigorosamente rispettate e che prevede:
L’eccidio rituale di due o più buoi;
Il lavaggio rituale dei capi delle due comunità con il loro sangue;
Dopo aver raccolto il sangue degli animali nel peritoneo di uno di essi, questo viene bevuto;
Reciprocamente i due gruppi si scambiano rassicurazioni verbali sul futuro, mentre si lavano le mani, nella sostanza verde, grasso e piante, trovata nello stomaco degli animali;
Vengono infine distribuite fra i componenti dei due gruppi le strisce pulite di peritoneo degli animali che con esso si cingono il collo.
Questa cerimonia di riconciliazione non è però vista come la fine di ogni violenza ma solo come l’inizio di una nuova stagione che ha sanato il passato.
Questi riti sono svolti in appositi spazi recintati e suddivisi in due parti: uno che verrà occupato dai leaders delle comunità e l’altro che verrà occupato dagli appartenenti alle stesse.
Il problema della violenza fra i due gruppi è stato al centro dell’attenzione del Governo centrale sin dai tempi di Menelik.
Un progetto di pacificazione fu tentato negli anni ’80 dal governo marxista di Menghistu in nome di una superiore ideologia comunista, ma questo tentativo non sortì alcun effetto.
Infine l’attuale regime ha inutilmente tentato la via del federalismo, imponendo un rappresentante in loco del governo, allo scopo di superare la lontananza che divide quei territori dal potere centrale.
E’ questa lontananza che ha sempre reso difficile l’attuazione del programmi di pacificazione ed anche oggi i problemi non sembrano essere stati ancora superati.
Si aggiunga che la guerra civile in Sudan, che dura ormai da oltre 15 anni, ha fatto entrare fra i SURI un gran numero di fucili semiautomatici che hanno portato ad un intensificarsi degli atti violenti ed una conseguente de-ritualizzazione della violenza stessa, con un affievolirsi dei meccanismi di mediazione svolti dagli scontri ritualizzati.
Oggi, come ieri, i SURI, a differenza dei DIZI, si sentono ancora indipendenti, respingendo un modello di vita più sedentario, che è invece proprio dei DIZI e degli altri popoli circostanti.
Lo Stato, che riesce ad imporre la sua autorità, anche fiscale, sui DIZI, nulla può nei confronti dei SURI, cosicché questi ultimi, attaccando i primi, attaccano indirettamente anche lo Stato, che si difende con posti di blocco e perquisizioni.
La diffusione delle armi, con il conseguente rafforzamento dell’uso strumentale della violenza, è così diventato un nuovo strumento di elevazione sociale, facendo crescere il prestigio di chi compie imprese a favore della propria gente.
Insomma, mentre prima era la caccia agli animali della foresta l’occasione che portava ad una crescita sociale, oggi sono i popoli vicini le vittime dei giovani SURI.
Si è già detto dell’affievolirsi dei meccanismi di mediazione degli scontri ritualizzati.
Fra i SURI la manifestazione organizzata con lo scopo di ritualizzare la violenza è la SAGINE.
Una manifestazione simile è presente in molte culture africane ma anche asiatiche; in Etiopia è presente anche fra i Mursi ma, questa dei SURI, presenta aspetti rilevanti di spettacolarità, oltre che per essere svolta in un numero maggiore di volte nel corso dell’anno.
E’ infatti organizzata da due a tre volte all’anno per periodi che durano da tre a sei settimane per volta.
E’ un’occasione “mondana” a cui la popolazione partecipa in numero rilevante ed l’occasione per sfoggiare ricche pitture corporali, collane e decorazioni varie.
Che cosa è la Sagine?
Non è una manifestazione di iniziazione rituale; non è organizzata per motivi specifici o, come fra i Samburu del Kenya, per risolvere specifici conflitti.
Le Sagine sono piuttosto duelli atletici che si tengono in periodi durante i quali i giovani sono meno impegnati nei loro lavori e, quindi, più freschi.
I duellanti sono giovani della classe di età Tegay (non sposati) provenienti da diversi villaggi. Mai si scontreranno due giovani dello stesso villaggio, mentre potranno scontrarsi se dello stesso clan ma di differenti territori.
Il periodo, di pochi mesi, incomincia a novembre, subito dopo la raccolta del sorgo e del mais, quando il raccolto è abbondante e non è richiesto quindi molto lavoro nei campi.
E’ inoltre necessario che il bestiame abbia sufficiente pascolo perché possa stanziarsi in quel posto per le successive cinque o sei settimane, durante le quali i giovani combattono.
Duelli minori, vengono poi organizzati dopo le semine di aprile e maggio.
La SAGINE è fatta con bastoni (DONGA) di legno duro della lunghezza da 210 a 240 centimetri e, durante il suo svolgimento, non è permesso l’uso di altre armi.
I combattenti entrano in gruppo, cantando, nello spazio adibito a terreno di scontro (GUL), adiacente al villaggio ospitante, mentre gli spettatori che si sono portato cibo e birra di sorgo, si dispongono in buona posizione per assistere al duello.
I duelli sono supervisionati e controllati dagli “ODDA” che sono sempre uomini anziani sposati.
Il duello ha un rigido regolamento che detta norme su come maneggiare le aste: mai devono essere usate di punta, la parte intagliata deve essere sempre quella superiore, mai quella inferiore; sulla lunghezza degli incontri oltre che sull’abbinamento dei contendenti.
Sono vietati i duelli fra contendenti che già si sono scontrati una volta.
L’incontro viene sospeso quando uno dei due duellanti è atterrato dall’altro o quando uno dei due è manifestamente inferiore all’altro.
Sono ricorrenti fratture e ferite lacero-contuse ma è assolutamente vietato uccidere l’avversario.
Qualora ciò dovesse accadere i duelli vengono sospesi e viene posto in essere il meccanismo di compensazione dell’omicidio.
Un omicidio, infatti, rompe il rituale della SAGINE ed altera i rapporti fra le due famiglie, che restano disturbati fino a che fra le stesse non avviene la riconciliazione.
In ciascun giorno di duello, avvengono dozzine di scontri di pochi minuti, ma sono duelli secondari e di nessuna importanza.
Si arriva quindi al culmine della manifestazione allorché si sono formati quattro gruppi in lotta, di differenti “b’urans” (Come si è già detto i b’urans sono le unità aggregate di pascolo, che raccolgono popolazioni di villaggi vicini), e, per eliminatorie successive si arriva agli ultimi due contendenti, da cui uscirà il vincitore.
Durante i duelli, le ragazze da marito annotano i risultati e di questi informano i “supporters” della fazioni in lotta.
Il vincitore del giorno è portato in trionfo dai suoi tifosi, issato su una piattaforma in legno e portato alle ragazze degli altri b’urans, in particolare a quelle appartenenti al villaggio organizzatore, che valutano, oltre i meriti, anche le attrattive del vincitore e del suo partito. In definitiva, insomma, sono loro che scelgono se appartarsi o meno con i vincitori, e non viceversa.
Per meglio comprendere questa manifestazione, occorre considerare:
- è una occasione competitiva riservata ai villaggi SURI ed agli estranei, salvo rare eccezioni, non è dato competere;
- gli scontri sono individuali e non di gruppo;
- a differenza dei Samburu, gli scontri non hanno la funzione di dirimere conflitti o questioni di amore;
- è una lotta fra pari di età a cui tutti, entro i 20 anni, devono aver partecipato almeno qualche volta;
- è l’occasione, socialmente accettata, offerta ai giovani di dimostrare la propria virilità ed il loro vigore, alla presenza e dei maschi più anziani e delle future potenziali compagne, le donne, infatti, sono sempre massicciamente presenti in queste occasioni. E’, infatti questo il mezzo più rilevante offerto al giovane maschio di attrarre su di sé l’attenzione delle giovani donne.
- i duelli, socialmente ammessi, formano psicologicamente il ragazzo ad accettare la violenza, con le conseguenti inevitabili ferite, e li preparano ad affrontare gli scontri che li vedranno contrapposti ai popoli vicini ed al bestiame che dovranno curare e proteggere.
Questa manifestazione è ciò che fa sentire diversi e superiori i SURI nei confronti degli altri popoli e che, all’interno del proprio, dà prestigio.
Una teoria neo-darwinista sostiene la connessione diretta fra i pubblici combattenti ed i vantaggi che derivano ai vincitori, rispetto ai perdenti, nei confronti dell’altro sesso, il che favorirebbe una maggiore riproduzione della specie.
Un’indagine svolta sul campo da Abbink ha però dimostrato che il solo essere vincitore in duello non è sufficiente ed occorre avere altre doti, come il saper parlare in pubblico o l’essere capaci di fornire affidabili divinazioni.
L’attrazione del momento verso il vincitore, cioè, in realtà è legata ad un momento, quello dello scontro, ma ciò che spinge più donne a sposare lo stesso uomo è invece la sua capacità di ripartire il bestiame fra tutti i propri figli o di impartire agli stessi una buona educazione e, quindi, la capacità di trasmettere agli stessi, le sue conoscenze.
Certo che da giovani la Sagine è ciò che attrae le ragazze, ma in età di matrimoni, l’essere stati buoni combattenti non è più sufficiente.
In conclusione, la Sagine è contraddistinta da due fondamentali funzioni:
- costituisce un mezzo per dimostrare pubblicamente le proprie capacità e ciò, come ovunque, è uno dei tanti elementi di attrazione sessuale e, quindi, in correlazione diretta con la riproduzione;
- è un mezzo di “costruzione” della società fra i giovani SURI, indipendentemente dalla loro dislocazione geografica, che li porta poi a differenziarsi e contraddistinguersi dai non-SURI.
Oggi è il 31 dicembre, è l’ultimo giorno del 2001.
Ci apprestiamo a festeggiarlo con un panettone, uno zampone ed un residuo di grappa che avevamo gelosamente conservato per l’occasione.
Si stabilisce di far coincidere il passaggio dell’anno alle ore 21, ma la stanchezza, che ci spinge con forza verso la tenda, ci consiglia di anticipare i festeggiamenti di un quarto d’ora.
Scambiatici gli auguri di buon anno, alle nove si è tutti stesi in tenda: domani alle sette, puntuali, si parte per Tulgit, altro villaggio Suri, sulla via, ormai, del ritorno.
Si arriva a Tulgit alle tre del pomeriggio sotto un sole che porta la temperatura ad oltre 40°.
Non si vede l’ora di trovare un po’ d’ombra sotto cui stendersi e riposarsi.
Trovare, invece, una casa accogliente, con acqua corrente sotto cui fare una fresca doccia, delle panche comode e della papaia condita abbondantemente da succo di lime è un miraggio che si concretizza e che non ci facciamo certo sfuggire.
Siamo capitati in una missione retta da un pastore protestante americano, che qui vive con la sua famiglia, e di cui fanno parte pure una signora tedesca ed una famiglia etiope, quella che ci sta ospitando.
Canalizzata l’acqua del fiume, hanno una fonte esauribile di acqua che, vedendola perdersi così, ci sembra uno spreco imperdonabile.
Dopo esserci riposati, si decide di fare una visita al mercato del posto.
Piuttosto animato, anche se non grande, alcune donne, sedute per terra, offrono in vendita birra di sorgo, sementi e spezie multicolori.
Da una zucca riempita di acqua, a cui hanno applicato un cannello ed un fornello che hanno riempito di tabacco, aspirano dense boccate di fumo.
Alcuni giovani guerrieri, in disparte, chiacchierano fra di loro.
Sono sommariamente adornati da unico tessuto, drappeggiato su una spalla, che ricade sul davanti a cercare di coprire ostinatamente ma altrettanto inutilmente il loro sesso, che non ha invece alcuna voglia di farsi coprire, per poi risalire e drappeggiarsi con noncuranza sull’altra spalla.
E’ in realtà un ornamento, una civetteria, una galanteria, più che un abito, dato che loro, del senso del pudore, grazie anche alle loro temperature, non sanno proprio che farsene.
Alcune mamme, fra una chiacchiera e l’altra, lasciano che i loro figli, che si portano in un marsupio del vestito ed a stretto contatto del proprio corpo, si allattino, facendosi strizzare le mammelle fino a che non ne avranno cavato anche l’ultima goccia di latte e, dubitiamo, anche oltre.
Il rapporto fra madre e figlio, a quelle latitudini, è così intenso da far pensare che siano, l’una e l’altro, ancora una cosa sola, tenuti insieme ancora da un cordone che li tiene ancora stretti l’uno dall’altra. Sarà questa vicinanza fisica alla madre che fa si che non ci sia mai capitato di sentire un bimbo piangere o protestare.
Facciamo ritorno al villaggio e chiudiamo così anche questa giornata.
Domani 3 gennaio, la penultima tappa per Haro: tappa di trasferimento per arrivare a Tum, dove il 4 ci aspetta il piccolo aereo da 16/17 posti che ci porterà ad Addis, il luogo dove questo viaggio è iniziato.
Nicola Ferrulli
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Note
1) Unico fra i Paesi africani, l’antica monarchia Etiope mantenne la sua libertà in un continente colonializzato, fatta eccezione per la colonizzazione italiana fra il 1936 ed il 1941.
Nel 1974 una giunta militare, la Derg, depose l’Imperatore Haile SELASSIE (che governava dal 1930) ed instaurò uno stato socialista.
Il regime cadde nel 1991 per l’opposizione di una coalizione di forze ribelli, l’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF).
Nel 1994 fu adottata la carta costituzionale e nel 1995 furono indette le prime elezioni multipartitiche; attualmente è una Repubblica Federale divisa in 9 stati-regione su base etnica con diritto di secessione da esercitarsi tramite referendum e 2 Amministrazioni di auto-governo.
La guerra con l’Eritrea, durata due anni e mezzo, è terminata con un trattato di pace firmato il 12 Dicembre 2000, lasciando però la nazione con una economia estremamente impoverita.
I gruppi etnici presenti sono rappresentati dagli Oromo per il 40%, gli Amhara ed i Tigrini per il 32%, i Sidamo per il 9%, gli Shankella per il 6%, i Somali per il 6%, gli Afar per il 4%, i Gurage per il 2%, e gli altri per l’1%.
L’attuale capo dello stato, dal 22 agosto 1995, è NEGASSO Gidada.
Il Parlamento, di tipo bicamerale, è costituito dalla Camera delle Federazioni o camera alta, composta da 117 membri scelti dalle assemblee dei vari stati ed ha una durata di 5 anni e la Camera dei Rappresentanti del Popolo, o camera bassa, composta da 548 membri, direttamente eletti dal voto popolare espresso dai singoli distretti e dura, anch’essa, 5 anni.
Reddito pro capite annuo pari a US$ 600.
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Le fonti ufficiali indicano in 500.000 il numero dei rifugiati sudanesi sparsi nei territori limitrofi ma, essendo una stima di tre anni fa, non abbiamo difficoltà ad accreditare quanto ci è stato detto in loco.
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3) Questo termine, diffuso in tutta la zona per identificare gli europei o, più in generale, i bianchi potrebbe derivare o da french, francese in inglese o, come rileva Orizio a pag 37 del suo libro Tribù Bianche Perdute Ed. Laterza, dal termine persiano ” Finanghee ” o ” firangi “, temine che viene usato anche a Ceylon per indicare gli europei.
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4) E’ la moneta locale, 1 US$ è pari a 8,55 Birr.
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5) Di questo popolo fra i pochissimi etnologi che si sono occupati c’è l’olandese Jon G. Abbink dell’università di Leida, che ha fatto ricerche sul campo e da cui abbiamo attinto le informazioni riportate. In particolare consultando: Violence, ritual, and reproduction: culture and context in Surma dueling, in Ethnology 38:3 del 1999 e Violence and the crisis of conciliation: Suri, Dizi and the state in south.west Ethiopia in Africa 70:4 del 2000.