Lo scorso ottobre ho visitato l’Etiopia del Nord (nota anche come Abissinia): niente di particolarmente avventuroso, un tour organizzato con minibus e guida locale di lingua italiana. Il viaggio è stato l’occasione per approfondire le conoscenze sulla presenza italiana nel Corno d’Africa, di cui la breve conquista etiopica è stata l’esperienza più tragica.
L’Etiopia è uno dei pochi paesi africani che può vantare una civiltà millenaria e che (a parte i pochi anni dell’occupazione italiana, dal 1936 al 1942) non ha subìto la colonizzazione delle potenze europee. Inoltre, l’Etiopia è stato uno dei primi paesi a essere evangelizzato, già nel quarto secolo. Per queste origini e per il suo isolamento (paese cristiano circondato da popolazioni ostili) ha conservato tradizioni che ricordano il nostro medioevo: a volte sembra che il tempo si sia fermato all’epoca di Cimabue.
Per preparare il viaggio, ho cercato notizie sia sul web che nei libri (trovate la bibliografia in fondo a questo testo). In particolare, ho recuperato una copia della “Guida dell’Africa Orientale Italiana” preparata dal CTI (Consociazione Turistica Italiana, nome forzatamente italianizzato del più noto Touring Club Italiano). La guida, che conta oltre 600 pagine scritte in carattere microscopico, fu stampata nel 1938 in ben 480.000 copie e distribuita gratuitamente ai soci. Tenendo presente che l’Etiopia fu occupata dagli Italiani nel 1936, la cura e il dettaglio con cui fu preparata in soli due anni, hanno dell’incredibile. Viene da pensare che molte cose siano state inventate, ma persino il nostro accompagnatore etiope ce la raccomandava come la guida più accurata disponibile oggi. Il libro, che include tutte le regioni dell’allora Africa Orientale Italiana (corrispondenti alle attuali Etiopia, Eritrea e Somalia) è anche disponibile nel web in versione pdf al seguente link: http://www.petitesondes.net/Guida-AOI.htm.
Il testo descrive in modo minuzioso tutti i percorsi e i luoghi, riportando gli indirizzi di alberghi e ristoranti (“Albergo Centrale”, “Trattoria Romagnola”), servizi e uffici pubblici (“Posta e Telegrafo”), collegamenti stradali (“linee di autopullman della ditta Gondrand”): sembra la descrizione di un’amena provincia italiana. Con la sua lettura, gli Italiani potevano immaginare il nuovo paese come una terra amichevole e familiare, dove stabilirsi per lavoro o dove andare per una vacanza. In realtà, la guerra di conquista – o di aggressione, secondo il punto di vista dell’Etiopia e dell’allora Società delle Nazioni – fu particolarmente atroce e gli Italiani non riuscirono mai ad avere il pieno controllo del territorio. Nel paese erano presenti bande di ribelli (“terroristi” per gli occupanti italiani, “partigiani” per gli indigeni) che rendevano pericoloso qualsiasi spostamento. A questi pericoli oggettivi, la guida non fa mai cenno. Nei programmi del fascismo, l’AOI (Africa Orientale Italiana) doveva diventare la destinazione di milioni di coloni italiani altrimenti destinati all’emigrazione in terre straniere e la Guida dell’Africa Orientale Italiana faceva parte di quel disegno.
Ma, prendendo la guida alla lettera, il dettaglio delle informazioni pratiche è degno delle prime edizioni delle Lonely Planet o della mitica South American Handbook (quelle stampate quando non esisteva internet e tutte le informazioni dovevano stare in un manuale tascabile). Le informazioni turistiche hanno lo standard delle Guide Rosse del Touring Club: sobrio ma molto accurato. Anche oggi, molti dei luoghi e dei monumenti descritti sono fuori dai percorsi turistici e nello stesso oblio in cui erano stati trovati allora.
Data l’epoca di stampa e la cultura imperante, molto spazio è destinato alle battaglie combattute nella zona, con meticolose descrizioni delle operazioni e degli atti “eroici” dei soldati italiani: invito comunque a consultare altri testi per avere una rappresentazione obiettiva delle azioni e delle efferatezze dell’esercito italiano, che utilizzò armi chimiche (iprite e fosgene) in spregio alla Convenzione di Ginevra del 1925 e condusse feroci azioni di repressione della resistenza (si veda l’episodio di Debra Libanos, dove il viceré Graziani fece passare per le armi centinaia di monaci).
“Il generale Graziani era un macellaio” dice la nostra guida “ma bisogna distinguere tra i militari e il popolo italiano“ prosegue diplomaticamente, lasciando intendere un rapporto piuttosto complesso tra i due popoli, non diverso da quello che possiamo avere noi con i tedeschi.
La prima parte del libro (circa 150 pagine) fornisce le informazioni generali sul paese e sulle vie di accesso. È perfino proposto un itinerario di 50 giorni per il turista che disponga di un autoveicolo, con i consigli per l’equipaggiamento (“casco di sughero con larga visiera e allargato posteriormente per proteggere la nuca, occhiali da automobilista contro la sabbia, fascia di lana intorno al ventre per evitare disturbi intestinali”), per la preparazione del veicolo (vedere riquadro qui sotto), per le precauzioni igieniche e per il “contegno con gl’indigeni” (a partire dal 1937, l’Italia adottò una legislazione che instaurava nelle colonie un regime di segregazione razziale non molto diverso da quello sudafricano).
Interessante la descrizione delle vie di accesso dall’Italia, che sono descritte come dei viaggi normali per viaggiatori qualsiasi, anche se richiedevano diversi giorni o settimane di viaggio complesso. Tra le varie proposte, segnalo le seguenti.
Attraverso l’Egitto e il Sudan: da Genova ad Alessandria d’Egitto in piroscafo (5 giorni, quindicinale), da Alessandria al Cairo in treno (2 ore e 45’, con il direttissimo), ad Assuan e a Shellai per ferrovia (18 ore), da Shellai a Wadi Halfa in piroscafo (36 ore, due volte alla settimana), poi ancora fino a Khartoum per ferrovia (26 ore, due volte la settimana, in corrispondenza con il piroscafo) e da Khartoum a Cassala (vicino al confine etiope) per camionabile o ferrovia (si consiglia la seconda, ore 29.30). In tutto, sono circa 11 giorni netti, escluse le attese per le coincidenze.
Da Roma ad Asmara e Addis Abeba in aereo con la Linea dell’Impero: idrovolanti e aerei trimotori per coprire 6379 km in tre giorni e mezzo, con soste a Siracusa, Bengasi, Cairo, Wadi Halfa, Khartoum, Cassala, Asmara, Dire Daua (vedere riquadro qui sotto, per apprezzare la meticolosità delle informazioni e immaginare l’avventura).
Il viaggio, sulle tracce della guida del 1938
Di seguito riporto una breve descrizione del mio viaggio, prendendo come riferimento quanto esposto dalla guida del 1938.
L’itinerario ha toccato i luoghi storici seguendo la sequenza cronologica del loro sviluppo: Axum, Mekele (Macallè) e le chiese del Tigray, Lalibela, Gondar e il Lago Tana. Qui sotto, riporto il tracciato rilevato con il GPS.
Axum
Oggi si arriva ad Axum con un moderno bimotore dell’Ethiopian Airlines, ma il paesaggio sorvolato è ancora identico a quello descritto nella guida del 1938. Il piccolo aeroporto è una striscia di asfalto tra campi di tef ancora coltivati con metodi medioevali (il tef è il cereale nazionale, ingrediente principale dello injera, il piatto nazionale, onnipresente). L’ingresso della cittadina, invece, è un grande cantiere incompiuto: scheletri in cemento armato di nuovi edifici, puntellati da rudimentali impalcature di eucalipto. Motorisciò azzurri (uguali a quelli indiani) fanno il servizio di taxi: saranno una presenza costante in tutte le cittadine dell’Etiopia.
La strada principale (che ora si chiama Denver street) termina in un piazzale polveroso su cui si affacciano sia il recinto delle steli che quello delle chiese storiche. Le steli sono la testimonianza più famosa della civiltà Axumita, che si sviluppò nel IV e III secolo avanti Cristo, che si estese dall’Etiopia allo Yemen e che ebbe in Axum la capitale. Il personaggio più noto della civiltà axumita è la Regina di Saba, che ebbe un figlio (Menelik) dal re Salomone di Gerusalemme. Secondo la tradizione, Menelik tornò ad Axum portando con sé l’Arca dell’Alleanza (quella che contiene le tavole della Legge, consegnate da Dio a Mosè sul monte Sinai). Il recinto delle steli racchiude le due steli maggiori (alte circa 20-25 metri, una delle quali fu portata a Roma dagli Italiani nel 1937, restituita nel 2005 e innalzata definitivamente nel 2008), una stele crollata (“grande Stele” o stele del re Ramhai) che misura circa 33 metri, un piccolo museo chiamato pomposamente “museo nazionale”, alcune tombe e altre costruzioni minori.
La seconda attrazione di Axum è il gruppo di chiese di Mariam di Tsion: un’enorme e brutta chiesa moderna che assomiglia a una moschea, la cappella con l’Arca dell’Alleanza e le Tavole della Legge, i resti di una chiesa più antica e un museo. Un’altra chiesa indicata dalle guide, che risale al XVII secolo (“la cattedrale”), è chiusa per restauro. La cappella dell’Arca non è visitabile: nessuno può vedere l’Arca tranne l’unico custode, che passa tutta la sua vita nell’edificio. Secondo la guida CTI, anche se qualche profano tentasse di vederla, essa si renderebbe invisibile. Ci vuole fede, dice il nostro accompagnatore. Tutto il complesso avrebbe bisogno di una radicale manutenzione: resti di lavori mai terminati, pavimentazioni incomplete, costruzioni sommarie, arredi e finiture grossolane che richiamano l’ascetica trasandatezza dei monasteri buddisti del Ladak. Il museo, in uno scantinato, sembra un magazzino (finestre di ferro, luci al neon, scatoloni) ma contiene una raccolta straordinaria di oggetti regali e sacri (croci e corone in argento, paramenti, strumenti musicali).
A Dungur, circa un chilometro dal centro abitato in direzione di Gondar, tra campi di tef, si trovano le rovine del palazzo detto della Regina di Saba, ma di attribuzione incerta. Poco distante, contadini mietono ancora il tef con il falcetto corto e lo “battono” calpestandolo con due buoi. Questo cereale, molto delicato (perde facilmente i piccoli chicchi), non è adatto all’agricoltura meccanizzata e deve essere raccolto e trebbiato a mano.
Da Axum a Mekele (il Tigray), circa 250 km
Adua, a circa 25 km da Axum, è una città abbastanza grande ma insignificante, ai piedi di un monte bitorzoluto che sembra quello del film “incontri ravvicinati del terzo tipo”. Solo un piccolo monumento italiano, seminascosto nell’anonima periferia, ricorda la battaglia del 1896, nella quale l’esercito italiano fu sconfitto dalle truppe etiopi di Menelik II. Fu la prima sconfitta di un esercito coloniale da parte degli africani (dopo Annibale). Ancora oggi, il primo marzo, data della battaglia di Adua, in Etiopia è festa nazionale.
Una deviazione di 5 km dalla strada principale asfaltata porta al tempio di Yeha, del periodo sabeo, una civiltà post axumita e pre-cristiana che , sulle due sponde del mar Rosso, si estendeva dal sud della penisola arabica agli altipiani etiopi. Oggi rimane la cella del tempio, costruzione in pietra molto accurata, del IV secolo avanti Cristo, unica nella zona, probabilmente ispirata al tempio di Salomone di Gerusalemme. Vicino al tempio, una modesta chiesa copta ospita un piccolo e polveroso museo presidiato da un simpatico monaco. Nel museo, una vetrinetta è zeppa di libri in pergamena, croci e altri oggetti sacri. Attorno, si vedono pietre scolpite e altri oggetti curiosi: un piccolo tesoro inaspettato.
Si ritorna sulla strada principale asfaltata e, dopo un po’ di chilometri, un’altra deviazione di 15 km verso nord porta a Debre Damo, dove si trova il più antico monastero cristiano copto dell’Etiopia.
Il monastero sorge su una montagna piatta e isolata (amba) alla quale si accede solo salendo una corda di cuoio che permette di superare una parete verticale di circa 15 metri. Il personale del monastero aiuta la salita dei turisti, che sono mediamente più pasciuti e meno agili degli indigeni.Saliti sulla rupe (non sono ammesse le donne), si raggiunge il villaggio dei monaci, dove vivono in modo autosufficiente un centinaio di persone (tutte salite con la corda) e sorge la chiesa originale del VI secolo, la più antica d’Etiopia, costruita in legno e pietra in stile axumita. Debre Damo (Abune Aregawi) è uno dei nove santi evangelizzatori dell’Etiopia e il monastero richiama durante l’anno numerosi pellegrini.
Dopo avere scavalcato un valico di oltre 3000 metri (passo di Alequà, m 3010), la strada principale raggiunge Adigrat. Ad Adigrat, invece della solita injera, si possono degustare gnocchi fatti con farina di tef e acqua, da intingere in una specie di gulasch piccante.
Da Adigrat a Macallè (o Mekele), la strada diventa più facile: finiscono le montagne e comincia l’altipiano.
Macallè, che oggi conta 260.000 abitanti, non assomiglia più alla descrizione della guida. E’ una città anonima e caotica, affollata di camion. Fuori città, è appena stato completato un enorme parco di pale eoliche. Degno di nota è il grande mercato, molto animato. L’unico albergo (con quattro camere), indicato dalla guida del 1938, non esiste più: noi siamo ospitati in un incredibile hotel cinese a cinque stelle, appena inaugurato, con uno standard eccessivo per i luoghi ma con un livello di manutenzione tipicamente locale che lascia presagire un veloce decadimento.
Le chiese del Tigray
Il Tigray, la regione attorno a Macallè, conta 112 chiese rupestri, molte delle quali ancora in uso. In una giornata si riesce a visitarne solo un numero limitato. Noi abbiamo visitato la zona di Takatisfi, 70 km a nord di Macallè, lungo la statale per Adigrat. Oltre alle chiese, è interessante osservare il territorio coltivato e conoscere i suoi abitanti. E’ come un viaggio nel tempo fino al nostro medioevo: agricoltura di sussistenza basata sul lavoro manuale e sulla trazione animale, chiese affrescate con gli episodi del vecchio e del nuovo Testamento, riti religiosi complessi dove la presenza del fedele è passiva. Le case sono ancora molto semplici: una stanza di abitazione e il ricovero per gli animali raggruppati attorno ad un cortile chiuso da mura in pietra.
Le chiese visitate non sono descritte nella guida CTI, essendo state quasi sconosciute fino agli anni ‘60. Nell’ordine, abbiamo visitato le chiese di Petros Paulos, Mikael Melehayzenghi, Medhane Alem Adi Kasho. La prima (Petros Paulos) appare appesa al fianco di una montagna ed è raggiungibile con un’incerta scala di legno. All’interno della piccola navata, si può ammirare un ciclo di affreschi molto vivi e ben conservati. La seconda (Mikael Melehayzenghi) appare dall’esterno come una cupola di roccia, ed è interamente scavata nell’arenaria. Il soffitto è scolpito a formare una cupola piatta con un disegno molto elaborato. La terza (Medhane Alem Adi Kasho) è una delle più antiche (VIII secolo) e si raggiunge con una passeggiata di circa quindici minuti.
Sulla via del ritorno verso Makallè, si consiglia una sosta a Wukro per acquistare il miele bianco prodotto da fioriture che includono anche il fico d’india e l’euforbia. Il miele è prodotto dagli apicoltori dell’associazione Selam, presidio Slow Food.
Da Macallè a Lalibela, circa 440 km
Oggi, il percorso più semplice tra Macallè e Lalibela segue la strada asfaltata per Addis Abeba fino a Woldia, poi devia a ovest verso Gashena e dal lì diventa una pista di circa 60 km verso nord fino a Lalibela.
La strada per Addis Abeba fu costruita dagli Italiani per unire Asmara (la capitale dell’Eritrea) al capoluogo del nuovo impero. Bisogna riconoscere la qualità dell’opera e l’impegno profuso in così breve tempo, ma tra guerre e opere pubbliche anche il bilancio economico dell’avventura etiopica fu ampiamente negativo per l’Italia. Qui sotto, si riporta un dettaglio della guida sui lavori eseguiti per realizzare la “Strada della Vittoria”.
Uscito da Macallè in direzione sud, l’itinerario costeggia il massiccio dell’Amba Aradam (teatro di una battaglia, molto complessa, durante l’invasione italiana del 1936) e valica un passo in prossimità dell’Amba Alagi (altro luogo famoso per una battaglia combattuta e persa dagli Italiani nel 1895: 2.300 Italiani contro 30.000 Abissini).
Dopo il bivio di Woldia, la strada sale su un altipiano e corre tra pascoli e capanne di paglia. A ogni sosta, anche nei luoghi apparentemente deserti, spuntano decine di bambini a curiosare e a chiedere qualcosa (allo scopo, conviene preparare una scorta di penne biro).
Si arriva a Lalibela che è già notte. Gli ultimi chilometri di pista sono affollati di persone e animali che tornano a casa. Il tramonto è il momento più affollato della giornata, un intero popolo che a piedi raggiunge la sua dimora, una specie di enorme e sobrio happy hour illuminato dalla luce fantastica del tramonto.
A queste latitudini, il tramonto arriva sempre improvviso e puntuale alle sei del pomeriggio. In Etiopia, le ore si contano in modo originale partendo dall’alba, che qui è sempre alle sei del mattino. Quindi la giornata è divisa in dodici ore diurne, dedicate al lavoro, e 12 ore notturne, dedicate al riposo (lo facevano anche gli antichi romani, per loro l’ora sesta era il nostro mezzogiorno). Anche gli orologi sono allineati a questa convenzione (a mezzogiorno segnano le sei).
Lalibela
Come evidenzia anche la guida CTI, Lalibela è famosa per le sue chiese monolitiche (oggi è anche un sito dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO). Oggi molte chiese sono coperte da antiestetiche coperture reticolari visibili da lontano (per proteggerle dagli agenti atmosferici), ma bisogna immaginare questo luogo nel passato: tutto il complesso di chiese e di percorsi era completamente invisibile da lontano.
Da non perdere l’opportunità di assistere ai riti religiosi che si svolgono prima dell’alba. Grazie alle caratteristiche del calendario etiope (12 mesi di trenta giorni, ognuno dei quali dedicato a un santo, più un tredicesimo mese di 5 o 6 giorni) ogni santo sono festeggiati una volta al mese. I riti, molto affollati, iniziano alle quattro di notte, sotto un cielo stellato come si vede solo in Africa, e terminano all’alba, tra decine di preti e pellegrini vestiti di bianco.
Da Lalibela a Gondar, circa 360 km
Da Lalibela, si ritorna per strada sterrata fino a Gashena, poi si prosegue su strada asfaltata verso ovest, attraverso paesaggi fittamente coltivati. Dopo Debre Tabor, la strada si innesta su quella che unisce Addis Abeba a Bahir Dar e Gondar.
Gondar conserva ancora il centro costruito dagli Italiani in stile razionalista (ufficio postale, cinematografo, edifici amministrativi), ma si visita soprattutto per il castello di Fasiladas e per alcune chiese affrescate. L’Hotel Goha è il più popolare tra i viaggiatori e sorge su un’altura con una vista magnifica sulla città e sul territorio.
Il castello di Fasiladas fu costruito nel 1600 in stile portoghese (in quel periodo l’Etiopia intratteneva rapporti con i gesuiti portoghesi che venivano da Goa, in India). Il castello è formato da una cinta muraria di circa 800 metri all’interno della quale ci sono le residenze dei re che si sono succeduti in quel tempo (ognuno di essi si costruiva un nuovo palazzo). Il complesso fu restaurato dagli italiani nel 1936 e bombardato dagli inglesi nel 1941.
La chiesa di Dabra Berhan Selassiè, è considerata dai locali la Cappella Sistina dell’Etiopia. Sorge all’interno di una cinta muraria e contiene pitture murali molto affascinanti, che raccontano in riquadri la storia di Gesù e di Maria. Interessanti l’immagine della Trinità, che in Etiopia è sempre rappresentata con tre figure identiche, e l’immancabile san Giorgio che uccide il drago.
Da Gondar a Bahir Dar (200 km), il lago Tana, le cascate del Nilo Azzurro
Bahir Dar è oggi una moderna città sulle rive del lago Tana, vicina al punto dove nasce il Nilo Azzurro. Sulle rive del lago, raggiungibili in battello, ci sono numerose chiese, alcune con la caratteristica forma a capanna circolare, che racchiudono dipinti inaspettati e meravigliosi.
A circa 30 km dal lago (strada sterrata), il Nilo Azzurro forma una grande cascata che si sviluppa su un fronte di qualche centinaio di metri. Il luogo delle cascate si raggiunge con una passeggiata di circa mezz’ora, partendo da un vicino villaggio.
Con le cascate del Nilo finisce il nostro viaggio. Da Bahir dar un aereo ci riporterà ad Addis Abeba e in Italia.
Complessivamente, anche in assenza degli stereotipi africani di animali, deserti ed etnie, l’Etiopia del nord è uno dei paesi più autentici e originali del continente africano. Alla fine del viaggio rimane il desiderio di tornare per continuare la visita in modo più approfondito.
Rimane infine la voglia di informarsi in modo più obiettivo sulla breve parentesi coloniale italiana di quasi ottant’anni fa, dimenticata e distorta nella memoria del nostro paese, e dalla quale emerge un’immagine diversa da quella degli “Italiani brava gente”.
Bibliografia
Gaetano Passigato, Mezzane di Sotto (VR), gae.passigato@gmail.com