By Luciano Pieri
LIBIA 2005
DA BENGASI A JEBEL AWAINAT SULLE ORME DI LODOVICO DI CAPORIACCO
Lodovico di Caporiacco, invitato dal generale Graziani allora vicegovernatore della Cirenaica, a partecipare alla spedizione topografica “Capitano Marchesi” quale esperto scientifico, così descrive il suo viaggio per la Libia avvenuto dal 31 gennaio al 2 febbraio 1933:
“Il viaggio da Siracusa a Bengasi, a bordo di piroscafi piccoli e maltenuti, è tutt’altro che divertente, anche se fatto, come accadde a me, nelle migliori condizioni di mare.
E’ poi singolarmente disgustoso vedere capre e mucche ficcare il muso dal ponte nelle finestre di cabine di prima classe: quasi ogni piroscafo che dall’Italia si porti in Cirenaica, mi dissero, ha un consimile carico”.
Per noi, il 5 ottobre 2005, con un volo Swissair “Malpensa-Zurigo-Bengasi”, la cosa fu molto più veloce e più comoda, anche perchè Caporiacco, quando arrivò a Bengasi, trovando il mare agitato e non essendo ancora terminata la costruzione del porto, fu calato in una cesta dal piroscafo su di un motoscafo che lo portò a terra, con sua grande apprensione per gli strumenti scientifici che si era portato appresso.
Il nostro appuntamento con i mezzi fuoristrada Toyota fu ad Ajdabiya, dove perdemmo una mattinata, presso il posto di polizia, per avere sul passaporto un timbro triangolare senza il quale, sembra, sarebbe stato un grosso problema uscire dal paese a fine viaggio.
Attraverso una zona deturpata da campi petroliferi, finalmente iniziamo il viaggio arrivando nel vero deserto, pulito, senza esseri umani, ricco di dune colorate, prime propaggini del Grande Deserto Libico che dai serir del Tibesti si estende fino al Nilo.
Le dune sono alte, belle, color oro e ci invitano a salite e discese cariche di adrenalina.
La nostra prima destinazione è l’oasi di Jaghbub (Jarabub), situata a sud-est del nostro punto di partenza, ma per facilitare il percorso degli automezzi e l’attraversamento degli infiniti cordoni di dune che corrono da nord a sud, finiamo per ritrovarci a sud del nostro obiettivo.
Nel deserto niente è scontato e programmabile, i percorsi ed i tempi sono sempre indicativi ed a conferma di questo enunciato rompiamo subito un differenziale e tre ore se ne vanno nella riparazione.
E’ niente se si pensa alle ore che ci avrebbero addebitato in una officina in Italia.
Attraversiamo verso est un serir grigio e monotono poi, finalmente, eccoci in vista dell’oasi di Jarabub.
Quante storie su questo luogo che nella seconda guerra mondiale fu uno sperduto avamposto italiano: chi racconta di epiche battaglie contro le truppe assalitrici inglesi, chi racconta di un grosso bluff architettato dal regime.
Le mie modeste ricerche hanno dato un esito sempre favorevole alla versione di duri combattimenti costati molti morti da ambo le parti.
Vedendo apparire il cadente fortilizio italiano una piccola emozione si fa sentire, fuori dalle mura ci sono ancora a difesa, come allora, i fili spinati ed i cavalli di frisia e nel cortile c’é ancora, chiaramente leggibile, la frase “NEI SECOLI FEDELE” che i carabinieri scrissero in quei lontani giorni.
Attraversando camerate, alloggi ufficiali, mensa, cucina, troviamo una stanzetta molto enigmatica, sul pavimento decine di crani e ossa umane e sul muro, dipinta a carboncino, una figura di guerrigliero arabo. Non ho capito il suo significato.
A Jarabub c’è anche uno storico mausoleo con la tomba di Sayyed Muhammad ibn al-Sunusi, fondatore verso il 1840 della confraternita dei Senussi, e padre dell’altrettanto famoso Sidi Muhammad al-Mahadi al-Sanusi, chiamato IL SANTO, primo a rendere illustre l’ordine e sepolto in un mausoleo a El Kufra.
Il viaggio riprende verso sud, prima, attraverso magnifici corridoi sabbiosi fra alte dune color albicocca, poi, attraverso monotoni serir paralleli al 25° meridiano che delimita il confine fra Libia ed Egitto; l’oasi di Siwa, oltre il confine, è molto vicina.
Queste infinite pianure terminano davanti a due enormi colonne naturali chiamate “Bab el serir”, La porta del serir.
Da qui incominciano paleosuoli ricchi di manufatti litici: amigdale monofacciali vecchie di 3/400.000 anni, amigdale bifacciali, pestelli di vario tipo, macine, punte di lancia e di freccia, un vero paradiso per gli appassionati.
Il paesaggio è un giardino colorato dove gli alberi ed i fiori sono sostituiti dagli incredibili colori, delle rocce e delle sabbie, che passano dalle varie tonalità dei gialli, degli ocra e i bianchi, i neri, i rossi, fino al vinaccia e al blu.
La terra qui sfoggia tutto il suo splendore.
E ci ritroviamo sull’orlo della scarpata che delimita, a nord ed est, l’immensa conca dell’oasi di El Kufra, proprio nei pressi di el-Tag, punto strategico per il controllo della zona.
EL KUFRA, la misteriosa, l’irraggiungibile, dove il primo europeo che riuscì a metterci piede, dopo moltissime peripezie, fu Gerhard Rohlfs, il grande esploratore tedesco che arrivò nell’oasi settentrionale il primo agosto del 1879 e fu salvato all’ultimo momento dal fanatismo degli abitanti, da un intervento del gran Senusso.
Rohlfs si rese conto che el Kufra non era solo un’oasi come credevano fino ad allora in Europa, ma una enorme conca con sei oasi grandi e ricche di coltivazioni, grazie agli abbondanti pozzi d’acqua, da sempre abitate dalla popolazione dei Tebu e dai loro schiavi sudanesi.
Nella prima metà del 1800 arrivarono gli Zueia, invasori di origine araba che dettero poi origine alla Confraternita dei Senussi; rimasti padroni assoluti del territorio, schiavizzarono le popolazioni precedenti fino al 1931 quando furono cacciati, con duri combattimenti, dalle truppe italiane sotto il comando del generale Graziani.
Dalla visita di Rohlfs all’arrivo degli italiani, l’unico esploratore che era riuscito ad avere il permesso di accesso a el Kufra, fu il principe egiziano Hassanein Bey che, nel 1921, arrivò accompagnato dalla scrittrice inglese Rosita Forbes travestita da araba.
Hassanein Bey, con le sue esplorazioni nel Deserto Libico, apri la via a tutti i grandi sahariani del periodo fra la prima e la seconda guerra mondiale.
Quando Caporiacco arrivò a el Kufra la guarnigione italiana era comandata dal maggiore Rolle, lo stesso che accolse il conte Laslo von Almassy quando, durante una delle sue esplorazioni nel Gilf Kebir, il famoso esploratore ungherese rimasto senza acqua, stimò cosa più conveniente fare in prima assoluta la traversata di duecento chilometri di dune con una sola macchina, per venire a rifornirsi qui anziché ritornare alla più lontana oasi di Dakla.
Caporacchio descrive le sei oasi ricche di pozzi d’acqua e quindi con orti e campi ben coltivati.
Descrisse migliaia di piante di palma, ulivi, fichi, albicocchi, tamerici ed in alcuni luoghi più umidi, anche viti da ottima uva da tavola.
L’occupazione italiana, che aveva reso libera la popolazione autoctona dalla schiavitù imposta dai senussi, aveva dato i suoi frutti; gli antichi schiavi lavoravano ora per se stessi e condotti con perizia da agronomi italiani, ottenevano una resa agricola prima impensabile.
Noi, dopo aver avuto i visti di passaggio dalla polizia locale, aver fatto rifornimento di gasolio, acqua e verdure fresche, riprendemmo il viaggio verso sud con destinazione Jebel Arkenu.
Anche qui il deserto è molto bello, formato da erg di alte dune colorate di ocra gialla, ma ogni tanto fiancheggiamo una vecchia pista per il Sudan sporcata da residui abbandonati prima dalle carovane, poi dai camionisti: copertoni, bidoni vuoti, carogne di cammelli.
Incontriamo anche alcuni camion carichi fino a l’inverosimile, che arrancano verso sud con destinazione i campi profughi del Darfur.
Portano aiuti alimentari inviati dal generale Gheddafi con la speranza di arginare l’esodo dei profughi verso le coste del Mediterraneo.
Purtroppo quei disgraziati scappano lo stesso cercando di attraversare a piedi circa trecento chilometri di deserto Libico, non avendo neppure un’idea a cosa vanno incontro.
Molti, finita l’acqua, non trovano immediato aiuto, si fermano all’ombra di una grotta e lì la morte li raggiunge inevitabilmente.
A chi li trova non resta che dargli sepoltura sul posto accompagnando il gesto caritatevole con una preghiera cristiana o islamica, e nessuno saprà più niente di loro.
Il Jebel Archenu è un gruppo di rocce nere che si ergono in mezzo ai cordoni di dune ocra gialla.
Prende il nome da un tipo di acacia, l’Archenu, di cui da tempo immemorabile ne è rimasto un solo esemplare, collocato all’inizio di una valle che si addentra tra le montagne.
E’ l’albero visto da tutti i grandi esploratori sahariani che ne hanno fatto menzione nei loro scritti: da Hassanein Bey, a Kamal el Din, a John Ball, fino a Ralph Bagnold, Ardito Desio, Caporiacco e Laslo von Almassy.
Non c’è niente di interessante da vedere fra queste rocce nere, quindi proseguiamo verso il Jebel Awainat che, con i suoi 1934 metri s.l.m., incomincia ad apparire lontano sul fondo di una pianura di sabbia rossa leggermente ondulata.
Jebel Awainat, in lingua tebu “la montagna delle piccole sorgenti”, è un massiccio colossale di origine vulcanica con una circonferenza di circa centosessanta chilometri formato per la maggior parte di rocce granitiche, in parte ancora intatte, classificate fra le più antiche formazioni geologiche al mondo.
Il suo territorio è diviso fra l’Egitto, il Sudan e la Libia che ne possiede la parte maggiore; molto facile quindi inoltrarsi in una valle sul versante di uno stato e ritrovarsi in un altro.
La sua posizione geografica è sul punto di incontro tra il 25° meridiano ed il 22° parallelo, duecento chilometri a sud del grandioso altipiano del Gilf el Kebir.
L’Awainat è un grande museo a cielo aperto della pittura rupestre del paleolitico e del neolitico e uno scrigno contenente continue sorprese.
Si può entrare in valli caratterizzate solo da rocce e sabbie per poi sfociare in piccole valli dove un’umidità insospettata ha favorito lo sviluppo di acacie, cespugli fioriti ed erba che dà la possibilità di vita ad una catena animale.
Fino a poco tempo fa in questo luogo si potevano incontrare alcuni tipi di antilopi tra i quali il mitico waddan, il muflone africano, cacciato in maniera ossessiva dal principe egiziano Kamal el Din, che non riuscì mai a vederlo e da Laslo von Almasy che, per un colpo di grande fortuna, riuscì ad abbatterne un esemplare con una carabina Flober prestatagli da un componente della spedizione italiana di cui faceva parte anche il nostro Caporiacco.
Dal mio punto di vista, la cosa più interessante dell’Awainat è l’infilarsi letteralmente nelle grotte e negli anfratti che costellano le pareti delle piccole valli, anche strisciando, per trovare pitture o incisioni che, a volte, puoi essere il primo a vedere dopo migliaia di anni.
Trovammo un ambiente esaltante nel Karkul Thal, dove entrammo nonostante la scritta in arabo “Pericolo di mine” che i militari sudanesi avevano apposto su di un grande masso, evidentemente le nostre guide erano sicure del fatto loro in quanto aprivano il cammino e noi seguivamo esattamente i loro passi.
Una volta entrati nel Karkul Thal, dopo un centinaio di metri con pavimentazione a sabbia e ciottoli, il fondo si fa più sicuro ed accogliente perchè costituito da lastroni di granito molto grandi e compatti.
Nelle pareti laterali si aprono ininterrottamente, piccole caverne le cui pareti e volte sono coperte di pitture, veramente belle, a soggetto pastorale, con scene di caccia e di vita nei villaggi.
I colori utilizzati sono essenzialmente quattro: nero, rosso giallo e bianco, evidentemente le terre che i pittori di allora avevano a portata di mano.
Le pitture dell’Awainat scatenarono negli anni trenta del secolo scorso una diatriba fra Caporiacco ed Almasy sulla paternità della scoperta: da notare che, questi grandi esploratori, furono tutti e due qui nello stesso momento, Almasy ospite della spedizione italiana e che furono sguinzagliati per la ricerca degli anfratti con le pitture, gli ascari dell’esercito italiano ai quali, per ogni ritrovamento, fu promesso un premio in denaro.
Lasciammo l’Awaynat ripassando dall’Arkenu diretti alle sabbie di Rebiana, uno dei deserti più belli per la sabbia e le dune morbide.
Erg molli e serir ci accompagnarono fino ad arrivare all’oasi di Rebiana dov’è possibile fare rifornimento di verdura fresca, pane appena sfornato e, a volte, anche di gasolio.
Morbide dune color albicocca ci accompagnarono poi all’oasi abbandonata di Bzeah, qui un laghetto salato si sta asciugando, lasciando estese formazioni di sale bianco e beige, quando è misto alla sabbia.
Poi ancora sabbia, salite e discese di dune mozzafiato fino al bordo di un lago col fondo di gesso vetrificato dove, in un sito del paleolitico troviamo bellissime punte di lancia e coltelli di silice vetrosa.
Attraversiamo il fondo di un antico mare dove si trova lo scheletro di un piccolo aereo italiano da ricognizione, costruito dalle “Industrie meridionali” su brevetto Fokker, caduto probabilmente nel 1926.
Poi ancora serir polveroso ed infine sabbia che improvvisamente cambia colore diventando nera; ci avviciniamo al Waw Namus “La buca delle zanzare” un cratere imploso che ha formato una profonda caldera ricoperta di lapilli e sabbie nere costellate di cristalli di Olivina, un minerale friabile di colore verde.
Sul fondo della caldera, oltre dieci chilometri di circonferenza, c’è il cono del vulcano contornato di laghetti dai bei colori verde e blu, circondati da canneti rifugio di serpenti e zanzare.
Il rientro verso Sebha è caratterizzato da serir grigi e da zone di dune lunghe e facili da attraversare.
Un aereo libico ci porta a Tripoli e da lì la Swissair, attraverso Zurigo, ci riporta a Milano.
P.S. Ho volutamente ignorato il cambiamento della situazione in Libia a seguito dei tragici e dolorosi avvenimenti accaduti negli ultimi tempi.