By Marino Zecchini
Originally Posted Thursday, November 29, 2007
DOUIRET
Giunsi in questo luogo per la prima volta nel 1986 e compresi subito di trovarmi in una delle cittadelle berbere tra le più rappresentative di tutta la regione degli ksur.
Questo antico villaggio appollaiato sulla falesia come una sorta di gigante, domina la valle dove l’alito dei Santi Marabutti spira e pervade ancora l’aria del posto.
Le numerose gubbet (casupole di marabuti) distribuite nel gigantesco cimitero ai piedi del monte creano una sorta di visione mistica, la cittadella sulla vetta staglia i suoi ruderi nel cielo intensamente blù, sui due versanti della falesia gli anfiteatri naturali dove si sviluppa l’antico villaggio sono come gironi danteschi. Douiret era nella storia il riferimento più importante della regione.
Le carovane provenienti dal Chad avevano scelto questa tappa perchè era il primo incontro con gente civile dopo essere rimasti tra le sabbie roventi del deserto per alcuni mesi. Douiret era ed è il centro da cui la piste si diramano verso Gabes, Douz e Kebilli e a est verso Beni barka e Tripoli. Punto chiave di rifornimento e di contatto con l’umanità. La lingua parlata tutt’oggi a Douirat è il berbero, il così detto jebelia (lingua della montagna), che, per gli specialisti è chiamato amazigh, cioè la medesima, se pur con qualche variazione della lingua touaregh.
Il Centro di accoglienza di Douirat
Una piccola parte delle rovine di Douirat sono risorte restaurate. Grazie all’alacre lavoro di un gruppo di volontari, una associazione sorta nel 1998 denominata: Association de Sauvegarde de la Nature et de Protection de l’environnement de Douirat.
Diretta da un uomo intelligente e lungimirante il mio amico Signor Casem , aiutato da un gruppo di volonterosi e la partecipazione di una Associazione italiana.
Con meravigliata curiosità osservo il lavoro eseguito e noto che nulla è lasciato al caso, la straordinaria istintività creativa degli antichi costruttori è totalmente riproposta. I colori, le linee, si fondono con l’ambiente naturale nell’aria purissima di un cielo dal colore intenso.
Le carovane che erano per la maggior parte dei casi condotte e popolate da mercanti tuaregh potevano intendersi e comunicare. Gli arrivi in questo centro di vasto interesse commerciale e culturale hanno portato nel corso dei secoli molti personaggi, tanto, che a Douiret la leggenda e la realtà si amalgamano, dando vita a miti che avviluppano la cultura degli abitanti rimasti. Gli undici piccoli mausolei distribuiti nel grande cimitero sottostante la cittadella sono solo alcune delle testimonianze storiche di uomini che hanno lasciato un indelebile ricordo, sono state nel passato le dimore di uomini provenienti da differenti luoghi del Sahara ed ognuno di loro ha impresso nella gente Duiri la propria storia, il messaggio da loro portato ha arricchito e caratterizzato la gente del villaggio sino ai nostri giorni.
Sulla parte ovest della cittadella, dove vi è un anfiteatro naturale in cui si snodano le abitazioni troglodite che seguono la montagna, è visibile incastonato tra alcuni ruderi un grande fico, la’ si trova una costruzione che dall’esterno può sembrare un piccolo ribat affiancato da una bassa torretta di pietre, questa è Jamaa el Karma, la moschea del fico. Una moschea di origine ibadita scavata molti secoli fa nel ventre della montagna, all’interno della moschea alcune colonne sorreggono la volta di pietra, in direzione della Kaba (Mecca) si trova il mihrab ricavato in una nicchia, sulla destra una porticina di legno chiude un piccolo antro dove sono collocati i libri sacri. All’esterno un rivolo accoglie le rare piogge convogliandole in una cisterna da cui è prelevabile acqua, vicino tre posti per le abluzioni e l’ingresso della torretta che è il minareto della moschea, le scale salgono a chiocciola e strette nel budello di passaggio, sulla cima una apertura permette di uscire all’esterno dove il muezzin chiama alla preghiera, da questa postazione il paesaggio è bello, di una dolcezza beatificante.
All’uscita del cortile sul lato sinistro si trova uno spazio adiacente ad uno dei sei frantoi per la produzione dell’olio presenti a Douirat, durante la stagione delle spremiture, un asinello viene legato alla trave di legno che spinge il perno con la macina sulla piattaforma di pietra, le olive piangono di dolore, e rilasciano lacrime di buonissimo olio che cola in un contenitore scavato nella roccia. Dopo alcuni metri una mulattiera sale zigzagando sulla montagna, verso la cima si vedono cristalli di quarzo che escono come diamanti dalle rocce, tutta la montagna è di cristallo, ovunque nicchie e pietre brillano ai raggi del sole, una miniera per il raccoglitore. Sulla vetta il paesaggio è sconvolgente, si ha l’impressionante sensazione di librarsi in volo, sul costone proprio a strapiombo della moschea del fico si è di fronte alla cittadella, da li’ è possibile abbracciare in un sol colpo un maestoso paesaggio. Proseguendo sull’altipiano si scopre un inatteso ambiente agricolo fatto di uliveti e di campi arati, nel mezzo una pista che porta a Chenini in tre ore di cammino.
Sull’altipiano, in direzione ovest ad un centinaio di metri dal termine della salita, si scorge una piccola costruzione di pietre, una nicchia in direzione di Mecca e due file di pietre tracciano una sorta di limite dell’area sacra, questa è la moschea a cielo aperto di Douirat, poco più avanti un altare sacrificale sui margini di un piccolo solco.
Questi due siti compongono insieme una rarissima testimonianza dell’Islam del passato, quando la moschea non era ancora una costruzione ma un tracciato a terra, un luogo per parlare attraverso la preghiera con Allah senza altra necessità che la terra ed il cielo.
In questo luogo si radunano tuttora gli abitanti di Douirat per le cerimonie di matrimoni e circoncisioni, arrivano numerosi a piedi e a cavallo di asinelli portando masserizie e cibo, si istallano dentro l’area sacra della mosche a cielo aperto per sancire l’accoglimento di nuove coppie all’interno della società, sull’altare di pietra sono sacrificati gli animali, prima a Dio, poi tutti insieme si cibano ringraziando in nome di Dio, Il Clemente, il Misericordioso (Bismillah er Rahamani er Rahimi).
Sulla altura che si trova verso la pista in direzione di Chenini a circa cinquecento metri dalla mosche a cielo aperto si osserva la cupoletta della gubba di Sidi Buhuna, uno dei numerosissimi Santi di Douiret. Viene spontanea l’idea che qui, la spiritualità permei tutto, l’aria purissima, le grotte che sono il ventre materno della terra, la durezza del clima, l’aridità del suolo, il quarzo di cui è costituita tutta la montagna, il silenzio e la solitudine sembra che formi nella mente degli uomini sensibili la possibilità di unirsi a Dio.
Riprendendo la mulattiera e dirigendosi verso la cittadella, la si raggiunge in dieci minuti di cammino. Questo è il monumento storico più importante costruito all’inizio dell’insediamento, un agglomerato di pietre, grotte e gorfa che hanno costituito il centro della vita sociale dei primordi. Molte delle costruzioni si presentano ancora in piedi, talune su tre piani altre catastroficamente cadute. Un camminamento semilabirintico conduce sino al centro dell’antico abitato. Sulla sinistra si aprono brecce su strapiombi da capogiro. Douirat era stata costruita in questo luogo ed in questo modo per permettere agli abitanti la difesa dagli attacchi delle bande arabe nel periodo seguente alla invasione delle tribù beduine dei Banu Hilel e dei Banu Selim, quando i rapporti tra mondo arabo e berbero era ancora conflittuale.
Dalla rupe il paesaggio è sconvolgente, ipnotico, sulla schifa (corridoi di accesso alle grotte) l’aria si carica d’ossigeno,qui si interiorizzano i pensieri, si ritorna al passato in cui il villaggio era vivo con il fermento di umanità di un tempo. Il gruppo, la tribù, il clan, e la famiglia erano i capisaldi di questa indipendente e nobile umanità. La cittadella, organizzata sulla base della città stato della antica Grecia, dove cultura, spiritualità, onore e lavoro si amalgamavano in un unico e collettivo obbiettivo.
Al centro vicino alla moschea l’antica “agora” del villaggio dove il consiglio degli anziani proponeva, giudicava ed elaborava nuove idee. Dove la vita politica sociale ed economica erano pervase da quello spirito universale e religioso tuttora percepibile. Io occidentale, io italiano ne sono completamente affascinato, stordito ed inebriato, nell’ossigeno della schifa mi perdo in una esaltata ammirazione per il luogo e la gente.